La testimonianza di un’ex suora di clausura

suora-940x380Innanzitutto vorrei dirvi che non rendo questa testimonianza a motivo di qualche sentimento di odio nel mio cuore verso i credenti Cattolici Romani. Non potrei essere Cristiana se avessi ancora dell’amarezza nel cuore. Dio mi liberò da ogni amarezza e da ogni lotta in quel giorno, divenendo reale nella mia vita, con la potenza dello Spirito Santo. Rendo dunque questa testimonianza perché dopo avermi salvata, Dio mi liberò dal convento e dalla schiavitù e dalle tenebre. Il Signore mise sul mio cuore il peso di rendere questa testimonianza così che altri potessero sapere cosa significa vivere in convento. Perciò, nell’ascoltare con attenzione la mia testimonianza, confido che nessuna delle cose che dirò potrà lasciare nei vostri cuori la sensazione che io non porti un peso per i credenti Cattolici Romani. Non amo le cose che essi fanno, e non sono d’accordo con i loro insegnamenti, ma desidero le loro anime per Gesù. Sono interessata alle loro anime. Io credo che Gesù andò al Calvario. Egli morì affinché tu e io potessimo conoscerLo. E le loro anime sono preziose proprio quanto la tua e la mia anima. Questo è il motivo del mio interesse.

Sono nata nel Cattolicesimo Romano, non conoscendo altro, non conoscendo la parola di Dio perché non avevamo una Bibbia in casa nostra, non avevamo mai sentito parlare del meraviglioso piano di salvezza del Signore. E così, naturalmente, crebbi in quella casa Cattolica Romana da bambina, conoscendo solo il catechismo, conoscendo soltanto gli insegnamenti della Chiesa Cattolica Romana. E, dato che amavo il Signore, e volevo fare qualcosa per Lui, desideravo darGli la mia vita. Non conoscevo alcun altro modo mediante il quale una ragazza Cattolica Romana potesse dare la sua vita a Dio, se non quello di entrare in un convento, e rivolgermi al confessionale dove, naturalmente, si è sotto l’influenza del padre-confessore, il prete Cattolico Romano.

Un giorno, attraverso la sua influenza e quella di uno dei miei insegnanti nella scuola parrocchiale, decisi di voler diventare una sorellina. All’epoca pensavo di diventare una suora dell’ordine libero, e andando avanti, fino al momento di prendere il velo, all’età di sedici anni e mezzo, tutto mi sembrava meraviglioso. Non avevo davvero alcun timore nel mio cuore. Tutto ciò che mi era stato insegnato sembrava coincidere con gli insegnamenti che avevo ricevuto in chiesa prima di entrare nel convento. E così un giorno, dopo essermi decisa ad entrare in convento – ricordo quel giorno particolare – due sorelle mi accompagnarono a casa dalla scuola. Erano mie insegnanti. E quando arrivammo a casa di mio padre quel pomeriggio, vi trovammo anche il nostro padre-confessore. Spesso dico che quando ero piccola i bambini venivano visti ma non ascoltati. In casa mia, da bambini non si parlava se un adulto non ti rivolgeva la parola. E ricordo che ascoltai la loro conversazione, quindi mi avvicinai a mio padre e gli chiesi se potevo dirgli qualcosa. Era qualcosa di inusuale. Lui mi permise di parlare e io dissi: “Papà, voglio andare in convento”. Le mie parole destarono immediatamente l’interesse del prete, che già da tempo stava influenzandomi nella scelta. Mio padre si commosse e cominciò a piangere, non per tristezza, ma per la gran gioia. Mia madre venne e mi abbracciò, e anche lei pianse. Era molto felice. Quelle non erano lacrime di tristezza, perché pensava al fatto che la sua bambina stava dando la sua vita al convento per pregare per l’umanità perduta. E naturalmente la mia famiglia fu entusiasta della cosa, come anch’io lo ero. Ma, comunque, non andai prima di un anno da allora, quando giunse il tempo in cui mi ero preparata e mia madre aveva preparato ogni cosa per me. Così entrai in convento.

La scuola del convento
Non c’era un posto vicino alla casa dei miei genitori, così mi portarono via a quello che mi parve essere più di un migliaio di chilometri da casa, dove entrai nel collegio del convento. Avevo quasi 13 anni. Ero solo una ragazzina. Ora, guardando indietro, mi colse la nostalgia di casa. Ne soffrii molto; mia mamma e mio papà erano stati tre giorni con me e poi se n’erano andati. Era naturale che soffrissi di nostalgia; ero solo una bambina lontana da casa. Da piccola non avevo mai passato una notte lontana da mia mamma, e non ero mai andata in alcun posto senza la mia famiglia. E naturalmente c’era un forte legame nella nostra famiglia e io ero molto sola e sentivo la loro mancanza. Ma non dimenticherò mai il momento in cui, dopo che mia mamma mi aveva salutato, mi resi conto che i miei genitori stavano andando via, molto lontani da me, e non avevo mai realizzato nel mio cuore: “Non li vedrò mai più!”. Naturalmente, non avevo idea che le cose sarebbero andate così perché avevo deciso di essere una sorella dell’ordine libero. Ma, se ascoltate attentamente questa parte della testimonianza, capirete perché sto dicendo queste cose.
All’età di sette anni andavo al confessionale. Quando entravo in chiesa, mi inchinavo ai piedi del crocifisso, o piuttosto, alla vergine Maria e poi ai piedi del crocifisso, e chiedevo alla vergine Maria di aiutarmi a fare una buona confessione, perché ero una bambina e il mio cuore era sincero. E sapevo che il prete ci aveva insegnato a fare sempre una buona confessione. Non dovevo nascondere nulla. Dovevo dire ogni cosa se volevo l’assoluzione da ogni peccato che potevo aver commesso. E così pregavo la vergine Maria affinché mi aiutasse a fare una buona confessione. Poi, chiedevo lo stesso a Gesù.
Dopo aver vissuto in convento, dovevo proseguire con la mia istruzione. Avevo appena finito le scuole medie, e mi avevano promesso un’educazione di scuola superiore e poi il college. Ma in realtà ebbi essenzialmente un’educazione di scuola superiore. E me la diedero come si deve. Mi fu impartita sotto delle terribili difficoltà e con molti sforzi. Fu molto dura, ma mi avevano dato un’istruzione, e lo apprezzo moltissimo. Ma dopo questo dovetti attraversare quello che è il periodo cruciale per diventare una giovane iniziata per entrare in convento. L’addestramento delle suore è davvero fuori del comune e ti rendi conto di cosa significa solo dopo che ci sei passata.

Così, ero entrata in convento; voglio dirvi come vivevamo, cosa mangiavamo, come dormivamo, in modo che possiate avere un quadro più dettagliato della vita in convento. Ero entrata da bambina e quindi continuai gli studi, ma ricevevo anche l’addestramento. Venne il giorno in cui, all’età di quattordici anni e mezzo, la madre superiora venne da me e cominciò a parlarmi del Velo Bianco. Non ne sapevo molto, ma mi fu detto che prendendo il velo avrei cominciato ad essere sposa o moglie di Gesù Cristo. Ci sarebbe stata una cerimonia e sarei stata vestita con abiti nuziali. E in quella particolare mattinata mi dissero che alle nove in punto mi avrebbero vestita da sposa. Ora mi chiedevo da dove veniva fuori tutto questo e dove avrebbero preso gli abiti nuziali per delle giovani sorelle. La madre superiora si accomodò e scrisse una lettera a mio padre, dicendogli di mandare il denaro. E tutto quello che lei chiedeva, mio padre lo mandava. Un’altra sorella andava a comprare il materiale e l’abito da sposa veniva realizzato dalle sorelle del convento. A questo punto della mia testimonianza ero ancora nell’ordine libero. Vi starete chiedendo se la madre superiora spendeva tutti i soldi per l’abito da sposa. A questo punto della testimonianza io non potevo saperlo, ma dopo aver vissuto in convento per un certo tempo mi resi conto che lei poteva chiedere a mio padre centinaia di dollari e lui glieli mandava. Per l’abito, avrebbero speso un terzo dei soldi tenendosi il resto, senza che mio padre ne sapesse mai nulla. Né lo sapevo io finché, a distanza di tempo, dovetti fare io stessa alcuni di quegli abiti da sposa, e quindi conobbi il loro valore e i costi associati ai materiali impiegati per realizzarli. E conoscevo l’ammontare dei soldi incamerati perché ero una delle suore più “anziane”.
Dunque, venne il tempo in cui percorsi quel corridoio vestita con l’abito da sposa. Ora, in convento mi soffermavo davanti alle quattordici stazioni della croce – i quattordici eventi accaduti a Gesù lungo la strada per il Calvario. Ma dopo essermi decisa a prendere il velo bianco, non feci più quel percorso a piedi. Volevo essere degna. Volevo essere abbastanza santa per diventare la sposa o la moglie di Gesù Cristo. E così mi mettevo in ginocchio e strisciavo davanti alle quattordici stazioni. La lunghezza del percorso era notevole, ma ripetevo quel gesto ogni venerdì mattina. Sentivo che mi avrebbe resa più santa. Sentivo che mi avrebbe avvicinata di più a Dio. Mi avrebbe resa degna del grande passo che stavo per compiere. Ed era ciò che volevo più di ogni altra cosa al mondo.
Vorrei che imprimeste bene nel vostro cuore ciò che conosco su ogni ragazzina che entra in convento. Quella ragazzina desidera vivere per Dio. Desidera dare il suo cuore, la sua mente, e la sua anima a Dio. Ora, moltissime persone dicono che solo le donne empie vanno in convento. Questo non è vero. Ci sono stelle dello spettacolo che vanno in convento. Hanno vissuto appieno nel mondo, e senza dubbio sono peccatrici. Ma quando entrano sono donne. Sanno cosa stanno facendo. Ed entrano solo perché la Chiesa Cattolica Romana riceverà da loro, non solo migliaia, ma milioni di dollari. Non gli importa chi siano le persone che entrano in convento se possono ricavare molti soldi da loro. Ma la piccola ragazzina comune che entra da bambina, è soltanto una bambina e và lì con la purezza di cuore e di mente e di animo che hanno i bambini. Lo dico perché a volte si sentono molte affermazioni che non sono affatto vere.

Dunque, parlavo di quando diventiamo spose di Gesù Cristo. Vi chiedo di ascoltarmi con attenzione in questa parte, e poi proseguiremo con il resto della testimonianza. Le suore, a quel punto, vengono considerate come donne sposate. Dico, sposate: spose o mogli di Gesù Cristo. Ora, i preti insegnano a ogni ragazzina che prende il velo, che ella diventerà sposa di Cristo. Il prete le insegna a credere che la sua famiglia sarà salvata. Non vi sono differenze, non importa quante rapine in banca possono aver compiuto, o quanti negozi hanno svaligiato; non fa alcuna differenza se bevono e fumano e gozzovigliano e vivono in questo mondo di peccato facendo tutte le cose che fanno i peccatori. Neanche la più piccola differenza. La famiglia della giovane sorella – essi dicono – sarà salvata se lei vivrà sempre in convento e darà la sua vita al convento o alla chiesa, e potrà essere certa che ogni membro della sua famiglia sarà salvato. E ci sono molte bambine che sono influenzate e adescate ad entrare in convento perché gli viene fatto capire che ciò porta la salvezza delle loro famiglie. Anche nelle famiglie Cattoliche Romane, a volte i figli crescono e abbandonano la Chiesa Cattolica Romana e sprofondano nei peccati più terribili. Così, ogni ragazzina che entra in convento spera che il suo grande sacrificio serva alla salvezza della sua casa, dei suoi amati, madre e padre, tutto ciò che un figlio può amare, affinché i suoi familiari siano salvati nonostante i peccati che commettono. E, naturalmente, essendo bambini non sono maturi abbastanza da rendersi conto di ciò che veramente gli viene insegnato. È così facile instillare idee nei loro cuori e nelle loro menti, e i preti sono dei veri maestri in questo. E in quanto al mio prete, il nostro padre-confessore, lo consideravo come Dio. Il prete era il solo dio di cui sapevo qualcosa, e ai miei occhi era infallibile. Non pensavo che potesse peccare. Non pensavo che mentisse. Non pensavo che avesse mai sbagliato. Lo vedevo come il più santo dei santi perché io non conoscevo Dio, ma conoscevo il Prete Cattolico Romano, e guardavo a lui per tutto quello che chiedevo a Dio, per così dire. Credevo che il prete potesse darmi queste cose.

E così venne il giorno in cui tutte noi, dopo aver preso il velo bianco (vi prego di ascoltare attentamente) consideravamo ogni cosa meravigliosa. Avevo 16 anni e mezzo. Tutti erano buoni con me, vivevo nel convento e non avevo visto niente ancora perché nessuna ragazzina è soggetta al Prete Cattolico Romano prima dei 21 anni d’età. Questo nuovo voto viene tenuto nascosto alle sorelline finché non hanno preso il velo nero, e allora è già troppo tardi. Non hanno la chiave di quelle doppie porte, e non c’è modo di uscirne. I preti in tutti i Paesi dicono che le sorelle, o piuttosto le suore, possono uscire dai conventi quando vogliono. Io ho passato 22 anni lì dentro. Ho tentato in ogni modo di uscirne. Ho portato con me cucchiai nei sotterranei cercando di scavare nella terra, perché non c’è pavimentazione in quei posti, ma non sono mai riuscita a scavare abbastanza da uscire dal convento, dato che un cucchiaio era l’unico strumento a mia disposizione. Infatti quando usavamo le vanghe, per dei duri lavori che dovevamo fare, eravamo tenute d’occhio da due suore anziane affinché non usassimo quelle vanghe per scavare una via d’uscita. E comunque non saremmo andate molto lontane perché i conventi sono costruiti in modo che le sorelline NON possano scappare. Questo è l’obiettivo che si sono prefissi nel realizzarli, e non c’è alcuna via d’uscita se Dio non ne crea una. Ma credo che Dio stia preparando una strada per molte ragazze che riescono ad uscire dal convento.

