Il 16 ottobre di 77 anni fa ci fu il famoso rastrellamento del ghetto di Roma. Di retate nella Roma occupata dai nazisti, di fughe, silenzi, di nascondimenti, del coraggio di uomini che seppero opporsi all’odio razziale dei nazifascisti, mi parla Gabriele Sonnino, classe 1939, che nel 1943 scampò insieme alla sorella Sara durante una retata delle SS al ghetto di Roma.
«Nell’autunno del 1943, era tutto un fuggi fuggi di ebrei che cercavano di non farsi arrestare. C’era chi gli ebrei li denunciava, chi se li vendeva… A quel tempo io avevo 4 anni. Con i miei genitori e mia sorella Sara, trovammo riparo in una baracca della Magliana: non c’era niente, ricordo che era piena di topi e blatte, e ci pioveva dentro. Dopo una decina di giorni, mio padre venne a sapere che all’Isola Tiberina, nell’Ospedale Fatebenefratelli, si erano nascosti diversi ebrei, grazie a un prete polacco, Fra’ Maurizio Bialek, e al primario Giovanni Borromeo (riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” nel 2004 dallo Yad Vashem, ndr). In un padiglione, lo chiamavano “la stanza Assunta”, erano state nascoste diverse famiglie di ebrei. Il dottor Borromeo, per evitare che gli ebrei venissero spediti nei campi di sterminio, si inventò che nella stanza Assunta vi erano pazienti affetti da una malattia infettiva estremamente pericolosa, il “Morbo K”, dove K stava ad indicare le iniziali dell’ufficiale Herbert Kappler e il generale Kesselring. Quando un giorno le SS arrivarono all’ospedale per fare dei controlli, il prof. Borromeo spiegò la pericolosità del morbo ai soldati che, temendo il contagio, decisero di non ispezionare il reparto».
Purtroppo la famiglia Sonnino rimane al Fatebenefratelli poco, ed è costretta nuovamente a scappare. Pieni di paura si ritrovano a vagare per Roma fino al Ghetto. «Arrivammo a Piazza Costaguti – prosegue Gabriele Sonnino – dove, da un palazzo signorile, uscì un portiere, Giuseppe Bernardini, vestito da fascista, con camicia nera, cintura e stivaloni che ci fece entrare nel portone, e nascondere nel cortile dentro una macchina abbandonata. Il condominio era disabitato, la famiglia Peticoni proprietaria del palazzo, originaria delle Marche, aveva lasciato la Capitale e aveva dato ordine al portiere che, se fosse capitata l’occasione di incontrare qualcuno da aiutare, doveva essere nascosto nel palazzo. In quattro ci siamo nascosti in quell’auto, dove dormivamo e trascorrevamo le intere giornate. Ma come fai a tene’ du ragazzini, uno di 4 e una di 6, dentro una macchina? Non esiste!».
Così un giorno di quell’autunno del 1943, Sara apre uno spicchio del portone ed esce in strada per giocare, e il piccolo Gabriele le va dietro. Si ritrovano vicino al Tempietto del Carmelo, quando improvvisamente si para davanti un soldato tedesco che afferra la bambina per il braccio sinistro, dietro segue Gabriele, e si incammina verso una camionetta delle SS. In strada c’è trambusto di gente: è in corso una retata. «Ce l’ho ancora davanti agli occhi quella scena, fummo entrambi trascinati al centro del Ghetto… ma ecco che il lattaio in via del Portico d’Ottavia, che aveva visto tutta la scena, si lanciò in strada, strappò mia sorella dalle mani del tedesco, le diede uno schiaffo, si aprì la camicia e mostrò al tedesco il crocifisso che portava al collo. Il soldato, preso alla sprovvista, pensò che eravamo due bambini cattolici, e ci lasciò davanti alla latteria. Rimanemmo per un po’ nel negozio, e poi il lattaio ci riportò dai nostri genitori. In tutta quella scena, io riconosco che c’era Qualcuno, che c’è stato veramente Hashem, Dio, che ci aveva protetti e che aveva spinto quel lattaio ad un gesto di altruismo infinito».
Gabriele e la sorella Sara hanno custodito questo racconto per ben 65 anni. Poi Sara è morta. Soltanto una dozzina di anni fa, nel negozio di coloniali che Gabriele gestiva al Getto di Roma, entra una signora. «Dopo aver fatto acquisti – prosegue il racconto Gabriele – la signora viene alla cassa, paga e va via. Ma dopo qualche istante, rientra nel negozio e mi dice “Mi riconosci?”, e io le dico “No, signora, mi sta scambiando per un’altra persona”. Ma lei mi dice “Forse conosceva mio padre?”. “Ma chi era suo padre?”, le chiedo, e lei risponde “Mio padre era Francesco, il lattaio che aveva il negozio in via Portico di Ottavia”. Era la figlia dell’uomo che aveva salvato la mia vita e quella di mia sorella quel lontano giorno del 1943. Le raccontai tutto: lei rimase sconvolta perché il padre non le aveva mai narrato nulla. Niente! Ti rendi conto? Si era tenuto tutto per sé. Francesco Nardecchia è stato un eroe silenzioso, aveva messo in pericolo la sua vita e quella della sua famiglia, e non si era mai vantato con nessuno di quello che aveva fatto».
Da quel giorno Gabriele non ha smesso di raccontare la sua storia, quella della sua famiglia, e del coraggio di Francesco Nardecchia, il lattaio di via del Portico di Ottavia. «Se quella mattina non ci fossero stata la prontezza e la generosità di Francesco Nardecchia, io e mia sorella saremmo stati trascinati nei vagoni piombati e deportati dopo otto giorni di viaggio, e trasformati – passando dalle camere a gas, e i forni crematori – in un mucchio di cenere. Per abbattere il terrore del mondo che fu il nazismo, ci sono voluti sacrifici disumani e quindi non bisognerà mai più permettere a nessun mostro di risorgere contro milioni di innocenti, di bambini, di donne, di vecchi e di primavere spezzate. La mia storia di bambino ebreo romano perseguitato insieme alla mia famiglia è un granello di vita e di sofferenza. Ho avuto la fortuna di essere salvato da persone e situazioni eccezionali. Sono ancora vivo, non dimentico e voglio conservare la memoria di quanto accaduto. Il bene è una scelta che porta altro bene, questa è di sicuro la forza degli uomini e delle donne liberi».
La testimonianza di Gabriele è un imperativo a non dimenticare l’esperienza di chi ha vissuto quegli anni bui, a prendere coscienza di quell’orrore affinché non si ripeta più, a ricordare che il corso drammatico della storia può cambiare grazie al coraggio e alla solidarietà di tanti eroi che, come piccole fiaccole di luce, hanno illuminato le tenebre di quegli anni. L’odio razziale è una bestia che fa ancora vittime nel nostro paese e nel resto del mondo. A noi il compito di rimanere vigili e pronti a fare la nostra parte per difendere la dignità di ogni persona.
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