La sentenza emessa il 19 marzo scorso da Giuseppe Buffone, giudice della IX sezione civile del tribunale di Milano, che ha stabilito che i figli di una coppia separata devono frequentare la scuola statale e non una paritaria come chiesto dalla madre, continua a far discutere. Ne ha già scritto ampiamente su queste colonne Robi Ronza (clicca qui), pertanto non torneremo sulla cronaca della vicenda né sui dettagli giuridici, se non per introdurre brevemente il tema che ci interessa, e cioè l’interpretazione del senso della sentenza proposta dal quotidiano La Repubblica, secondo cui «La scuola pubblica rappresenta una scelta neutra, mentre la privata potrebbe orientare il minore verso determinate scelte educative o culturali in genere».
Per motivare la propria decisione, in realtà, il giudice Buffone ha “semplicemente” sostenuto un’ontologica superiorità della scuola statale rispetto a quella non statale, affermando apoditticamente come «non si possa affatto dire che la scuola privata risponda al preminente interesse del minore, poiché vorrebbe dire che le istituzioni di carattere privato sono migliori di quelle pubbliche». Non sia mai! Al quotidiano di cui sopra non è parso vero: ha preso la palla al balzo e, per spiegare le ragioni di questa pretesa superiorità, ha dato voce ad una opinione tanto diffusa quanto infondata, e cioè che la scuola statale sia meglio della non statale perché pluralista, neutra, e dunque al riparo da ogni rischio di indottrinamento.
Su questo, in particolare, urgono alcune precisazioni, perché la neutralità dell’educazione statale è un mito duro a morire, ma non esiste né può esistere. Ogni docente, infatti, nel proprio modo di essere, di rapportarsi agli alunni, di impostare il programma scegliendo o privilegiando determinati aspetti, di selezionare certe parti e scartarne altre, comunica inevitabilmente il proprio modo di vedere le cose, i propri ideali, il proprio pensiero. É una legge della comunicazione, facilmente verificabile da chiunque e mirabilmente sintetizzata da sant’Ignazio di Antiochia: «si educa molto con quel che si dice, ancor più con quel che si fa, molto di più con quel che si è».
Il maldestro tentativo, tra l’altro, di realizzare un insegnamento neutro, cioè privato della proposta di un orizzonte di senso entro cui collocare le conoscenze e dei criteri di ragione con cui verificare tale proposta, è una delle cause del fallimento della scuola statale, ritenuta dalla maggior parte degli studenti noiosa, superata, inincidente sulla vita “reale”. È proprio di questi giorni la pubblicazione dei dati relativi all’ultimo Rapporto quadriennale sulla salute e il benessere dei giovani pubblicato dall’ufficio europeo dell’Oms, secondo cui solo il 26% delle undicenni e il 17% dei colleghi maschi dichiara che la scuola gli «piace un sacco», un dato che scende a 15 anni rispettivamente al 10% e 8%.
L’esito fallimentare di questa pretesa fu sancito già nel 1981 da Louis Legrand, un sostenitore del titanico sforzo educativo statale realizzato dai “cugini” francesi, veri maestri della laicitè: «Il suo unico contenuto è diventato la neutralità, che accetta come contenuto dell’istruzione solo ciò che non è basato su alcun valore, la pura conoscenza e la tecnica. (…) Ma questa neutralità è impossibile, come hanno dimostrato molti fatti degli anni recenti, e specialmente la crescente e inquietante indifferenza dei giovani nei riguardi degli studi… Questa pseudo-neutralità è fondamentalmente una scuola di conformismo sociale – o di rivolta anarchica contro tale conformismo. Il vuoto ideologico conduce infatti alla sterilità dell’istruzione». Pare la descrizione fedele della scuola statale italiana.
Come insegnante, ho avuto alcuni colleghi stimabilissimi che non facevano mistero coi ragazzi delleloro idee (anche politiche) e spesso ne dibattevano con loro. Alcuni di grande valore, altri sfiorando il ridicolo, come il docente che si definiva “maoista” e portava sempre con sé, nella borsa insieme ai registri e al materiale per l’insegnamento, il famoso libretto rosso. Qualche ragazzo si indignava, qualcun altro ci rideva su; altri, forse, si saranno convinti che Mao Tse Tung sia stato un grande benefattore dell’umanità. Ho avuto colleghi che usavano celatamente l’insegnamento delle scienze per veicolare una visione puramente materialista della realtà; colleghi che comunicavano sotterraneamente agli studenti, con il loro scetticismo amaro o con la mancanza di impegno nel lavoro, l’assenza di ogni prospettiva di senso e di valore. Per non parlare, poi, dei libri di testo, che propinano spacciandolo come verità storiche e scientifiche (e pertanto indubitabili) affermazioni, interpretazioni, concezioni culturali assolutamente di parte, come ci insegna per esempio la questione del gender in questi ultimi tempi.
Tutto questo, comunque, è inevitabile: l’insegnamento, e quindi la scuola, è inevitabilmente di parte. La vera questione è se “la parte” apre al tutto educando la ragione a cercare il vero, oppure se viene occultamente spacciata per neutralità e finisce per orientare i giovani a scelte non libere o per demotivarli di fronte alla vita, facendo danni gravissimi a diversi livelli. Che fare, allora? È semplice: rendiamo alle famiglie la possibilità/responsabilità di scegliere, a vera parità di condizioni, a chi affidare la formazione/educazione scolastica dei propri figli, senza fare mistero dell’identità del soggetto educante. La scuola di Stato, per sua natura, è e sarà sempre così: luogo di molteplici identità e idealità, di discordanti idee politiche, di possibile e probabile comunicazione di valori e di orizzonti di senso (o di non-senso) contrastanti con quelli della famiglia. Non è realistico né realizzabile un modello diverso di scuola statale.
Se i genitori desiderano per i figli un luogo e degli insegnanti così, sapendo bene qual è la situazione, hanno il sacrosanto diritto di mandarglieli. Ma se altri non lo desiderano e cercano scuole che rispettino i propri valori, devono avere delle alternative valide e a parità di condizioni economiche. È un diritto altrettanto sacrosanto. Sorprende che proprio i giudici, “esperti” di diritti, non comprendano una verità così elementare.
di Marco Lepore | Lanuovabq.it
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