Un nuovo tipo di voto
Quando giunse il tempo – avevo 18 anni, credo, quando la madre superiora cominciò a parlarmi – desiderai di vedere oltre il mio velo bianco. Volevo essere una giovane sorella infermiera per la Chiesa Romana; ma la madre superiora si accorse della mia persistenza. Un giorno ella mi chiamò nel suo ufficio e cominciò a dirmi: “Charlotte, hai un corpo vigoroso. Credo che tu abbia buone possibilità di diventare una buona suora, una suora di clausura. Credo che tu sia il tipo di persona che è disposta ad abbandonare la propria casa, la madre e il padre, abbandonare tutti quelli che ami nel mondo, e il mondo intero (per così dire) e nasconderti dietro le porte del convento, perché credo che tu sia il tipo che vorrebbe trovare riparo qui dentro e sacrificarsi a vivere in estrema povertà in modo da poter pregare per l’umanità perduta”. Mi disse: “Credo che tu sia il tipo di persona che è disposta a soffrire”.

A noi suore veniva insegnato a credere che se soffriamo per i nostri amati e i nostri amati sono già nel purgatorio, saranno liberati prima grazie alle nostre sofferenze. Lei sapeva già che io ero disposta a questo. Non mormoravo. Non mi lamentavo. Lei sapeva tutto ciò e osservava la mia vita, e per questo motivo cominciò a parlarmi del velo nero. E ovviamente, io non sapevo molto sulle monache di clausura. Non conoscevo la loro vita. Non sapevo dove vivevano. Non sapevo cosa fanno.
Oggi, viaggio in molti luoghi, e sento dirmi da tanti Cattolici Romani: “Sono stato in così tanti conventi, so tutto di loro”. Ma sapete che i Cattolici Romani sono autorizzati a mentire senza dover confessare la bugia detta, quando si tratta di una menzogna detta per proteggere la loro fede? Essi possono raccontarvi qualunque bugia per proteggere la loro fede e non dover per questo andare mai al confessionale. E possono fare di peggio. Possono per lo stesso motivo rubare fino a 40 dollari senza doverlo dire al prete. Non sono tenuti a confessare il loro furto. Questo è ciò che gli viene insegnato. Ogni Cattolico Romano lo sa, e sareste inorriditi se sapeste quanti Cattolici Romani fanno queste cose. Ho avuto a che fare con centinaia e centinaia di loro. Allora li ho visti gettarsi davanti all’altare e implorare Dio di salvarli. Quando Dio convince di peccato i loro cuori, essi vogliono abbandonare quei comportamenti. Ma fintanto che sono Cattolici Romani, gli sono permessi. È questa la cosa più triste. Non possono conoscere Dio perché Dio non condona il peccato. Non importa chi voi siate. Non credo che Dio condoni il peccato e non credo che Egli lo condoni ai Cattolici Romani, sebbene essi vengano accecati e condotti all’inferno dai loro insegnanti. Ho vissuto in convento, e so come vivono queste persone e cosa fanno.

Dicevo, venne il giorno. La madre superiora mi disse: “Charlotte, devi essere disposta a spandere il tuo sangue come Gesù ha versato il suo al Calvario”. Ella disse: “Devi essere pronta a fare penitenza, grande penitenza”. Disse ancora: “Devi essere disposta a vivere in grande povertà”.
Stavo già vivendo un po’ nella povertà, ma pensavo che quello che mi stavano proponendo mi avrebbe resa più santa e mi avrebbe avvicinata a Dio e avrebbe fatto di me una suora migliore. E così mi dissi disposta a vivere in quella povertà. Allora, quella stessa mattina, la madre superiora mi disse cosa avrei dovuto indossare. Ella disse: “Passerai nove ore in una bara”, e mi spiegò diverse cose. Questo era tutto ciò che sapevo e non lo vidi in pratica fino a quando non presi il velo bianco. Avevo 21 anni. Ma 60 giorni prima di aver compiuto 21 anni, dovetti firmare alcuni documenti che mi avevano messo davanti. Si trattava di questo: dovevo attestare di voler rifiutare qualsiasi eredità mi spettasse dopo la morte della mia famiglia, e assegnare tutto alla Chiesa Cattolica Romana.
Spesso mi dico che i preti Cattolici Romani adescano le ragazze non per la loro formazione, non per il loro vigore, non per la loro intelligenza, non per la loro forte volontà, ma adescano quelle ragazze i cui genitori hanno delle proprietà e sono a loro agio con le cose materiali di questa vita. Perché? Perché quando quella giovane entra in convento, essi tengono per sé una parte dei suoi soldi, dei soldi di suo padre, e spesso dico che anche la salvezza nella Chiesa Cattolica Romana ti costerà un mucchio di soldi. Più di quanto potrai mai sapere. A loro non importa di fare del commercio su quei ragazzi o sottrarre l’eredità che sarebbe spettata loro.

E così, quella mattina stessa dissi alla madre superiora: “Vorrei prendermi del tempo per pensarci sopra”. Non me lo fece fare lei, né nessun altro, ma dopo un paio d’anni un giorno andai da lei e dissi: “Desidero nascondermi dietro le porte del convento perché credo che così potrei dare di più del mio tempo a Dio. Potrei pregare di più”.

Nove ore in una bara
Credevo di essere in una posizione di potermi infliggere più dolore perché ci insegnavano a credere che Dio ci sorride dal cielo quando facciamo delle penitenze, di qualunque sofferenza si tratti. E io pensavo che fosse vero. Spesso dico: “Se solo guardi nel cuore di quelle piccole suore, se sei un Cristiano griderai immediatamente a Dio per loro, perché Egli le salvi”. Ai miei occhi, esse sono pagane. Non fa alcuna differenza la quantità di educazione ricevuta. Sono ancora pagane. Non conoscono nulla di Cristo, non sanno niente della salvezza. E vivono come eremiti nel loro convento.

Quella mattina percorsi nuovamente il corridoio… Sebbene io non possa entrare mai sufficientemente in dettaglio da farvi capire appieno la situazione, quella mattina percorrevo il corridoio, ma stavolta non avevo l’abito da sposa. Avevo un velo da funerale. Era fatto di velluto rosso scuro ed era lungo fino a terra. Camminavo, e sapevo quello che stavo facendo. La bara era già stata costruita dalle suore del convento usando delle tavole molto rozze. Si trovava proprio lì e sapevo che avrei dovuto entrarci, stendermi lì dentro e restarci per nove ore. Due piccole suore venivano a coprirmi con un pesante drappo nero talmente incensato da farmi quasi soffocare a morte. E io dovevo restare lì. Sapevo che quando sarei uscita dalla bara non avrei potuto mai più lasciare il convento. Non avrei mai più visto mia madre e mio padre. Non sarei mai più potuta andare a casa. Avrei dovuto vivere per sempre dietro le porte del convento e quando sarei morta mi avrebbero sepolto lì. Me lo avevano detto prima, quindi sapevo a cosa andavo incontro. È un gran prezzo da pagare, solo per scoprire poi che i conventi non sono ordini religiosi come ci avevano insegnato durante l’addestramento. È una vera delusione per una giovane che ha desiderato di dare la sua vita a Dio, ed è stata pronta a lasciare ogni cosa e a sacrificare così tanto. Vi assicuro, fu una vera delusione. Così passai nove ore lì dentro. Vi chiederete: “Cosa hai fatto mentre giacevi in quella bara?”

Ricordando casa
Cosa pensate che io abbia fatto? Ho versato ogni lacrima che avevo. Ho ricordato ogni cosa amorevole che mia mamma aveva fatto per me. Ho ricordato la sua voce. Ho ricordato quando ci riunivamo attorno al tavolo. Ho ricordato le volte in cui lei pregava con noi. Ho ricordato le cose che mi diceva. Ho ricordato che cuoca meravigliosa era. Ricordai tutto ciò che avevo fatto da ragazzina cresciuta in quella casa. Giacendo in quella bara, sapevo che non avrei mai più ascoltato la sua voce e non avrei mai più visto il suo volto. Non avrei mai più goduto dei bei momenti insieme a lei. Sapevo tutto questo e così passai quelle ore versando tutte le lacrime che avevo, per il dolore e per la nostalgia. Sapevo che avrei voluto rivedere mia mamma un giorno, ma avevo acconsentito a rinunciare a tutto. Per quale motivo? Per amore di Dio, credevo. Così sapevo. E vi assicuro che furono nove lunghe ore. Riuscii a farmi animo pensando: “Charlotte, diventerai una delle migliori suore Carmelitane!”. Per tutto quello che ho fatto, anche ora che non sono più in convento, cerco di dare il meglio di me. Cerco di dare tutto ciò che ho indipendentemente da quello che posso fare. E così facevo anche in convento. Davo il meglio che avevo. E volevo essere la migliore suora possibile. La madre superiora lo sapeva e, siatene certi, lo sapevano bene anche i preti.

Firma con il sangue
Mi resi conto che, una volta uscita dalla bara, mi avrebbero indirizzato verso una stanza lì vicino. La chiamavamo la stanza della madre superiora. Non ero mai stata lì, quindi non sapevo cosa contenesse. Ma quando vi entrai, questa volta la madre superiora mi fece sedere su una dura sedia, schiena diritta, e immediatamente dovetti fare i tre voti di povertà, castità, e obbedienza. E mentre facevo quei voti, mi forò il lobo di un orecchio per prelevare il mio sangue, con il quale avrei dovuto firmare i tre voti. Il voto di povertà consisteva nel vivere in estrema povertà tutta la mia vita. Noi suore iniziate non sapevamo com’era quella povertà. Il voto successivo, quello della castità, immagino che sappiate cosa significa. Mi era stato insegnato a credere che ero sposata a Gesù Cristo. Ero sua moglie. Avrei dovuto rimanere per sempre vergine. Non mi sarei mai dovuta più sposare legalmente in questo mondo perché ero diventata la sposa o la moglie di Gesù Cristo. Dopo che il vescovo mi ebbe sposata a Cristo, mise l’anello al mio dito come sigillo dell’unione con Cristo. Ero sposata, e lo accettavo perché così mi era stato insegnato. E stavo prendendo il voto di castità per rimanere per sempre vergine a motivo del fatto che ero la moglie di Cristo.
Vi prego di ascoltarmi con attenzione. Era giunto il momento del mio ultimo voto, quello dell’obbedienza. Quando firmavamo quel voto, vi assicuro che sapevamo già cosa significava obbedienza. Vivevamo secondo un patto che richiedeva obbedienza assoluta. Non sorvolavano su niente, neppure per due minuti. Non potevi farla franca. Dovevi realizzare il significato dell’obbedienza e loro ti imponevano di impararlo, ed eri saggia ad imparare in fretta e ad obbedire e a dare loro obbedienza cieca.

Dunque, cosa significava accettare quei voti in quel modo? Ve lo spiego. Significa più di quanto potrete mai sapere, perché la maggior parte delle persone che conosco sanno ben poco sull’obbedienza. In un certo senso lo sanno, ma vi assicuro che non saprete mai cosa significa per una suora l’obbedienza che le impongono, se non vivete voi stessi in convento. Dicevo, quel voto in particolare, che firmai col mio stesso sangue, mi fece qualcosa, in quanto con quelle firme avevo appena rinunciato a tutto quello che avevo: ai miei diritti umani. Ero un essere umano meccanico ora. Non potevo sedermi se loro non me lo dicevano. Non dovevo osare alzarmi se loro non me lo permettevano. Non potevo stendermi o alzarmi se non me lo dicevano loro. Non potevo mangiare finché non me lo dicevano loro. E se vedevo qualcosa, non l’avevo visto. Se sentivo qualcosa, non l’avevo sentito. Se provavo qualcosa, non l’avevo provato. Ero un burattino nelle loro mani, ma non me ne resi conto prima di aver firmato quei tre voti. Allora realizzai: “Ecco cosa sono, un essere umano meccanico”. E naturalmente ora appartenevo a Roma, era fin troppo chiaro.

Dopo quei voti diventavamo donne dimenticate nel convento. Tra pochissimo capirete di cosa sto parlando. Ora, subito dopo i voti, la madre superiora mi diede – anzi, mi tolse, il mio nome e mi diede quello di un santo patrono. E mi insegnò a credere che qualunque cosa sarebbe accaduta nel convento, avrei potuto rivolgere le mie preghiere a quella santa e lei avrebbe interceduto per me e avrebbe portato lei le mie preghiere a Dio perché io non ero abbastanza santa per stare alla presenza di Dio. Non c’è da meravigliarsi che le care piccole suore non possano mai avvicinarsi abbastanza a Dio. Ci insegnavano sempre che non eravamo abbastanza sante per stare alla Sua presenza e dovevamo passare tramite qualche santo per far arrivare la nostra preghiera a Dio. E noi gli credevamo perché non sapevamo come stavano realmente le cose. Così, ora, ogni riferimento a chi fosse Charlotte era sparito. Mi era stato strappato, e se foste entrati nel convento e mi aveste chiamato con il mio nome di battesimo, vi avrebbero detto che non c’era nessuno lì con quel nome. Non esisto più, anche se sono qui proprio ora, perché sto scrivendo sotto uno pseudonimo.

La madre superiora mi tagliò tutti i capelli, e quando tagliava usava la macchinetta. Intendo dire che non rimaneva nulla. Non avevo più capelli in testa. E naturalmente se voi foste stati nei panni delle suore, sapreste per quale motivo esse portano quei pesanti copricapi in testa – perché è scomodo avere dei capelli ed è scomodo doversi prendere cura dei propri capelli. Non c’è modo di prendersene cura in convento. Non esistono pettini in convento. Potete immaginare quanto duro sia per loro prendersi cura di una testa coperta di capelli. Ma non serve più pettinarli una volta che li hanno rimossi tutti. Dunque, questo era il mio velo nero, i miei voti perpetui, come li chiameremo. Ero lì e sarei rimasta lì.

