Giovedì scorso, presso l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, si è tenuto un convegno dedicato a un fenomeno che, se stiamo ai libri di scuola e alla cultura diffusa, non esiste più: la schiavitù. Certamente non ci sono più navi cargo che trasportano esseri umani da comprare e vendere, ora è tutto molto più sottotraccia e molto ben organizzato. È così che milioni di esseri umani, poco meno di 50 milioni secondo l’ONU, vivono in uno stato servile, in balia di aguzzini che ne fanno compravendita come fossero oggetti. Tra di loro, la merce più richiesta è quella delle donne, da avviare alla prostituzione, volenti ma soprattutto, il più delle volte, nolenti. Botte e minacce sono parte integrante del processo di persuasione di molte, alcune poco più che bambine, per andare sui marciapiedi e prestarsi non solo alle pulsioni dei clienti, ma spesso anche alle derisioni e alle violenze gratuite di giovani perdigiorno.
Sono stati tantissimi i contributi preziosi portati al convegno, dove c’è chi si è chiesto come sia possibile che il cittadino medio sia monitorato fino nei recessi più nascosti della propria privacy e un mercato orrendo come quello collegato alla tratta di esseri umani possa passare così inosservato, fino a inondare le strade delle città o attorno alle città, sotto forma di accattonaggio o prostituzione. E che si tratti di un fenomeno dilagante lo dicono i numeri: la tratta per introiti viene dopo soltanto al traffico di droga e di armi, e le leggi non sembrano bastare per limitarla o cancellarla. In questo senso le proposte esistono: ad esempio negare i benefici carcerari a chi è trovato colpevole di riduzione in schiavitù, ma non sembra esserci una sensibilità abbastanza evoluta nel legislatore per poter stroncare questo genere di mercato disumano. Lo stesso ministro Antonio Tajani, in una sua osservazione, sembra gettare la spugna: «dove lo Stato non arriva, subentri la società civile».
È esattamente ciò che già accade, in realtà. Numerose sono state le testimonianze di soggetti che a vario titolo, e in genere provenienti dal mondo del volontariato cattolico, intervengono per cercare di mitigare gli aspetti più devastanti del fenomeno della tratta, un fenomeno che, a ben osservarlo, si ramifica pericolosamente in ambiti apparentemente lontani, come il bullismo, il cyberbullismo e similari. Pur nelle immense difficoltà, il volontariato – anche cattolico – sembra attecchire, forse perché buona parte del fenomeno riguarda paesi con una vivace religiosità, come la Nigeria o la Romania, ma si tratta di interventi coraggiosi, non di rado eroici, che estendono i loro effetti soltanto a valle del fenomeno, laddove ci sono anime ridotte in schiavitù e sotto ricatto, e come tali perdute, da recuperare, con l’aiuto pratico ma anche con la preghiera, che non di rado è la prima via di fuga e di libertà per molti dei nuovi schiavi.
C’è però un segnale preoccupante, raccontato da don Aldo Buonaiuto, della Comunità di San Giovanni XXIII: «trent’anni fa i “clienti”, vedendo un prete scendere da una macchina se la svignavano in fretta, un po’ vergognosi, senza dare nell’occhio», mentre oggi quel tipo di resipiscenza non sorge più, non c’è più freno né remora, anzi talvolta volano bottiglie, quasi fosse un diritto, nell’orgia di diritti che ha affogato tutte le società occidentali, poter sfruttare la prostituta, o deridere l’accattone di turno, o accettare, orrore estremo, qualche organo strappato da chissà chi, e venduto nei mercati sotterranei del dark web (perché sì, anche questo fa parte della tratta). Servirebbe che le istituzioni, invece di arrendersi e alzare le mani in segno di resa, sostenessero l’associazionismo che si occupa di assistere, recuperare, formare, in una parola salvare le vittime di questo mercato. Perché sì, la società civile è pronta e organizzata a questo scopo, ma per essere efficace ha bisogno di sostegno, di fronte a un’emergenza che è molto più reale di tante altre che vengono sbandierate con enfasi sui media.
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