Da qualche ora cosa sta succedendo in Egitto? Mohammed Morsi non è più il presidente della Repubblica araba d’Egitto. Il suo anno di mandato è di fatto terminato ieri sera, dopo quattro giorni di manifestazioni oceaniche, una cinquantina di morti negli scontri tra opposte fazioni e un comunicato letto alla televisione di Stato dal ministro della Difesa e capo delle Forze armate, Abdel Fattah al-Sissi. L’annuncio alla nazione è arrivato nella serata di ieri, dopo una giornata di attesa trepidante che è alla fine esplosa in un boato di gioia per le centinaia di migliaia di manifestanti anti-Morsi radunate in piazza Tahrir dal 30 giugno scorso. Sul tavolo, l’attesa Road map per uscire dallo stallo istituzionale e arrivare alle elezioni politiche e presidenziali che saranno fissate dal governo tecnico che verrà insediato. L’esercito resterà fuori dall’intero processo, ma si farà garante della transizione, l’ennesima dalle dimissioni di Hosni Mubarak, l’11 febbraio del 2011. Sciolto il governo e destituito Morsi, il nuovo capo dello Stato ad interim sarà l’attuale presidente della Corte costituzionale, Adli Mansour, mentre la Costituzione, approvata in fretta lo scorso dicembre, è stata sospesa.
Accanto ad al-Sissi, il patriarca copto Tawadros II, il gran imam dell’Università di al-Azhar, Ahmed Al Tayeb, e il leader del Fronte di salvezza nazionale, Mohammed el-Baradei. Le maggiori cariche religiose del Paese assieme al rappresentante delle opposizioni laiche. Quanto a Morsi, è rinchiuso agli arresti in una caserma della Guardia presidenziale. Da lì ha sollecitato i suoi fedelissimi a far rispettare la legge e a evitare violenze. Su di lui (come su diversi leader dei Fratelli, tra cui Mohammed Badie e il suo vice Khairat el-Shater) pende un divieto di espatrio.
La Fratellanza musulmana grida al golpe e agita le sue piazze. I militari iniziano le manovre per presidiare l’intero Paese. Mentre è incontenibile la gioia degli oppositori di Morsi: il popolo di piazza Tahrir. Milioni di persone (questa volta la stima è plausibile) si sono riunite sin dal mattino nella piazza simbolo della rivoluzione, davanti al Palazzo presidenziale di Ittahadiya e in numerose altre zone della Capitale, oltre che nel resto del Paese. Punti nevralgici presidiati sin dal mattino da un forte schieramento di carri armati.
«La rivoluzione non è finita!», grida a squarciagola Marwan Ali, docente di inglese alla Cairo University, nel bel mezzo della folla, in quella che la Bbc ha definito «la più grande manifestazione politica nella storia dell’umanità». «Questo Paese – dice Marwan – sta dimostrando di avere una grande anima, composta da diverse anime. Nessun egiziano può accettare che una parte prevalga sulle altre. Non capire questo è stata la condanna di Morsi e degli Ikhwan (i Fratelli)». «Abbiamo raccolto 22 milioni di firme per chiedere le dimissioni del presidente – dice Ahmed Jebali, membro dall’organizzazione Tamarod (ribelli) che si è occupata dell’oceanica sottoscrizione – dopo i due ultimatum consecutivi dettati dal Fronte di salvezza nazionale prima e poi dallo stesso al-Sissi, questa è stata la giornata più lunga. Ma alla fine abbiamo vinto».
Fuochi d’artificio, bandiere, clacson e cori hanno avvolto piazza Tahrir e le vie limitrofe, mentre gli elicotteri dell’esercito sorvolavano la folla a bassa quota. Una festa che, tuttavia, non placa il clima di tensione. Nella serata di martedì, Morsi aveva rivolto un discorso televisivo alla nazione usando toni aspri e rigettando l’ultimatum di 48 ore imposto dai militari, per dare una soluzione alla crisi politica: «Io sono il legittimo presidente di questo Paese – aveva detto – se il costo di questa legittimità è la vita, la sacrificherò volentieri».
A rincarare la dose, nel pomeriggio di ieri, è intervenuto il consigliere per gli Affari esteri del presidente, Essam el-Haddad: «Questo è un golpe militare – il suo messaggio affidato a Facebook – non potrà riuscire senza un vasto bagno di sangue». Parole condannate duramente dai leader delle opposizioni liberali e democratiche, riuniti nel fronte di Salvezza nazionale. Ma il clima è ormai incendiato. E oltre ai morti, si parla di almeno 600 persone rimaste ferite durante i duri scontri tra sostenitori e oppositori di Morsi, avvenuti attorno all’Università del Cairo, nella zona di Giza. «Sparavano da una parte e dall’altra, con fucili e pistole fabbricate in casa» testimonia il dottor Gamal al-Sawan, uno dei sanitari che hanno prestato il primo soccorso ai feriti. Per evitare ulteriori spargimenti di sangue, forze speciali dell’esercito sono state dispiegate attorno al palazzo presidenziale di Ittahadiya per impedire contatti tra le due fazioni. Specie i sostenitori di Morsi, raccolti davanti alla moschea di Rabaa el-Adaweya. Il punto interrogativo ora riguarda loro e la loro reazione alla decisione dell’esercito. E dire che poco prima dello scadere dell’ultimatum il presidente si era affannato a proporre un’ipotesi di Road map. Niente dimissioni, ma l’ingresso delle opposizioni nel Governo, oltre alla garanzia di rimettere mano alla Costituzione approvata in fretta lo scorso dicembre. Troppo tardi. Così come troppo tardi sembra essere giunto anche l’appello della Casa Bianca a «risolvere la crisi con la mediazione politica». È poi notizia di ieri è che la Corte d’Appello egiziana ha confermato la condanna a un anno di carcere contro il premier Hisham Kandil ordinando la sua rimozione. La conferma di una sentenza di aprile, per questioni di trust imprenditoriale. Ironia della sorte, nella giornata più nera per Morsi e i Fratelli musulmani.
Da Avvenire.it
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