Fino a quel tempo, una volta al mese ricevevo una lettera dalla mia famiglia e scrivevo una lettera di risposta dal convento, sebbene quando la scrivevo non avevo dubbi che avrebbero cancellato gran parte di essa; infatti, quando ricevevo le lettere dalla mia famiglia erano state talmente coperte di nero da renderle incomprensibili, e io piangevo addolorata su quelle cancellazioni fatte con dei tratti neri. Mi chiedevo cosa stesse cercando di dirmi mia madre. Ma non avrei mai potuto saperlo a causa di quella censura. E così ti spezzavano il cuore molte, molte volte e ti sentivi sola perché comunque non avevi amici nel convento. Vi assicuro, anche se c’erano 180 persone nella mia ala del convento, neppure una di quelle suore era mia amica e né potevo esserlo io perché non eravamo autorizzate ad essere amiche nel convento. Eravamo tutti come dei poliziotti o dei detective che si sorvegliavano a vicenda. E la piccola suora che ha qualcosa da dire sull’altra suora, viene guardata di buon occhio dalla madre superiora. Allora la madre superiora insegna alla suora a credere che quando è ben vista da lei, è ben vista da Dio stesso. Così, ovviamente, la piccola suora vuole essere in quello stato di grazia e comincia a dire tante cose, anche non vere, sulle sue consorelle.

Ora, dopo tutti quegli avvenimenti, ogni cosa che avevo mi era stata tolta. Avevo, per così dire, venduto la mia anima per quel caos di minestrone teologico. Noi suore non eravamo distrutte solo nei nostri corpi. Molte di noi lo erano nella mente. E per molte di noi, morire in convento significava aver perso l’anima. È una situazione così seria che bramo le vostre preghiere per quelle piccole suore recluse dietro le porte dei conventi.
Esse non hanno mai ascoltato il Vangelo. Non hanno mai conosciuto il Cristo che voi credenti conoscete. Non Lo pregheranno mai come voi Lo pregate. Non sentiranno mai la Sua benedizione come voi la sentite. E per questo, ricordatele nei vostri cuori e pregate Iddio per loro. Hanno un grande bisogno di preghiera.

Un assalto oltraggioso
Dunque, nell’entrare nella stanza, dopo aver preso i voti, non sapevo cosa sarebbe accaduto nell’altra stanza. Sapevo di aver preso il voto di castità, e che non dovevo più sposarmi nel mondo perché ero sposa di Cristo. Allora, dopo questo, la madre superiora mi condusse in un’altra stanza, o anzi, aprì la porta e mi disse di entrarvi. E lì, vidi qualcosa che non avevo mai visto prima. Vidi un prete Cattolico Romano abbigliato in abiti sacri. Si diresse verso di me e mi bloccò un braccio con il suo braccio, cosa che non aveva mai fatto durante la prima parte della mia vita in convento. Non ero mai stata insultata da un prete in alcun modo. Non erano mai stati neppure sgarbati con me nel primo periodo in convento. Ma ora era qui, e non capivo cosa intendesse fare e non sapevo che cosa voleva da me. Allora, tirai indietro il mio braccio perché mi sentii enormemente insultata, e gli dissi: “Si vergogni!”.
Ciò lo rese molto adirato per un minuto, dopodiché la madre superiora doveva aver sentito la mia voce, perché entrò e disse: “Oh”, (e mi chiamò con il mio nome da suora), “dopo che sarai stata per un po’ nel convento non la penserai più così. Il resto di noi faceva come te all’inizio, ma sai, il corpo del prete è santificato, e quindi non è peccato donare ai preti i nostri corpi”.

In altre parole, essi insegnano questo a ogni piccola suora: come lo Spirito Santo fece nascere Gesù Cristo dal grembo di Maria, così il prete è [equiparato allo] Spirito Santo e quindi non è un peccato portare in grembo i suoi figli. E, consentitemi di dirvelo, è proprio per questo che sono entrati in convento. Per nessun’altra ragione al mondo i preti entrano in convento se non per violare queste preziose ragazze derubandole della loro virtù. Ve lo assicuro, più avanti parlerò di cosa fanno realmente dopo aver fatto certi particolari affari.
Ma posso dire che ora ogni ponte era stato bruciato. Non c’era modo di tornare indietro. Non potevo uscire dal convento nonostante le mie suppliche. Oh, quando implorai quel prete! “Mandate a chiamare mio padre, voglio tornare a casa! Non voglio andare oltre”. Ed è allora che ti accorgi di essere sola. Non sai a chi rivolgerti, sei vittima delle circostanze, e vivrai nel convento perché non c’è modo di uscirne. Vi assicuro che se Dio non avesse provveduto una via per farmi uscire da lì, sarei rimasta in quel convento.

Dopo questo, la mia corrispondenza fu interrotta. Non mi fecero più avere lettere dalla mia famiglia. Neppure una. Appartenevo al Papa. Appartenevo a Roma. E allora, dopo tutto questo, la madre superiora e i voti, il prete mi invitò ad andare nella camera delle nozze. Direte: “Ci sei andata?”. No. Decisamente no. Non ero entrata in convento per essere una prostituta. Sarebbe stato molto più facile vivere fuori dal convento se volevo essere una donna empia. Non avevo preso il velo ed ero vissuta in povertà e avevo subito e sofferto per poi essere una donna empia. Nessuna ragazza lo farebbe; sarebbe ben più facile stare fuori dal convento e vivere da peccatrice, ma io ero andata lì per dare la mia vita e il mio cuore a Dio e quello era l’unico scopo che mi ero prefissa nell’andare in convento. Ed ora ecco il prete, e ovviamente io non andai nella camera con lui. Avevo un corpo vigoroso allora. Uno di noi due si sarebbe fatto male perché avrei combattuto all’ultimo sangue. Comunque si adirarono moltissimo perché io non avevo acconsentito a concedere il mio corpo al prete.

Dovere funebre, una regola infranta, punizione nelle segrete
Ora dovevo fare penitenza il mattino seguente e sarebbe stata una dura penitenza a causa di quello che avevo fatto. Quando, il mattino seguente, la madre superiora disse: “Andiamo a fare penitenza”, stavo ricevendo l’iniziazione come suora Carmelitana. E ricordo quando mi fece scendere in un luogo buio. Ricordo che prima del velo nero ero vissuta al primo piano. Dopo il velo nero, mi fecero andare a vivere al piano sottoterra. E vissi lì, nel sottosuolo, finché Dio non mi liberò da loro. Ormai non vivevo più nei piani superiori dell’edificio.

Quando entrammo in quel luogo buio, era molto freddo e tenebroso. E quando vi entrammo venivamo da un punto indistinto alle nostre spalle e procedevamo accanto alla madre superiora, finché vedemmo delle piccole candele accese. Ovunque nel convento si trovavano le sette candele accese. E quando mi avvicinai e vidi le candele ma non vedevo altro mi chiesi: “Cosa vuole farmi?”. Questo era il pensiero nei nostri cuori e non potevamo scacciarlo perché avevamo paura.

Quando mi avvicinai un altro po’ vidi qualcosa su una tavola. Non potete immaginare la sorpresa quando mi avvicinai e mi accorsi che si trattava di una giovane suora. Era lì, e vidi le fiamme delle candele proiettare una luce tremolante sul suo volto, mentre realizzavo: “Questa ragazzina è morta!”.
E, oh, quanto volevo poter chiedere: “Com’è morta? Perché è qui? Da quanto tempo la tenete qui sotto?”. Ma, come ricorderete, avevo rinunciato a ogni diritto umano e così non potevo dire una sola parola, ma continuai a guardare. E la madre superiora mi disse: “Veglia su questo cadavere per un’ora”. E alla fine di quell’ora una piccola campanella suonava e un’altra suora veniva a prendere il mio posto.
Mi era stato detto di camminare davanti a quel piccolo corpo ogni tanto, e di spruzzare acqua santa e cenere su quel corpo dicendo: “Pace a te”. E io feci esattamente così. Oh, fu una sensazione terribile. Non ho paura dei morti. È dai vivi che bisogna guardarsi. E non avevo paura della piccola suora morta, ma, oh, quanto soffriva il mio cuore per lei. E quando la campanella suonò e io capii che la mia ora di veglia era terminata, la suora venuta a sostituirmi giunse in punta di piedi. Nessun rumore, infatti, è consentito in convento, e nessuno ti parla, ti toccano soltanto. E, naturalmente, essendo stata lì sotto con quella piccola suora morta ero piena di terrore. Così, quando la suora venne e mi toccò la spalla, lanciai un grido, un terribile grido di paura, pura paura. Non volevo farlo. Non infransi le regole volontariamente, ero soltanto spaventata.

Immediatamente, dovetti seguire la madre superiora e fu allora che appresi per la prima volta delle prigioni sotterranee, le segrete. Non mi avevano detto che esistevano delle segrete sotto il convento. Ella mi mise in quel luogo sporco e buio senza pavimentazione per tre giorni e tre notti. E non mi diede né cibo né acqua, e vi assicuro, non gridai più. Cercai con tutte le mie forze di non infrangere più quelle regole, perché sapevo che c’erano le prigioni sotterranee, e non volevo finirci. Non era affatto un bel posto; solo dopo che ci sei stata puoi capire che cosa significa esserci rinchiusa.

E voglio dire questo prima di andare avanti: il Papato è il capolavoro di Satana. È il capolavoro di Satana con le sue meraviglie bugiarde e le sue tradizioni e i suoi inganni. È una cosa orribile quando ne vieni a conoscenza.

Così, dicevo, scesi giù e lei mi fece entrare in quella stanza e mi fece guardare quella ragazzina, e con quello una penitenza era compiuta. Ora il mattino seguente mi disse di nuovo: “Charlotte, dovrai fare penitenza” (cioè, non il mattino successivo, fu tre giorni dopo perché avevo passato tre giorni e tre notti nei sotterranei). Così il quarto, il quinto mattino, ella diceva sempre: “Dovrai fare penitenza”.

Mi condusse giù in un’altra stanza; non la stessa. E quando scendemmo questa volta vidi un grande pezzo di legno ma non sapevo cosa fosse. Quando giunsi più vicina vidi che era una croce. Era fatta di legno massiccio, ed era alta approssimativamente tra i due metri e mezzo e i tre metri. Era molto pesante. Quella croce era appoggiata su un piano inclinato. La madre superiora mi fece andare ai piedi della croce e poi mi disse: “Ora spogliati”. Mi spogliai fino alla vita. Poi lei mi fece piegare intorno alla parte bassa della croce, e mi tirò le mani sotto la croce e le legò ai miei piedi. Era lì che avrei dovuto spargere il mio sangue. Lei non mi aveva detto come, né io potevo chiederglielo. La madre superiora si volse alle due piccole suore che erano venute con lei, e diede loro una frusta da flagellazione. Era composta da una lunga pertica di bambù alla quale erano attaccate sei lunghe cinghie. Alla fine di ciascuna cinghia era attaccato un pezzo di metallo affilato. Quelle piccole suore, ricevuti questi strumenti, si piazzarono ai due lati della croce, e cominciarono a fustigarmi. Quando il metallo colpiva il mio corpo rompeva la pelle e la carne, e ne usciva sangue, che scorreva giù a terra. Quella era la mia flagellazione, dove io avrei versato il mio sangue come Gesù lo versò al Calvario. E naturalmente ogni ferita mi faceva male! Era molto doloroso.

Dopo la fustigazione, non mi lavarono. Mi rimisero addosso gli abiti e mi fecero andare a riposare. Quando giunse la notte ed entrai nella mia cella, oh, non potei dormire quella notte. Non avevo alcuna voglia di dormire, perché non ero riuscita a togliermi da dosso i vestiti. Avevano asciugato le mie ferite attaccandosi, fu terribile. Non potei toglierli per diverse notti. E vi assicuro che quando veniva l’ora di mangiare non riuscivo a prendere la solita tazza di caffè nero.

Nove giorni di penitenza
Al mattino ci davano una tazza di caffè nero che servivano in una tazza di latta; non potevamo avere né latte né zucchero di alcun tipo, ma ci davano un pezzo di pane, fatto dalle suore del convento. Lo pesavano loro. Pesava quattro once (113 grammi). Questo è tutto quello che ci davano per colazione. Nel pomeriggio, ci davano una scodella di minestra di vegetali cotti, senza condimenti di alcun tipo, e mezzo pezzo di pane; tre volte a settimana ci davano mezzo bicchiere di latte scremato. Questa era la nostra alimentazione per 365 giorni all’anno. E io cominciai a perdere peso molto rapidamente, perché non avevo abbastanza cibo da mangiare. Non conoscevo giorno che non andavo a letto con lo stomaco vuoto. A volte non riuscivo a dormire per la fame. Il dolore mi consumava. Potevi a stento sopportarlo sapendo che il mattino seguente avresti avuto solo quell’unico pezzo di pane che non ti avrebbe saziata.

E poi, dovevamo lavorare duramente tutto il giorno. Vi imploro di pregare per quelle piccole suore, hanno molto bisogno delle vostre preghiere; voi andrete a dormire con lo stomaco pieno stanotte e siete a vostro agio ora. Ma vi assicuro che neppure una di loro è a suo agio. Sono affamate, sono malate, sono ferite e angosciate. Sono afflitte e soffrono la nostalgia e sono scoraggiate e, quello che credo sia peggio, non hanno alcuna speranza. Nessuna speranza. Tu e io aspettiamo il giorno in cui vedremo Gesù. Ma loro non hanno alcuna speranza e io spero ardentemente che voi non dimenticherete di pregare per loro. Era terribile, ve lo assicuro.

