LA VECCHIAIA NON È UN PESO, MA UNA FASE DIGNITOSA DELLA VITA

Montaigne, nei suoi Saggi, non fa solo una straordinaria pittura di se stesso, ma dell’uomo in generale. Leggiamolo in questa superba considerazione sul pentimento, che è autentico se riferito alla riforma morale di se stessi, indebito, invece, se è misconoscimento dei propri limiti, strutturale incapacità di riconoscere la nostra fragilità, le cose di cui possiamo o non possiamo disporre:

«Quanto a me, posso desiderare in generale di essere diverso; posso condannare e dispiacermi del mio modo d’essere in generale, e supplicare Dio per il mio completo mutamento e per il perdono della mia naturale debolezza. Ma questo non lo posso chiamare pentimento, mi sembra non più che il dispiacere di non essere né angelo né Catone. Le mie azioni sono regolate e conformi a ciò che io sono e alla mia condizione. Non posso far meglio. E il pentimento non tocca propriamente le cose che non sono in nostro potere, bensì le tocca il rimpianto. Immagino infinite nature più alte e più equilibrate della mia; tuttavia non miglioro le mie facoltà; così come né il mio braccio né il mio animo diventano più vigorosi solo perché io ne concepisco altri che siano tali».

Questa riflessione vale tanto più nella vecchiaia, che non deve essere né l’età del rimpianto a oltranza, né quella del pentimento per tutto quello che non possiamo più fare, bensì un momento vitale di riconoscimento del limite che da sempre ci abita, corroborato, però, dall’entusiasmo per tutta quella preziosa trama di progetti, quella feconda rete di significati e di idee con cui rinominare il mondo, non all’insegna di un patetico giovanilismo, ma di una calda e responsabile presa di coscienza di una ineludibile, ma non per questo meno appagante, fase della vita.

La vecchiaia moderna purtroppo ha smarrito la visione di sé come dignitosa trama di significati vitali, proprio nella misura in cui il vecchio non si configura più come memoria, trasmissione di un sapere comunitario, poiché la memoria è stata affidata al computer, il cui uso, con la connessa conoscenza, è custodito dalle giovani generazioni. Il vecchio ( in greco: geron) non è nemmeno più oggetto di venerazione, venerando (in greco: geraros), poiché la vita si è allungata e, quindi, l’invecchiare non si configura più come segno di eccellenza, di distinzione, di assoluto privilegio, espressivo di uno spazio sociale quasi sacro, ma come visibile icona della morte, sua anticipazione carnale. Ecco, allora, che il vecchio non si sente più riconosciuto come essere progettante, ma come segno del declino della vita che, in quanto angoscia chi è nel pieno delle forze, va rimosso. Da qui i vecchi parcheggiati nelle case di cura o emarginati nei parchi delle città come custodi dei nipotini, con i quali comunicano tramite il gesto (la carezza, il bacio, l’abbraccio…), ma non con la parola matura, con l’ideazione, da cui sgorgano progetti da condividere, fattivi contributi alla realizzazione del bene comunitario.

Ma i come oggi, inoltre, è difficoltoso stabilire l’età in cui inizia la vecchiaia e come definirla. Da temporalità storico-biologica, infatti, si è trasformata in spazio sociale, ed è, quindi, determinata, in particolare, dall’inclusione/esclusione dagli ambiti lavorativi, oppure è diventata ambita preda del mercato: dagli eccessi del bisturi, al fitness, all’organizzazione di viaggi, tutto concorre a illudere l’anziano di essere ancora iperattivo, esuberante, efficacemente inserito nel mondo attivo, quando, di contro, l’opera di reificazione tecnologica lo ha svilito a cosa tra le cose, utilizzabile, ricambiabile, riciclabile.

Con il sopraggiungere della vecchiaia, tuttavia, non viene meno la nostra essenza: «Per quanto vecchi si diventi, dentro di sé ci si sente comunque in tutto e per tutto gli stessi di un tempo, quando si era giovani, anzi bambini. Ciò che rimane immutato e sempre identico, e non invecchia col passare degli anni, è appunto il nucleo della nostra essenza, che non sta nel tempo, e proprio per questo è indistruttibile» (Schopenhauer, L’arte di invecchiare, Adelphi, 2006).

Invecchiare bene, o perlomeno nel miglior modo possibile, deve essere il compito di ogni frammento della nostra vita. In questo senso la cura dei libri, la biblioterapia, costituisce un farmaco davvero prezioso per sopportare i morsi del tempo e ricollocare la propria irripetibile umanità entro nuovi scenari esistenziali, non più contrassegnati dall’estasi della velocità, ma dai ritmi lenti e pensosi nei quali assaporare tutta la ricchezza delle proprie risonanze interiori. Insomma, la vecchiaia dovrebbe essere il momento in cui la parola che si è fatta storia subentra al gestoproduttivistico.

Alla luce di quanto abbiamo detto, possiamo, allora, tentare di fissare alcuni punti fermi:

1)  Occorre, nella vecchiaia, un lavoro di distillazione del tempo, cioè saper gustare con lentezza, con sobrietà, con ricercata pazienza, i momenti puri, essenziali del vivere, in modo da non pietrificare la propria vita in un presente rassegnato,  chiuso al futuro, dove, per dirla con Camus, alla passione subentra la compassione. 

2) Essenziale è, poi,  leggere, scrivere, dialogare con ogni forma d’esistenza che possa arricchirci o che possiamo contribuire a rendere migliore. E, poi, allenare i giovani alla pazienza, espressiva di un pensiero prospettico contro l’ideazione tecnologica mordi e fuggi, farsi archivi ambulanti di un sapere sostanziato da tutta una vita, memorie carnali contro la memoria robotica della tecnica.

Questa è la vecchiaia, non quella accantonata, perché spolpata dagli anni e, quindi, non più funzionale al mercato, o quella  mascherata dalle indebite esasperazioni della chirurgia plastica.

3)  La morte, infine,  all’insegna dell’ambivalenza tipica del moderno, oggi viene o spettacolarizzata e , quindi, deprivata di senso, banalizzata, de-tragicizzata, oppure occultata, poiché appare la somma contraddizione dell’efficienza perpetua che ci è da più parti promessa. Ha ragione, in questo senso,  Piero Melograni, in La modernità e i suoi nemici (Mondadori, 2000), quando afferma che  nei necrologi si evita l’uso del verbo “morire”,  sostituendolo con eufemismi quali: “trapasso”, “decesso”, “perdita”, “dipartita”, “scomparsa”, “andarsene”, “ci ha lasciati”.

Non si può nascondere, tuttavia,  che la vecchiaia è progressivo cammino verso la morte, proprio per questo, allora, dobbiamo aprirci nel segno del dono e della riconoscenza nei confronti di ogni vecchio, ovvero partecipare affettivamente alla sua finitezza, che è poi anche la nostra.

by FABIO_GABRIELLI | ricercastudio.ch

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