Poi, un paio di mattine dopo, la madre superiora mi prese con sé per un’altra iniziazione. E quando entrai nel luogo della penitenza quella mattina venivamo da una stanza superiore e scendevamo nel buio. Una parte della strada che attraversammo era un tunnel. Poi arrivammo in una stanza e superammo una ringhiera. Allora vidi le solite candele accese e vidi qualcos’altro. C’erano corde che scendevano dal soffitto; oh, ero così spaventata! Mi chiedevo a cosa servissero quelle corde e cosa volevano farmi. Dopo le due penitenze, si cominciava ad avere molta paura nel cuore. Così, non potevo dire nulla e camminavo guardando le corde con grande angoscia. Cosa stavano facendo con quelle corde appese al soffitto?

La madre superiora allora mi disse: “Mettiti contro quel muro”. Feci come mi aveva detto. Poi mi disse di alzare i miei pollici e io lo feci. Allora lei tirò una delle corde, alle quali era attaccata saldamente una fascia di metallo che lei ebbe cura di chiudere attorno all’articolazione del mio pollice. Poi tirò un’altra corda, e la attaccò allo stesso modo all’altro pollice. Io ero lì, con la faccia rivolta al muro. La madre superiora cominciò ad avvolgere qualcosa, e io cominciai a muovermi! Mi stava tirando su, e quando rimasi in punta di piedi, quando solo le dita dei miei piedi potevano toccare il terreno, si fermò. Ero lì, appesa. E tutto il peso del mio corpo gravava sui miei pollici legati alle corde e sulle dita dei miei piedi. Non dovevo dire una parola. Nessuno fiatava. Lei uscì dalla stanza e chiuse a chiave la porta. Sapete cosa significa essere sistemata in quel modo e sentire chiudere a chiave la porta? Solo una suora può saperlo. E quando quella donna uscì dalla stanza non sapevo quanto a lungo sarei rimasta lì, quanto tempo mi avrebbe lasciato in quelle condizioni. Nessuno venne a darmi del cibo. Non mi portarono acqua. E io pensai: “È così? Morirò così, qui dentro?”.

E nel giro di qualche ora, potete immaginare che i miei muscoli cominciarono a farmi un male lancinante. Stavo soffrendo. E quella donna mi lasciava appesa. Nessuno si avvicinava. A che mi sarebbe servito gridare? Potevi versare tutte le lacrime che avevi in corpo. Nessuno poteva sentirti. A nessuno importava quante lacrime versavi. E così io ero sola appesa lì. E infine mi sembrò di non farcela più. “Morirò senz’altro”, pensai, “se non vengono a prendermi e a portarmi fuori di qui in fretta!”. E mi sentii come se stessi cominciando a gonfiarmi.

Io non so quanto tempo passò prima che la madre superiora aprisse la porta una mattina e mi fece avere qualcosa da mangiare e dell’acqua, in un tegame. Il cibo consisteva in patate, che però non erano più commestibili. C’era uno scaffale lungo il muro, che alzavano in base all’altezza della suora. Tramite quello, ebbi il tegame con il cibo e l’acqua. Ella lo mise lì sopra e disse: “Questo è il tuo cibo”. E se ne andò.

Come avrei dovuto fare a prendere quel cibo? La madre superiora non mi aveva liberato le mani. Ma questa era la lezione che dovevo imparare. Avevo fame, ed ero così assetata che mi sembrava di impazzire. Vidi che se riuscivo ad alzare di più una mano e la relativa corda, l’altra scendeva un po’. E se riuscivo a piegarmi, l’altra corda saliva. Per prendere un po’ di quell’acqua e di quel cibo dovetti fare come i cani e i gatti. Bevvi leccando l’acqua più che potevo perché ero assetata. E per prendere quelle patate? Mi sforzai il più possibile di raggiungerle perché ero affamata. Intendo affamata davvero! E mangiai tutto quello che riuscii a raggiungere. Ma ero ancora affamata. Questo fu il modo in cui mi diedero da mangiare per un certo tempo. Mi lasciarono appesa per nove giorni interi. Restai appesa in quella posizione per tutto quel tempo e a un certo punto cominciai a gonfiarmi qui (e naturalmente potevo vedere le zone che si erano gonfiate). Sentivo come se i miei occhi mi stessero uscendo dalle orbite. Sentivo come se le braccia si fossero staccate. Vedevo che erano raddoppiate o triplicate di volume. Sentivo che anche il resto del mio corpo era in quelle condizioni e mi sentivo come un pallone. Ero in atroci sofferenze.

E quando il nono giorno la madre superiora venne e staccò le corde dalle mie dita, mi stesi al suolo. Non potevo camminare. Vi assicuro che mi era impossibile. Fu così per un lungo tempo. Due piccole suore mi portarono via. Una mi prese all’altezza dei piedi, l’altra alle spalle, e mi portarono in infermeria dove mi stesero su una lastra di legno, dove tagliarono i miei vestiti per staccarli dal mio corpo. E permettetemi di dirvelo subito, solo Dio sa che cosa passai! Ero coperta di parassiti e di sporcizia. Mi avevano lasciata appesa lì nella mia sporcizia umana. Non c’erano sistemi per lavarsi nella camera di penitenza. Proprio dietro di me c’era un gabinetto nel quale scorreva acqua, e nella tavoletta, che era abbassata, avevano infilato dei chiodi affilati. Se avessi spezzato le corde e ci fossi caduta sopra, avrei sofferto terribilmente! E questa è la vita delle piccole suore dietro le porte dei conventi dopo che ci hanno già ingannate e disilluse; questa è la vita che vivono e queste sono le cose che sono costrette a fare. E vi assicuro che non c’è proprio niente da ridere.

Routine quotidiana
Ricordo che quando vivevo in convento, la mattina dovevamo essere fuori dal letto alle 4:30. Quando la madre superiora suonava una campana sapevamo che avevamo solo cinque minuti per vestirci, e non è come avere mezz’ora. Farai bene a vestirti in quei cinque minuti! Una volta non feci in tempo e fui punita severamente, e potete immaginare che da allora non sbagliai più per tutti gli anni che rimasi in convento. Quando finivamo di vestirci, dovevamo cominciare a marciare. Andavamo dalla madre superiora e ogni mattina lei ci assegnava un compito. Poteva trattarsi di strofinare. Poteva trattarsi di stirare. Poteva trattarsi di lavare. Poteva trattarsi di fare qualche duro lavoro. Ma durava un’ora, dopodiché ci riunivamo attorno alla tavola, dove trovavamo la nostra tazza di caffè e la nostra fetta di pane.

Allora, cominciava il duro lavoro. C’erano, credo, dodici vasche nel convento in cui vivevo, e noi lavavamo usando i vecchi assi per lavare. Avevamo i vecchi ferri da stiro che si riscaldano sul fornello. E sapete, non sarebbe stato molto difficile se avessimo avuto solo i nostri vestiti da lavare e stirare; ma i preti portavano grandi pacchi di vestiti, perché li ottengono gratuitamente. E noi dovevamo lavare e stirare prima tutti quelli, e poi i nostri. Il lavoro era molto, molto pesante, e le suore non avevano la forza di farlo perché non avevano abbastanza cibo da mangiare, cibo per tenere insieme il corpo, la mente, e l’anima. E quelle piccole sorelle vivono in queste circostanze. Eravamo donne senza una patria, e intendo esattamente quello che ho detto; donne senza una patria. Appartenevamo al Papa. Tutto ciò che volevano infliggere al mio corpo, potevano farlo. E per quanto potessi gridare, non faceva alcuna differenza, perché nessuno mi avrebbe ascoltata, e non era per nulla contemplato che io potessi lasciare il convento. Il piano è farci morire lì dentro e seppellirci lì.

Chiunque di voi può andare in un convento dell’ordine aperto o in un convento chiuso, nel parlatorio, e c’è una cappella esterna dove si può entrare. Ma non entri e vaghi in giro per il convento cercando qualche posto da visitare, perché potresti vedere qualcosa che non ti aspetti. Se ci vai, porta con te del cibo per le ragazze che vi sono rinchiuse, e fai bene attenzione con chi ti trovi a parlare. Se ci vai, e raggiungi la parte anteriore dell’edificio, vedrai una campana; ecco cosa dovrai fare: premi il bottone che c’è lì vicino e si aprirà una porta. Vedrai degli scaffali, solitamente tre, dove potrai mettere il cibo che hai portato per qualcuno che conosci in quel convento. Magari sei una madre che è andata a fare visita a sua figlia. Così, quando quella campana suona, la madre superiora viene, dietro un grande cancello di ferro nero. Non puoi andare lì dietro, e ci sono pesanti drappi neri che impediscono di vedere la madre superiora, però lei ti parlerà attraverso il velo nero. Potresti dirle: “Ho portato dei dolci fatti in casa per mia figlia” e potresti chiedere alla madre superiora di parlare con la giovane suora. Non potrai vederla, ma potrai parlarle.

La madre superiora chiamerà la ragazzina, che verrà da quella parte del velo, quindi non potrai vederla. Se chiederai alla ragazzina: “Cara, sei felice qui?”, la piccola suora risponderà: “Mamma, sono molto felice”.

Ti chiederai: “Perché ha detto così?”. Tu non sai che la madre superiora sta lì dietro insieme alla ragazza, e quando il genitore se ne va, se la ragazza ha osato dire troppo, allora Dio solo sa cosa le farà la madre superiora. Così sono obbligate a mentire ai propri genitori. E così, ad esempio, se le chiederai: “Hai abbastanza da mangiare?”, la piccola suora ti risponderà: “Abbiamo cibo in abbondanza”. Sappiate allora che quella mamma andrà a casa sua, e preparerà un pranzo meraviglioso per il resto della famiglia, ma se solo potesse vedere dentro il convento e vedere la nostra tavola, e vedere cosa fanno mangiare alla sua figlioletta, e se potesse guardarla negli occhi dopo che è stata chiusa lì dentro per quattro anni, vedrebbe solo degli occhi infossati nel cranio. Vedrebbe che il piccolo corpo della ragazzina si sta deperendo. Quel genitore sappia che non riuscirà mai più a mangiare un pranzo a casa sua. Mai più. Non riusciresti più a goderti un altro pasto se potessi vedere tua figlia dopo essere stata per un certo periodo chiusa in convento. Ma tutte queste cose, purtroppo, sono tenute nascoste e così le piccole suore devono accettare ciò che gli danno.

Il lavoro nella lavanderia
Dunque, ora potevano farci fare qualunque cosa. La madre superiora e io potevamo essere nella stanza del bucato, intente a lavare (e vi ho detto in che modo lavavamo). C’era un pavimento in cemento. E, facendo questo tipo di lavoro, accadeva che dell’acqua finiva sul pavimento, e magari ci finivamo con i piedi dentro, e allora veniva la madre superiora; per me vedere la madre superiora era come vedere un leone affamato lasciato libero. Ero terrorizzata a morte da lei. Ogni volta che vedevo quella donna qualcuno doveva soffrire e avevamo paura di lei, e lei sapeva che avevamo paura di lei per la sua crudeltà, il suo cuore era duro come una pietra.

Ed eccola venire. Stavamo lavando, e quando veniva (la conoscevamo, avvertivamo la sua presenza; prima ancora di vederla sentivamo i suoi passi in punta di piedi), allora lavavamo ancora con più foga. Ma quando fissava una di noi, ad esempio me, diceva: “Vieni qua”. E io correvo lì come un fulmine, perché avevo paura. Lei diceva: “Prostrati a terra e lecca tot croci sul pavimento”. Era un pavimento di cemento! Allora dovevo prostrarmi e fare delle grosse croci leccando quel pavimento. E lei mi fissava, e se si accorgeva che non mi piaceva quello che stavo facendo, diceva: “Dieci”. Oppure: “Venticinque”. E poi, il mattino seguente poteva ritornare, perché aveva visto dalla mia espressione che non ero stata felice di quello che mi aveva fatto fare. La mia lingua era dolorante e sanguinava, ma lei mi faceva leccare nuovamente il pavimento. E facevano lo stesso per farci strisciare. Ci obbligavano a camminare strisciando, ad esempio percorrendo il corridoio avanti e indietro così dieci volte.

Noi suore non sapevamo niente di niente dell’amorevole vangelo di Gesù Cristo. E così dovevamo fare queste cose. La madre superiora poteva sempre entrare dalla porta della nostra cella [la piccola camera personale di ciascuna suora]. Nella cella, non c’era nient’altro che una statua della Madonna, con il bambino Gesù in braccio, un crocifisso, e un inginocchiatoio. Vi assicuro che nessuno vorrebbe mai mettersi su quell’inginocchiatoio. Era un asse con due zone inclinate dove mettere le ginocchia. C’erano dei fili affilati disposti su quell’asse. Poi c’era un altro asse dove stendere le braccia, e anche lì c’erano quei fili affilati. Dopo tutto, ci avevano detto che dovevamo soffrire. Dovevamo fare le loro penitenze; erano parte delle sofferenze che dovevamo fare. Nell’inginocchiarmi, pregavo per l’umanità perduta e credevo che, come mi avevano insegnato, con la mia sofferenza, mia nonna sarebbe stata liberata prima dal purgatorio del prete. Così a volte restavo più a lungo in ginocchio. Era terribile. Non sapevamo come stavano realmente le cose, così lo facevamo e ci credevamo.

Ed eccoci di nuovo, chiuse nelle nostre celle. Ogni notte le nostre porte venivano chiuse a chiave, per impedirci di uscire non solo dal convento, ma anche dalle nostre stanze. A mezzanotte meno sette minuti (noi andavamo a dormire alle 9:30, quando non c’era più luce), due piccole suore aprivano di nuovo le nostre porte. Ognuna di noi allora si alzava, si vestiva completamente, entrava nella cappella interna e lì pregavamo per un’ora per l’umanità perduta. Non dormivamo molto dunque. Questo è il motivo. E non ci davano abbastanza cibo e ci facevano lavorare duramente e ci sottoponevano a terribili sofferenze. Per questo i nostri corpi erano così rovinati. È per questo che non avevamo forza sufficiente ad andare avanti dopo essere vissute in convento.

Perdere la religione
Ma voglio dire questo prima di andare avanti. Io feci quelle cose. Ci era stato insegnato a credere che nello spargere il nostro sangue (e lo dovevamo fare), nel fustigarci il corpo, nel tormentarlo e torturarlo in modo da far scorrere il sangue, avremmo avuto 100 giorni in meno da passare in purgatorio. Avrete capito che non avevamo alcuna speranza. Quelle piccole suore non aspettavano niente. Dopo aver vissuto in un convento per dieci anni, realizzavamo che la Vergine Maria è solo un pezzo di metallo. È una statua. Iniziavamo a realizzare che san Pietro è solo una statua. Cominciavamo a realizzare che la statua di Gesù è solo un pezzo di metallo. In altre parole, ci portavano al punto di credere che il nostro Dio è un dio morto. E vi assicuro che dopo aver vissuto abbastanza tempo in un convento, non subito, no, ma dopo aver sofferto a sufficienza, dopo esserci gettate ai piedi di quelle statue e aver versato lacrime su di esse e averle implorate di intercedere e di portare le nostre preghiere a Dio, ci rendevamo conto che non ricevevamo alcuna risposta da loro in alcun modo. Un genitore non avrebbe neppure mai saputo quando saremmo morte. Chi avrebbe pregato per noi per farci uscire dal purgatorio? O meglio, chi avrebbe comprato la nostra liberazione dal purgatorio?

No, realizzavamo, dopo essere state sufficientemente a lungo lì dentro, che non esiste alcun purgatorio. Ovviamente, tu sai che non esiste, e io so che non esiste, non c’è alcun purgatorio. L’unico purgatorio che hanno i credenti Cattolici Romani è il portafogli del prete, e i credenti riempiono i loro portafogli in cambio di preghiere per i defunti. Nel solo mese di novembre, due anni fa, migliaia e migliaia di Cattolici Romani versarono un totale di 22 milioni di dollari ai preti perché dicessero le messe per i loro defunti. È solo per darvi un’idea di quello che sta accadendo, e ci sono ancora migliaia di madri che si sfiniscono di lavoro per raggranellare altri cinque dollari da dare al prete per dire una messa per il parente che è in purgatorio, perché quella madre crede che il purgatorio esiste.

Nel convento hanno un dipinto del purgatorio, e non c’è altro in quella stanza tranne quel dipinto. Ogni venerdì dovevamo camminare davanti a quel quadro. Cosa vedevo? Era come un gran buco profondo con della gente dentro, e delle fiamme di fuoco avvolgevano il corpo di quelle persone, che avevano le mani tese in fuori; la madre superiora allora diceva alle piccole suore: “Fareste meglio ad andare a fare un altro po’ di penitenza sul vostro corpo. Quelle persone vogliono uscire da quel fuoco”.

E poiché le suore sono essenzialmente pagane, noi facevamo quello che ci dicevano di fare. Magari andavo in qualche punto del convento e mi ustionavo gravemente il corpo. Oppure mi torturavo per versare dell’altro sangue, perché – così credevamo – le nostre sofferenze avrebbero fatto uscire i defunti dal luogo in cui li mette il prete, cioè il purgatorio. Ci sono milioni di persone, tanto per dire, che sono state messe in purgatorio dal prete. E il prete sa bene che questa è la più grossa frode del mondo. Sa che non c’è un briciolo di verità in essa. Dico spesso che se togliete il purgatorio e la messa alla chiesa Cattolica Romana le avete tolto nove decimi dei suoi guadagni. Non potrà andare avanti senza di essi, poiché questa chiesa commercializza e specula, non solo sui vivi, ma sui morti. E così va sempre più avanti.

I preti
Alla madre superiora non importa nulla di quelle care ragazze, e, sapete, quando il prete viene in convento viene come nostro padre-confessore. Una volta al mese andiamo a confessarci e, non volevamo andare, ma molte volte finivamo sul retro. Non volevo andarci. Sapevo chi c’era lì; non lo conosco personalmente, ma so per certo che è un prete. Conosco bene quei preti. Certamente ci ho avuto a che fare a sufficienza. Ci ho vissuto fin troppo. Ho avuto qualche contatto con ciascuno di loro singolarmente. E vi assicuro che non mi fido di nessuno di quelli che sono in convento. Naturalmente, non sto parlando di tutti i preti in assoluto. Non posso conoscerli tutti. Ma in base alla mia esperienza nel convento in cui ho vissuto, so qualcosa di cosa accade in quella stanza.
Dunque, sapevamo di dover andare alla confessione quel giorno. Sarebbe potuta durare anche tutto il giorno. Ed ecco, non ho mai visto un prete Cattolico Romano venire nel convento in cui ero senza una bottiglia di liquore sotto la cintola. E vi dico, che si tratti di un uomo o di una donna, chiunque tu sia, quando porti una bottiglia di liquore con te, non sei né un uomo né una donna. Diventi un animale e una bestia. E così c’era una bestia seduta lì. C’erano solo un crocifisso e la Madonna, e la sedia su cui era seduto il prete, nel centro della stanza. Una per una, le ragazze dovevano entrare, da sole, e inginocchiarsi. Pensateci! A volte davvero penso, ora sono salvata, sono fuori dal convento, ma quando guardo indietro e ripenso al prete Cattolico Romano mi dico: “Certo dev’essere fratello gemello del diavolo, perché è pieno di peccato. È pieno di depravazione. È colmo di corruzione”.

E dunque, andavamo e ci inginocchiavamo davanti al prete. Eri una ragazza fortunata se riuscivi ad allontanarti da quell’uomo senza essere distrutta. Infatti, era ubriaco. Era solo una bestia. Non era un uomo. Oh, certo, aveva un abito sacro addosso. Era ordinato come prete Cattolico Romano, e vi assicuro, non amavamo affatto andare a confessarci, ma dovevamo farlo una volta al mese. E quelle povere sorelline non potevano fare altro; non c’era nessuno in quella stanza all’infuori del prete e della ragazza, e solo quando era tutto finito, la giovane poteva uscire e far entrare la prossima. Vi assicuro che non amavamo quel giorno. E non era diverso per quelle ragazze.

Nessuna di loro conosceva la salvezza. Nessuna di loro sapeva che Gesù era andato al Calvario a morire per loro. Non sapevano che Lui aveva versato il suo sangue per loro. Quelle povere ragazzine non ne sapevano niente, perché per noi, lo ripeto, la Bibbia era un libro messo al bando, che nessuna doveva leggere.

Ora, se il prete Cattolico Romano va nel convento, può andare dalla madre superiora e chiederle il permesso di entrare nelle celle delle suore. E la madre superiora, che ha una mente carnale e un cuore carnale, ed è dura ed empia, è madre di moltissimi figli illegittimi, che appartengono al prete. Quando il prete beve, lei lo sa. Va insieme a lui, e si portano appresso il liquore. A volte fanno venire anche delle suore a bere con loro. (È davvero un luogo terribile, non è affatto un ordine religioso. Non rispettano il nome che portano). Ma dicevo, la madre superiora introduce il prete in una delle nostre celle. Ci si chiede quanto sia seria la situazione. Il prete ha il liquore con sé, quello lo sappiamo. Ma ha anche un corpo forte. Mangia pasti abbondanti ogni giorno della sua vita. Può mangiare tutto il cibo che vuole. Ma la suora invece ha un corpo svigorito, e non ha molta forza. Perché il prete è entrato nella cella? Per niente altro che distruggere la piccola suora.

Spesso ho desiderato che il governo, le autorità, irrompessero nel convento proprio nel momento in cui quei preti entrano nelle celle. La madre superiora infatti chiude a chiave la porta e la suora resta alla mercé del prete. La giovane non ha alcun modo di difendersi (ho dovuto accudire quelle povere ragazze; avevo ricevuto l’addestramento da infermiera in ospedale). Vi dico che se vedeste il corpo della suora dopo che il prete ha finito con lei, quel corpo assomiglierebbe a qualcosa che è stato gettato in un porcile e che è stato calpestato da mezza dozzina di scrofe. Questa è la vita in convento! Posso capire bene perché i preti chiamano nella vostra città ogni giorno perché sono qui a dare la mia testimonianza. Ma vi dico che non m’importa se continueranno ad inveire. Non m’importa cosa faranno. Non ho affatto paura di loro. Continuerò a rendere la mia testimonianza.

Fintanto che Dio mi darà la forza, continuerò a rendere questa testimonianza malgrado tutti i preti e i vescovi. So cosa sto facendo. So cosa sto dicendo, e non temo nessuno in questo mondo. Sono una figlia di Dio, e credo che Dio non permetterà a nessuno di mettermi le mani addosso fino a quando non avrò portato a termine il mio compito, e come spesso dico, non m’importa di cosa faranno al mio corpo dopo che avrò lasciato questo corpo. Non m’interessa affatto. Perciò continuerò a rendere la mia testimonianza malgrado ciò che pensano i vostri sacerdoti, perché so che Dio mi ha salvata per far venire alla luce ciò che fanno nei conventi. Credo che Egli mi abbia salvata per svergognare questi luoghi che si nascondono sotto la copertura della religione. Lo credo con tutto il cuore.

Ora, si supponeva che noi suore dovessimo concederci ai preti volontariamente (in realtà, molte volte venivamo sopraffatte). Ma se rifiutavamo di concedere volontariamente il nostro corpo al prete, lui si adirava e andava immediatamente dalla madre superiora. E così, quando due menti carnali come quelle si uniscono, possono inventare cose che tu e io non possiamo neppure immaginare, perché non abbiamo abbastanza malvagità nel cuore per inventare cose simili. Non c’è abbastanza peccato nelle nostre vite per arrivare anche solo a pensare a crudeltà efferate come quelle escogitate da loro. E quando quelle due menti carnali si trovano insieme, sai che la prossima volta saranno già ben pronte.

Così, dopo uno o due giorni, la madre superiora mi disse: “Andiamo a fare penitenza”. La penitenza che mi avrebbero inflitto era qualcosa che la madre superiora e il prete avevano inventato assieme, e quindi doveva essere qualcosa di estremamente crudele. Mi portarono in uno di quei sudici sotterranei, dove non c’è pavimentazione, e in quel posto si erano preparati un posto, e c’erano delle pertiche lunghe pressappoco 3 piedi [circa 1 metro]. Le avevano fissate alla base con del cemento, e su di esso c’erano degli anelli; c’erano anche delle cinghie di pelle attaccate alle pertiche. Quando mi portarono lì, mi fecero mettere i piedi in quegli anelli e mi legarono saldamente le caviglie con le cinghie. Ora mi trovavo lì, sollevata dal terreno, bloccata.

Punizione
Stavano uscendo, e mi avrebbero lasciata chiusa in quel posto sudicio da sola. Avrei potuto restare lì per due o tre ore, se avessi avuto abbastanza forza in corpo. Ma cosa mi sarebbe successo dopo? Non ce la facevo più. Svenni per lo sfinimento, e caddi a terra. Ma quando caddi, mi si torsero le caviglie in questo modo e non potevo farci niente. Non avevo la forza di rialzarmi. Potrei essere rimasta in quella posizione per due o tre giorni e nessuno si sarebbe avvicinato. Non mi davano neanche un morso di cibo da mangiare, e neppure una goccia d’acqua, ma dovevo restare lì. E la cosa successiva che sentii erano degli insetti che strisciavano sul mio corpo e i topi che mi passavano addosso, ma io ero costretta a restare così.

Capisco perché non vogliono che io parli. Non vogliono che il mondo sappia che queste cose stanno accadendo. Nessun prete vuole che si sappia. E proprio perché non vogliono che si sappia, stanno bene attenti a fare in modo che nessuno possa mai uscire dai conventi dopo esserci stato per degli anni.
Ma posso dirvi che Dio è più grande di tutte le loro forze. Il mio Dio può stendere la Sua mano sui conventi in questo paese e in ogni altro paese e aprire una via perché qualche ragazza riesca a fuggire, ed Egli non ha bisogno dell’aiuto dei vescovi per farlo, né chiederà l’aiuto dei preti, ma Lui soltanto può farlo.

Gravidanza non desiderata
E non è finita. A volte il prete veniva da noi e si adirava perché ci rifiutavamo di peccare con lui volontariamente. E le suore avevano corpi svigoriti dopo essere state chiuse in convento a lungo. Perciò, molte, molte volte, non riuscivi a impedire che il prete ti desse un pugno in bocca; è una cosa terribile. Uno dei miei denti anteriori saltò via. So di cosa sto parlando. E poi ti buttano a terra e ti danno dei calci nello stomaco. Molte di quelle preziose piccole ragazze hanno dei bambini in grembo, e al prete non gliene importa nulla e ti riempie di calci nello stomaco nonostante il bambino che porti in grembo. Non gliene importa. Il bambino verrà ucciso comunque, perché quei bambini nasceranno all’interno del convento. Infatti, come potrebbero essere interessate a far nascere dei bambini, delle persone che gestiscono luoghi di perdizione come questi sotto la copertura della religione? Il mondo crede che siano ordini religiosi, eppure lì dentro nascono bambini, e la maggior parte sono parti prematuri. Molti di loro sono anormali. Molto, molto raramente ho visto nascere un bambino normale lì dentro.

Direte: “Sorella Charlotte, osi dire questo?”. Assolutamente, non solo oso dirlo, ma intendo continuare a dirlo. Perché? Ho ricevuto quei bambini dalle partorienti con queste mani, e quello che ho visto con questi occhi e ho fatto con queste mani, io sfido il mondo intero ad affermare che non sia la verità. E l’unico modo in cui possono cercare di provarlo, è aprire le porte di ogni convento. Se mai mi chiameranno a testimoniare davanti a un tribunale, vi assicuro di una cosa: i conventi saranno aperti e il mondo intero scoprirà cosa sono veramente i conventi. E li dovranno aprire per verificare la veridicità della mia testimonianza, perché so cosa farò se mi chiameranno a deporre. Sono stata davanti alle massime autorità negli Stati Uniti, e so cosa sto facendo. Sono stata schiava dei conventi per ben 22 anni, ed è una cosa orrenda.

Quando una cara piccola suora vede sopraggiungere il giorno in cui il suo prezioso bambino nascerà, la maggior parte di voi madri avete già tutto pronto. La bellissima cameretta per i bambini! Preparate tutti i bellissimi vestitini per il vostro bambino. Tutto è meraviglioso. Guardate a quella piccola, preziosa anima immortale che darete alla luce nella vostra casa, e tutto è pronto per il grande evento. Oh, ma vorrei che poteste vedere la piccola suora. Lei non aspetta quel giorno. Non ci sarà mai una coperta ad avvolgere il corpo del neonato. Non verrà mai lavato, ma potrà vivere solo per quattro o cinque ore. Poi la madre superiora prenderà il bambino e gli infilerà le dita nelle narici, gli coprirà la bocca e spegnerà così la sua piccola vita.

E perché mai costruiscono quelle cave di calce nei conventi? Che motivo hanno di esistere se non per uccidere i bambini? Li prendono e li coprono con la calce chimica, ed è la fine del bambino. Oh, quando ci penso! Per questo voglio spronare la gente. Pregate! Se sapete come pregare, se sapete come parlare a Dio, pregate e chiedeteGli di liberare le ragazze rinchiuse nei conventi. In altre parole, pregate che Dio faccia in modo che ogni convento negli Stati Uniti sia aperto, e che il governo vada ad ispezionarli. E quando il governo vi entrerà, non dovrete preoccuparvi. I conventi allora saranno aperti. Le suore saranno portate fuori, e i conventi saranno chiusi definitivamente, come accadde per i conventi del vecchio Messico nel 1934. Non ci sono conventi nel vecchio Messico. Furono aperti tutti e fu svelata la corruzione che esiste lì dentro. E le cave di calce. Se andate in vacanza da quelle parti, visitate il vecchio Messico. Ora quegli edifici appartengono al governo. Ne hanno fatto dei musei pubblici. Entrate nei conventi. Guardate con i vostri occhi. Toccate con le vostre mani, e poi tornate a casa vostra e vedrete se non crederete alla mia testimonianza. Vi farà raggelare tutto il sangue nelle vene. Intendo dire che vi farà provare qualcosa di inimmaginabile. Ispezionateli e guardate attentamente. Entrate nei sotterranei. Visitate i loro tunnel. Attraversate le cave di calce e guardate i teschi, intere stanze piene di teschi, e poi chiedete alla guida da dove vengono. E andate a vedere tutti gli strumenti di tortura che hanno utilizzato sui corpi delle piccole suore. Andate nelle loro celle e guardate i loro letti e vedrete da voi stessi. Oh si, potete andarci. Guardate e vedete da voi stessi, e poi quando tornerete a casa forse avrete sul cuore il peso di pregare per le piccole ragazze che sono state adescate ad entrare nei conventi dalle gerarchie della Chiesa Cattolica Romana.

L’esecuzione
Mi chiedo come vi sentireste se quello fosse un vostro figlio! E ricordate, ho una madre e un padre, o anzi li avevo, e mi amavano proprio come voi amate i vostri figli. E quando mi lasciarono andare in convento sono sicura che i miei genitori non sapevano a cosa andavo incontro. Non avrebbero mai sognato che un convento potesse essere un luogo del genere. Cosa provereste se un giorno vi trovaste a camminare in una particolare stanza del convento; in quella stanza, il pavimento a un certo punto ha due metà che si aprono alla pressione di un interruttore. C’è una fossa profonda sotto quel pavimento e ci avevano gettato dentro una piccola suora che aveva fatto qualcosa che li aveva infastiditi; doveva essere qualcosa di molto serio se si trovava lì. Le sue mani e i suoi piedi erano legati saldamente. L’avevano gettata in quell’orribile fossa, e l’avevano richiusa. C’era una gran quantità di calce e sostanze pericolose lì sotto. Sei piccole suore, tra cui io, dovevano camminare attorno a bordo della fossa recitando cantilene “per tenere lontani gli spiriti maligni dal convento”, e spruzzando acqua santa sulla fossa. Potevamo camminare per sei ore, e poi ci avrebbero sostituite con altre sei suore, e così via, finché non potevamo udire la piccola suora esalare l’ultimo respiro.

E questa era la fine della piccola suora che avevano gettato in quella fossa. No, non sarà mai liberata dal convento, ma vi importa sapere che quella piccola suora morirà e sarà perduta? Ve ne importa? A me importa perché io non conoscevo Gesù, non potevo parlarle di Dio. Io stessa non lo conoscevo. Soffro molto per questo, ma Dio non chiederà conto del suo sangue a me. Il suo sangue non sarà sulle mie mani perché ero nell’ignoranza, non conoscendo il Signore, e per questo non potevo parlarle di Lui.

Quella mattina, la madre superiora disse: “Mettetevi tutte in riga qui”. Non sapevo perché ci facesse mettere in riga. Potevamo essere una decina, forse quindici. Ella ci disse di spogliarci completamente. Non eravamo certamente belle a guardarci. I nostri occhi erano infossati. Le nostre guance erano smunte. I nostri corpi erano svigoriti. Dio solo sa che aspetto avevamo, perché in 22 anni lì dentro non mi sono mai potuta specchiare. Non sapevo di avere i capelli grigi. Non sapevo di avere rughe sul viso. Non conoscevo la mia età. L’ho scoperto solo 6 anni fa. Vivere senza sapere che aspetto hai.

Ed eccoci in riga, quando sopraggiunsero due o tre preti Cattolici Romani con la solita bottiglietta di liquore legata alla cintola. E passeggiavano davanti a noi ragazze nude, e scelsero quella che preferivano da portarsi in cella. Questi sono conventi, conventi di clausura, non ordini aperti. Il prete può fare tutto quello che gli pare e nascondersi sotto la copertura della religione. Poi quegli stessi preti Cattolici Romani ritornavano alle loro chiese e lì dicevano la messa, e lì andavano nel confessionale facendo credere alla povera gente di potergli dare l’assoluzione per i loro peccati, quando loro stessi sono saturi di peccato. Quando il prete stesso è pieno di corruzione e depravazione, eppure ancora si comporta come se fosse lui il Dio dei credenti. Che cosa orribile è questa. E non è finita.

Piano per un assassinio
Dunque, io vivevo lì. Ora, con tutte queste cose che accadevano giorno per giorno, cosa pensate che stesse succedendo dentro di me? Non sapevo che una persona potesse riempirsi di così tanto odio e amarezza. E non finiva mai. Mi stavo riempiendo di quei sentimenti, e continuavo a riempirmene. Cominciai a pensare nel mio cuore: “Quando riuscirò a sorprendere la madre superiora in una certa stanza, la ucciderò”. Non è orribile far entrare l’omicidio nei nostri cuori? Non ero entrata in convento con un cuore o con una mente del genere, ma cominciai a progettare quell’omicidio, e quello di un prete Cattolico Romano. E non finiva lì. Ogni qualvolta quella donna mi infliggeva qualche tortura, cosicché io soffrivo terribilmente, quando mi ritornavano le forze cominciavo a pensare a come poterla uccidere. Era più forte di me. Mi domando come vi sareste sentiti nella mia stessa situazione.

La madre superiora mi fece sedere su una sedia. Era una sedia molto dura, e io vi ero seduta e non avevo capelli. Voleva farmi perdere la ragione. Mi fece piegare le mani in questo modo, e le infilò nella gogna, dove dovetti infilare anche il collo, piegando in avanti la testa, e mi fissò saldamente alla gogna. Sopra la mia testa c’era un rubinetto. La madre superiora lo aprì, e una goccia prese a cadermi rapidamente sulla nuca. Non potevo muovermi in alcun modo. Un’ora, due ore, tre ore, quattro ore. Cosa pensate che stesse accadendo? Ero bloccata lì, immobile. Cercavo in ogni modo di svincolarmi per allontanare la mia testa da quella goccia. Se solo aveste potuto vederci, ci avreste vedute schiumare dalla bocca. Avreste visto quelle piccole ragazze, che si sforzavano di liberarsi da quella tortura, e ci facevano restare in quello stato anche per una decina di ore. Tutto il giorno. Molte, molte volte qualche piccola suora impazziva completamente. Veniva colta dalla follia e diventava una pazza furiosa mediante questa particolare “penitenza”.

Cosa ci facevano poi con lei? Ve lo dirò tra qualche minuto. Non preoccupatevi, hanno un posto specifico in convento per le suore che impazziscono. Sanno già come occuparsene. Sono posti che costruiscono loro stessi lì dentro, per noi.

Queste cose continuavano ad accadere in continuazione. Ed era terribile. Ma io intanto progettavo e progettavo e progettavo. Dopo quello che mi avevano fatto ero disperata. Un giorno la madre superiora fu seriamente ammalata. Vi chiederete: “Chi prenderà il suo posto?”. Ci sono tre, a volte quattro suore anziane, e scelgono sempre quella più dura. Quella che ha la mentalità più carnale possibile. Quella che non ha alcuna coscienza. Se un giorno accade qualcosa a una madre superiora, un’altra prende il suo posto. E così via. Ma quel giorno particolare, mi diedero la notizia: “La madre superiora è gravemente ammalata”. Io dovevo andare nella sua stanza. E subito un’idea mi balenò nella mente: “Se andrò nella stanza della madre superiora saprò io cosa fare!”. Dopo tutto, ero una peccatrice. Ero una suora, ma ciò non cambiava il fatto che ero una peccatrice, e che non conoscevo Dio, e che avevo un grande odio nel cuore, e mi stavo dirigendo in quella stanza. Avevano chiamato un medico Cattolico Romano esterno. La madre superiora era molto malata, e aveva lasciato tutti gli ordini, e le avevano dato le medicine e tutto il resto. Ora io mi sarei dovuta occupare di lei, ed era proprio quello che stavo aspettando. “Me ne prenderò cura io”, pensai. Essendo stata infermiera, sapevo a cosa servivano i medicinali che avevano prescritto alla madre superiora, e sapevo perché li stava prendendo.

Ma comunque, tutto il giorno le diedi le medicine. Feci ogni cosa come mi avevano detto. E tutto il pomeriggio. Perché? Volevo essere certa di quello che stavo per fare. Dovevo stare attenta. Aspettai fino all’una di notte, e questo perché le piccole suore da mezzanotte fino all’una sono sveglie e recitano le loro litanie. Così pensai di aspettare che fossero andate tutte a dormire prima di fare qualcosa. E quando giunse il momento giusto, ecco cosa feci. Presi sei di quelle tavolette medicinali. Mi avevano detto di dargliene solo una in mezzo bicchiere d’acqua ogni tanto. Ma, conoscendo la composizione del medicinale e il suo effetto, gliene misi sei in un bicchiere d’acqua, mescolai e glielo diedi da bere. Sapevo che sarebbe stata colta da fortissime convulsioni. Sapevo che quella donna avrebbe sofferto per milioni di morti in soli 25 minuti. Lo sapevo, e pensavo: “La guarderò soffrire perché ci ha torturate. Ci ha fatto del male migliaia di volte. Voglio vederla soffrire”.

Non è terribile vedere come una ragazza semplice può vivere in un luogo come quello abbastanza a lungo da mutare il suo cuore fino a somigliare quasi a quello della madre superiora? Ma è questo ciò che accade quando il peccato entra nella tua vita. E così aspettai. Accadde qualcosa. Fui terrorizzata, e cominciai a guardare quella donna; la sua pelle cambiò colore, e non riuscivo a sentirle il polso. Non la sentivo più respirare. Ero terrorizzata, e pensai: “Oh, cosa farò? Se la trovano morta, non voglio pensare a cosa mi faranno”.

Allora presi la pompa da stomaco [trad. lett. “stomach pump”; strumento composto da una piccola pompa e da un tubo di gomma, N.d.T.] e cominciai a pompare più velocemente possibile. Feci tutto quello che c’era da fare e, grazie a Dio, la donna non morì. Ringrazio Dio per questo. Ma ora sedevo accanto al letto e tenevo la sua mano e la osservavo attentamente finché la respirazione tornò normale e capii che sarebbe vissuta.

E allora pensai a un’altra cosa. Sapevo dove nascondeva le chiavi in uno scaffale della sua stanza. Erano attaccate a un grosso anello, e pensai: “Andrò a prendere quelle chiavi. Scenderò giù nei sotterranei”. Quando dico giù intendo dire due piani sotto il livello del suolo. Sarei andata nel luogo a cui lei ci aveva sempre avvertiti di non avvicinarci. C’era un solido muro e, da un lato, una porta, pesante e sempre chiusa a chiave, e le avevo sentito dire moltissime volte (e sono certa che dicesse lo stesso anche alle altre): “Non osate entrare per quella porta”.

Una scoperta raccapricciante
Cosa poteva mai esserci lì dentro, e perché ci aveva parlato in quel modo? Non potevamo entrarci: era chiusa a chiave! Ma, sapete, mi chiedevo cosa ci potesse essere dietro quella porta perché quando mi avevano chiusa nella segreta molto tempo prima, avevo udito delle grida provenire dal sottosuolo. Quelle grida facevano accapponare la pelle, e sapevo che ci doveva essere qualche ragazza segregata da qualche parte. Per questo, presi le chiavi e andai alla ricerca di quel posto. E quando ci arrivai, ci volle del tempo per trovare la chiave giusta, ma riuscii a sbloccare quella porta! Entrai, e mi trovai in una sala. La sala era larga 5 piedi [circa 1,5 metri] o forse di più. È quanto ricordo di quel posto. Comunque, dall’altra parte della sala c’era un certo numero di celle. Piccole stanzette, con delle porte pesanti, e dentro ogni cella c’erano delle piccole suore. Quando mi avvicinai alla prima, vidi che a una certa altezza della porta c’erano delle sbarre di ferro attraverso le quali potevo guardare. Guardai, e vidi una piccola suora che conoscevo, una di quelle con cui pranzavamo insieme, e pregavamo insieme nella cappella. Conoscevo quella ragazza, e ora eccola lì. Le avevano messo delle catene ai polsi e alla vita!

Le dissi: “Da quanto tempo non ti danno da mangiare?”. Nessuna risposta.
“Da quanto tempo sei qui dentro?”. Nessuna risposta. Scesi verso la seconda cella, poi la terza, la quarta, la quinta, e la puzza stava diventando insopportabile. In ogni caso, quelle ragazze non parlavano. Perché? Voi sapete che ero vissuta in convento per tanto tempo. Anche se mi trovato due miglia al di sotto del convento, sapevo che quando lavoravamo, se bisbigliavamo tra di noi, il giorno dopo avremmo dovuto subire qualche punizione, perché i conventi hanno dei collegamenti e la madre superiora può sentire ogni voce, ogni sussurro, e se qualcuno parla, allora sei in guai seri. E quelle suore erano state rinchiuse lì a sufficienza. Cosa avevano fatto? Non lo so, ma presumibilmente le loro menti dovevano avere ceduto e così erano state messe ai ceppi. E quando morivano, non potevano cadere a terra. Le catene le trattenevano, così, semplicemente, si accasciavano. Quando venivano messe lì dentro, non ricevevano più né cibo né acqua. È una morte lenta. E così, nel vedere tutto questo mi sentii male per fetore disgustoso, dovuto al fatto che molte di esse erano già morte, e non so da quanto tempo.

Venni fuori da lì e salii di nuovo verso la stanza dove si trovava la madre superiora, e lei era lì che dormiva. La accudii con attenzione, e lei dormì fino al giorno seguente, per molte, molte ore e senza svegliarsi. E quando lo fece, disse: “Ho fatto un lungo sonno”. Io risposi: “Si”. Lasciarono che mi prendessi cura di lei per tre giorni. Direte: “Si accorse mai che eri scesa lì sotto?”. Beh, non ancora. Speravo che non se ne accorgesse mentre io ero lì.

Un piano disperato
Ma comunque, dopo quei tre giorni mi misero in cucina. In altre parole, quando andiamo in cucina, sei di noi vanno a starci per un periodo di sei settimane. E quella volta in particolare mi misero in cucina con altre cinque piccole suore. Dovevo cucinare per tutti e badare al lavoro svolto in cucina. Fuori c’era un lungo tavolo da lavoro, dove dovevamo preparare le verdure per la minestra. Ma accadde qualcosa. La nostra cucina era una stanza rettangolare molto ampia, e da un lato c’erano delle scale che conducevano giù. Lì sotto c’era un pianerottolo, e c’era una porta esterna grossa e pesante. Lì potevamo mettere le immondizie, e poi c’era una scalinata in cemento, che conduceva al piano inferiore, quello interrato. Io mi trovavo al primo piano in quella cucina.

Mentre eravamo lì a lavorare, accadde qualcosa. Qualcuno toccò il bidone della spazzatura. Durante tutta la vita in convento ci era stato insegnato ad osservare il più rigido silenzio. Non osavamo fare rumore. Saremmo state punite per quello. Ma qualcuno aveva toccato il bidone e si era udito il rumore. Cosa era successo? Noi sei eravamo tutte assieme in cucina. Chi c’era giù? Corremmo a vedere, e scorgemmo un uomo, che stava raccogliendo il bidone pieno per lasciare quello vuoto. Non avevo mai visto accadere niente di simile in convento. Credo che Dio stesse guidandomi a una via d’uscita. Lo credo fermamente. Ecco allora cosa accadde. Ci allontanammo in tutta fretta perché era un peccato mortale guardare un altro uomo all’infuori del prete Cattolico. Così tornammo subito al lavoro. Ma pensai: “Se quell’uomo tornerà di nuovo a raccogliere il bidone, gli lascerò una nota per chiedergli se può portarmi fuori con lui”.

Ma non lo feci; anzi, sapete cosa feci? Quando ci mancava qualcosa in cucina, c’era una matita su una sedia, con la quale dovevamo scrivere cosa ci occorreva. Io rubai un pezzo di carta, e pensai: “Porterò con me questo pezzetto di carta, e ogni volta che mi capiterà di dover usare la matita, scriverò una parola o due riguardo a quella nota”. E lo feci. Ci volle un bel po’ per farlo, ma, oh, come guardavo quel bidone! Ogni volta che mi era possibile portare lì sotto i rifiuti lo facevo. E quando era quasi pieno, pensai: “Domani mattina sarà pieno quando getteremo dentro il resto della spazzatura”.

E così, quella mattina spezzai il mio crocifisso, e lo posi su una mensola, e fu una cosa difficile da fare perché mi osservavano. Ma lo feci, riuscii a romperlo e a metterlo su una mensola. In quel modo riuscii ad avere l’occasione di tornare in quella stanza. Così, quando finimmo di preparare le minestre per la cena, dovemmo uscire tutte insieme e marciare dietro alla madre superiora. E mentre marciavo, mi fermai e le dissi: “Posso parlarvi?”. E aggiunsi: “Madre Superiora, ho rotto il mio crocifisso, l’ho lasciato in cucina. Posso andare a cercarlo?” (e ovviamente nessuna suora può andare in giro senza il suo crocifisso).

Ella disse: “Come l’hai rotto?”. Le mentii. A ogni sua domanda, io mentivo. Vi chiederete perché. Perché lei ci mentiva, e noi tutte eravamo nel peccato, così mentivamo tutte, e non c’era differenza tra di noi. Infine, disse: “Vai a prendere il crocifisso e torna qui”. Era proprio quello che volevo. Avevo un motivo nel farlo: non si poteva ritornare in cucina una volta lasciata. Così non andai a cercare il mio crocifisso, anche se lei pensò che lo stessi facendo; piuttosto, cercai il bidone. Perché? Quella notte, nel mettervi dentro la spazzatura, vi appoggiai sopra la mia nota scritta, e lasciai il coperchio tolto, cosa che io non avrei dovuto fare. E su quella nota, scrissi: “Se legge queste righe, mi aiuterebbe? Potrebbe fare qualcosa per aiutare le piccole suore ad uscire?”. Gli scrissi delle 19 celle che c’erano lì sotto e delle 19 suore che vi erano chiuse dentro. Gli scrissi di alcuni dei bambini che erano stati uccisi. Gli scrissi delle altre piccole suore che sono chiuse nei sotterranei e sono incatenate. Gli scrissi molte cose, e conclusi con queste parole: “Ci aiuterebbe? Se lo vuole, per favore lasci una nota sotto il bidone vuoto”. Questo era l’unico motivo per cui ero tornata indietro nella cucina.

La fuga
Quando alzai il bidone e trovai una nota, non avete idea di come mi sentii. Mi immobilizzai. Ero così spaventata che non sapevo cosa fare. Raccolsi quel pezzo di carta e lo lessi, e questo era ciò che quell’uomo aveva scritto: “Non chiuderò a chiave né la porta né il cancello grande di ferro. Uscite fuori”.
Oh, voglio dirvelo, era quasi più di quanto avessi mai sperato. Non avrei mai sognato di poter uscire da un convento. Volevo uscire, ma pensavo che vi sarei rimasta per sempre. Quando riuscii a ricompormi andai alla porta e girai il pomello, e sapete, si aprì! Uscii da quel convento e chiusi la porta dietro di me. Arrivai al grande cancello di ferro, ma, oh, mi aveva intrappolata. Quel cancello era ancora chiuso come lo era sempre stato! Non sapete cosa significò per me stare a guardare quel cancello chiuso. Ero chiusa fuori dal convento. Non avevo diritti. Non potete immaginare. So solo che soffrii molto perché ero terrorizzata a morte. E cosa sarebbe accaduto se fossi tornata indietro e avessi bussato alla porta? Cosa mi avrebbero fatto? Oh, quale terrore mi stringeva il cuore.

Non avevo né le scarpe né le calze. Quelle che avevo le avevo consumate molti anni prima. Quando penso che la Chiesa Cattolica Romana è la chiesa più ricca del mondo e lascia che le piccole suore vivano d’inverno e d’estate senza scarpe e senza calze, in estrema povertà, mi chiedo con quale coraggio lo fanno! Noi siamo affamate, mentre i loro preti sono satolli e grassocci. Le piccole suore hanno così fame, che a volte mi chiedo come fanno. Mi direte: “Allora cosa facesti, Charlotte?”. Mi aggrappai al grande cancello, e cercai di arrampicarmi. Era l’unica cosa che mi restava da fare. A un piede e mezzo [quasi mezzo metro] dalla cima c’era una sporgenza larga circa 15 centimetri. Pensai che se fossi riuscita a raggiungerla e a poggiarci sopra un ginocchio sarei stata in salvo. E lo feci. Riuscii a poggiare un ginocchio lì sopra, ma non avevo più forze. Mi chiesi cosa potevo fare. Allora mi resi conto che indossavo tre sottane; erano raccolte da una cintura e scendevano fino alle mie caviglie. Il mio velo giungeva fino alle ginocchia davanti ed era lungo più o meno così dietro. Come sarei passata oltre quei punti taglienti? E pensai: “Non posso scendere, non abbastanza forze, dovrò saltare”. E sapevo che se fossi saltata mi sarei fratturata tutte le ossa, anche perché il mio corpo era svigorito. E così mi chiesi: “Cosa farò?”. Mi sollevai tutti i vestiti e li tenni fermi con una mano, e poi mi dissi: “Dovrò saltare”.

Sapete, hanno una sirena d’allarme nel convento; quando una suora cerca di scappare la inseguono e attivano la sirena. E, oh, i preti vi dicono che loro non entrano nei conventi, ma io vorrei che poteste vederli allora. Vedreste molti di loro, tutti all’inseguimento di quell’unica suora. E non le permetteranno di uscire. Se uscisse, un giorno potrebbe testimoniare contro di loro, e tutte le atrocità che commettono nei conventi sarebbero palesate agli occhi del mondo. E vi assicuro che loro non intendono permetterci di uscire.

Così, feci un salto dalla cima di quel cancello, ma non ci riuscii. I miei abiti si impigliarono nelle punte e io rimasi appesa, ma mi staccai da lì. Spesso dico che non so che aspetto avessi. Non sapevo di avere i capelli grigi, ma ora mi chiedo se non fu allora che cominciarono a diventare di quel colore. Forse non saprete mai cosa patii nello stare appesa lì sulla cima di quel cancello, sapendo che la sirena sarebbe potuta suonare da un momento all’altro e allora, cosa mi avrebbero fatto? Ero terrorizzata. Così cercai di scuotermi e di dondolarmi abbastanza da potermi aggrappare al cancello con una mano, per uscire da quella situazione. Ci riuscii. Allora con l’altra mano cercai di slegare la sottana, e sapete che successe? Caddi giù, a terra. Finalmente ero fuori. Restai svenuta per un po’. Non so per quanto tempo, non ho modo di saperlo. Ma quando mi riebbi, mi accorsi di avere una spalla rotta e un braccio rotto. L’osso era uscito fuori perché non c’era della carne a ricoprirlo.

In cerca di aiuto
E pensai: “Cosa farò adesso?”. Capii che ero fuori. “Dove andrò?”. Dove pensate che potessi andare? Non ero negli Stati Uniti. Ero in un’altra città e non sapevo nulla di quel posto. Quando mi avevano portata lì, ero così pesantemente coperta dai veli che non potevo vedere niente. E non sapevo dove mi trovavo. Non sapevo dove andare. Non sapevo più se avevo qualcuno al mondo. E io ero povera. Non avevo soldi, ero affamata, il mio corpo era rovinato, ed ora mi ero anche ferita. Dove sarei potuta andare? Era qualcosa da ponderare bene. Ma come prima cosa, mi allontanai. Volevo stare alla larga dal convento! E così cominciai ad allontanarmi.

Le foglie che cadevano facevano un gran rumore! Io ero spaventata, e continuavo a correre; infine sopraggiunse l’oscurità. Non c’è un crepuscolo in quella zona di quel paese; il buio cala improvvisamente. Comunque, vidi un piccolo edificio vicino alla strada. Pensai: “Mi nasconderò lì”. Era forse un canile o un pollaio o qualcosa del genere. Era sporco, ma io mi accovacciai lì perché ero sconvolta e spaventata. Cominciai a riprendermi, e pensai: “Dovrò viaggiare, è buio. È più sicuro per me”. Così uscii e viaggiai per tutta la notte e il giorno seguente. Mi nascosi dietro a delle assi che erano ammucchiate contro un vecchio edificio. Immaginate cosa significò per me stare lì nascosta tutto il giorno! E affamata com’ero, con le ossa rotte, riuscite a immaginare come mi sentivo? No. Voi non lo potrete mai capire.

Quando calò nuovamente la notte, dovetti ricominciare a fuggire per allontanarmi dal convento. Avevo paura di bussare alla porta di qualcuno. Ero spaventata, e per quel che ne sapevo, mi sarebbe anche potuto capitare di bussare alla porta di qualche Cattolico Romano. Avrebbero immediatamente avvisato i preti e io sarei stata ricondotta con la forza in convento. E io avrei preferito che mi uccidessero piuttosto che ritornare lì. Così non bussai, ma proseguii. La notte successiva mi nascosi in un sacco, e poi, il pomeriggio del terzo giorno mi preoccupai perché il mio braccio si era gonfiato che più non poteva, ed ero costretta a reggerlo con l’altra mano. Tutte le dita avevano cominciato a diventare blu, e capii che stava cominciando la cancrena. E sapete, non c’era nessuno lì ad aiutarmi, e io realizzai che stavo per morire come un topo di strada. Era una sensazione terribile, e pensai: “Cosa farò? Uscirò e forse morirò un po’ prima. Devo bussare alla porta di qualcuno”. E fu quello che feci.

Ricordo che camminai (non so per quanto) finché vidi una lampada. Era una vecchia lampada, con la fiamma accesa. Una casa molto povera, non verniciata, e immaginai che fosse abitata da persone povere. Bussai alla porta, e un uomo alto venne ad aprire. Era piuttosto anziano. Gli dissi: “La prego, posso avere un bicchiere d’acqua?”. L’uomo non mi rispose, ma entrò in casa e chiamò sua moglie. E, Dio benedica il suo cuore, si trattava di una donna come le tipiche madri all’antica. Venne alla porta, e non disse: “Chi sei e cosa vuoi?”. Grazie a Dio ci sono anche molte persone buone in questo mondo. Quella cara piccola donna semplicemente spinse la porta e disse: “Non vuoi entrare e sederti?”. Sapete che fu la musica più dolce che avevo mai sentito in vita mia? Accettai, e lei mi diede una sedia, e mi sedei. Ero felice di essere lì seduta.

Quella donna era povera. Non c’erano tappeti di alcun tipo sul pavimento, una tovaglia a scacchi rossi copriva la tavola, e una piccola vecchia stufa era in un angolo, ed era accesa. Quella donna mise del latte in un tegame e lo riscaldò e me lo portò. Ero affamata. Non conoscevo le buone maniere, le avevo dimenticate. Avevo dimenticato moltissime cose in quei 22 anni in convento. E così presi il bicchiere di latte prima ancora che lei si sedesse, e lo ingurgitai. Ero così affamata, che mi sembrava di uscire di senno. Ma come il latte giunse al mio stomaco, non riuscii a trattenerlo. Lo vomitai. Non avevo mai bevuto del latte per 22 anni interi. Comprenderete perché non riuscii a trattenerlo. E quella donna sapeva cosa fare. Andò ai fornelli, o per meglio dire, andò vicino alla stufa, e riscaldò dell’acqua. Aggiunse dello zucchero all’acqua e me la portò. Si sedette accanto a me e me la diede con un cucchiaio. La bevvi tutta. Oh, com’era buona! Era nutriente.

Allora il marito mi si avvicinò e disse: “Ora dicci chi sei e da dove vieni”. Cominciai a piangere. Mi ero spaventata. Dissi: “Sto fuggendo dal convento e non voglio tornarci”. Lui mi disse: “Cosa ti è successo?”. La mia mano era stesa sul tavolo. Io dissi: “Ho cercato di arrampicarmi per uscire dal cancello e sono caduta, mi sono fatta male”.

Il dottore
L’uomo disse: “Dovremo chiamare un dottore”. Allora divenni isterica. Mi alzai dal tavolo, e cercai di correre fuori, ma non me lo permisero. L’uomo disse: “Aspetta. Non vogliamo farti del male. Sei ferita. Hai bisogno di aiuto”.

Io dissi: “Non ho soldi, e non ho nessuno, e non posso pagare il conto del medico”. Ero in una situazione disperata se volete saperlo. Quell’uomo mi disse: “Vado a cercare un dottore”. E aggiunse: “Non è un Cattolico Romano, e neppure io lo sono”. Quel caro uomo non aveva un’automobile, ma salì su un ronzino e fece 9 miglia [quasi 14 chilometri e mezzo] per raggiungere il dottore. Il dottore venne con la propria auto, e quando egli arrivò, il marito della donna era molto indietro con il suo cavallo. Quando il dottore entrò in casa e mi vide, cominciò a camminarmi intorno in continuazione, imprecando (forse non capiva il terribile effetto che il suo modo di fare aveva su di me). Quando si fermò, mi guardò, ed era sconvolto. Era sconvolto. Perché? Era sconvolto perché in teoria lui stava guardando quello che sarebbe dovuto essere un essere umano, ma io non ne avevo più l’aspetto per la orribile condizione in cui ero.

Alla fine, il dottore si calmò e, avvicinatosi, disse: “Devo portarti all’ospedale questa notte stessa”. Oh, divenni isterica. Dissi: “Non voglio andare. Vi prego, non fatemi andare!”. Lui si sedette e con calma mi prese la mano e cominciò a dire: “Non ti farò del male. Devi ricevere aiuto, e io voglio aiutarti”.

Così quel dottore mi portò all’ospedale quella notte stessa e fu lì che appresi quanto pesavo. Pesavo esattamente 89 libbre [40 chili e mezzo]. Oggi peso 178 libbre [81 chili]. Mi portarono in sala operatoria, e cercarono di risolvere il gonfiore e l’infiammazione al mio braccio per potermi aiutare. Ci vollero 12 o 13 giorni. La frattura aveva già cominciato a saldarsi, così dovettero romperla di nuovo e ingessarmi. Soffrii molto.

Infine, un giorno riuscii ad essere rilasciata dall’ospedale. Vi chiederete a chi mi affidarono. Implorai che mi facessero andare da quella coppia anziana per poter stare con loro, e loro mi lasciarono andare perché erano stati buoni con me e io avevo imparato a fidarmi di loro. Il dottore volle accompagnarmi a casa. Ero stata in ospedale per tre mesi e mezzo. Così mi portarono a destinazione, e rimasi con l’uomo e la donna per un certo tempo. E un giorno questo stesso dottore scrisse una lettera, e sapete cosa incluse nella busta della lettera? Un assegno. Scrisse all’anziana coppia di comprarmi una valigia e dei vestiti. Lui sarebbe venuto da me un certo giorno. Disse: “Vado a trovarti qualcuno”. Quel dottore era un estraneo, ma oh, quanto ringrazio Dio che Egli ha degli uomini e delle donne in questo mondo che non sono egoisti e che usano parte dei loro soldi per aiutare chi è meno fortunato di loro. Il dottore spese molti soldi per aiutare me. Stetti in quell’ospedale per tre mesi e mezzo, e fu lui a pagare tutti i conti. Quanto lo apprezzai! E sapete, mi comprarono la valigia e tutto fu pronto per il giorno in cui il dottore sarebbe venuto a prendermi per accompagnarmi al treno. Mi mise sul treno e mi affidò alla custodia di una persona. Aveva trovato delle persone che si prendessero cura di me. Viaggiai su autobus, treni e barche per molto tempo, e un giorno, dopo avermi fatto avere il mio visto per tornare negli Stati Uniti, fui sempre affidata alle cure di qualcuno perché avevano paura di lasciarmi andare da sola dopo aver vissuto così a lungo sottoterra.

Finalmente a casa
Un giorno fecero il nome della città dove ero stata, dove vivevano la mia mamma e il mio papà. E dato che ricordavo la strada per casa, quando scesi dal treno corsi fino a casa loro, a pochi passi da lì, poiché è una cittadina molto piccola. E quando suonai il campanello, il mio papà venne alla porta e, sapete, lo guardai in viso e non lo riconobbi. Per questo, gli chiesi: “Lei sa dove vive mio padre?”. Egli rispose: “Chi sei, e come ti chiami?”.

Dissi il mio nome, e non gli diedi il mio nome da chiesa, gli diedi il mio nome di battesimo. E quell’uomo mi guardò, poiché aveva riconosciuto il nome, e rivolgendosi a me con il nomignolo affettuoso che usava quando ero bambina, disse: “Sei proprio tu?”. Mio padre non mi riconosceva, eppure era proprio lui; mi invitò ad entrare e io gli chiesi: “Papà, mamma è ancora viva?”, perché non sapevo cosa ne era stato di lei. E lui me la fece vedere. Giaceva nel letto da sette anni e mezzo, era invalida. Era in una terribile, terribile condizione di invalidità. E naturalmente né lei riconobbe me, né la riconobbi io.

Quella stessa notte mi ammalai gravemente e mi riportarono in ospedale per altri tre mesi, ma mio padre pagò ogni conto. Rimborsò il dottore di tutti i soldi che aveva sborsato per me, pagò il dottore in un’altra città, e pagò la coppia anziana. Rimborsò ogni cosa a tutti quelli che mi avevano aiutata. Ciò fu stupendo, e quando mi fui rimessa in forze, avendo ricevuto l’addestramento da infermiera, feci l’esame da infermiera, qui negli Stati Uniti. E sapete cosa fece Dio? Fece in modo che una donna venisse proprio in quell’ospedale. Era un ospedale Cattolico Romano.

Questa donna era un ministro della Chiesa di Dio. Ella venne lì, e io pensai: “Che strano!”. Proprio oltre il Mississippi ci sono due magnifici ospedali Protestanti, e lei vive da quelle parti. Proprio lì, tre città unite. Perché mai questa donna è venuta in un ospedale Cattolico Romano? Perché? Io credo che Dio abbia guidato ogni cosa fin dall’inizio. Quella donna venne in quell’ospedale e il dottore mi disse: “Voglio che tu ti occupi di lei”, e così andai a preparare quella donna per la sala operatoria, e la sentii pregare; io divenni l’infermiera personale di quella donna.

Dopo aver lasciato l’ospedale, ella andò a casa, e io la accudivo in casa. La donna mi chiese se volevo andare in chiesa con lei. Sapete, l’avevo sentita pregare a casa sua molte volte. Ero vissuta in quella casa abbastanza a lungo da poter leggere la Bibbia, perché come sua infermiera seguivo i suoi ordini. Non avevo mai letto la Bibbia prima in tutta la mia vita, ma lei mi dava le scritture e mi chiedeva di leggergliele. E, sapete, mentre leggevo la Parola di Dio, Egli cominciò a parlare al mio cuore. Così, quando quella donna mi chiese: “Vorresti venire in chiesa con me?”, io andai con lei, mi accomodai e ascoltai il Vangelo per la prima volta in vita mia. E sapete, per quattro notti fu realmente meraviglioso. Non avevo mai sentito nulla di simile. E lei mi parlava del piano di salvezza di Dio, mi parlava di Dio, e mi diceva che avevo bisogno di Lui, di essere salvata. E io le credevo.

Sapete cosa facevo ogni notte? Andavo in chiesa con quella donna, e poi dicevo: “Vai pure a dormire, ma io resto ancora un po’ al pianterreno”. Posavo la mia Bibbia sulla sedia, e lì sfidavo Dio, dicendo: “Dio, hai sentito quello che ha detto il predicatore? Signore, hai sentito?”. E gli elencavo tutto quello che avevo ascoltato durante il culto. Poi dicevo: “Dio, tu hai udito ogni parola? Allora, se Tu sei Dio e se la Bibbia è la Parola di Dio, allora Tu sei reale! Io voglio quello che hanno quelle persone. Ma, se non sei Dio, e se la Bibbia non è la Tua Parola, allora non darmi nulla”. Così mi rivolgevo a Dio, per metterlo alla prova. Siate certi che Dio non vi darà mai qualcosa che non viene da Lui.

E ogni notte continuavo a fare così, per quattro o cinque notti. Avevo perduto l’appetito e il sonno, e cominciai anche a perdere peso. Ma una sera tornai in chiesa, e proprio nel mezzo della predicazione mi alzai dal mio posto e, tese le mani verso l’alto, corsi all’altare e gridai: “Mio Dio, perdonami per tutti i miei peccati!”. Ero una peccatrice. Ma Dio mi aveva portata lì. Gloria al Suo meraviglioso nome. Mi pentii di tutto quello che avevo fatto in quel convento. Avevo rubato le bucce delle patate. Avevo rubato il pane. Avevo mentito. Avevo rivolto degli insulti tra i denti alla madre superiora. E voglio che sappiate che Dio mi incontrò in quel luogo e mi perdonò di ogni peccato che c’era nella mia vita. E quanto Lo ringrazio e Lo lodo per questo! Gloria al suo meraviglioso nome. Dio è stato veramente buono con me. Molto, molto buono.

Qualche sera dopo, tornai in chiesa. Dio mi guarì con il battesimo dello Spirito Santo. Posso dire che Dio significa per me molto di più di qualunque bene materiale che io ho in questa città. Preferisco avere Gesù piuttosto che qualunque cosa che possiate avere, perché ho trovato in Lui il migliore amico che io abbia mai avuto. Posso parlarGli di qualunque cosa, e Lui non mi riprende per questo. Posso sedere ai Suoi piedi e dirGli ogni giorno della mia vita: “Gesù, io ti amo. Gesù, ti amo”. E ogni segreto del mio cuore, posso confidarlo a Lui. È Lui il migliore amico che tu possa mai avere. Egli è potente da salvarti. È potente da liberarti. Può liberarti dalle cose di questo mondo e renderti libero di conoscere Lui. Gloria al Suo nome. Ho un Dio meraviglioso. Lo amo immensamente. Preferirei avere Gesù piuttosto che qualunque altra cosa il mondo possa offrire. Dio è reale nella mia vita. È meraviglioso il modo in cui Dio mi ha liberato dal convento. Pregate per me. Ho tanto bisogno delle vostre preghiere. Devo andare in paesi prevalentemente Cattolici Romani. Dovrò soffrire molto, ma sono disposta a farlo per Gesù affinché io possa parlare ad altri di Lui e raccontare loro la mia testimonianza affinché altre piccole sorelle possano essere salvate dai conventi. Perciò, pregate per me; lo farete?

Tratto da: http://www.amicib.org/


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