La schiavitù delle lavoratrici romene in Sicilia

Non cambia la situazione delle cinquemila lavoratrici delle serre nel ragusano sfruttate e sottoposte a violenze.

Ieri ho incontrato un gruppo di ragazzi di terza media e di prima superiore, abbiamo parlato di Mosè e della schiavitù in Egitto: una delle domande che ho fatto loro è se esistono ancora oggi, nel 2017, persone rese o trattate come schiave. «No», mi hanno detto in molti. «In Africa, forse», hanno risposto altri. «I migranti lo sono», mi ha detto genericamente ma lucidamente una ragazzina. Queste risposte fanno riflettere su un elemento centrale delle schiavitù di oggi: sono invisibili. Oppure, spesso, le rendiamo tali di fronte alla nostra paura e al senso di impotenza che ci pervade nel sapere che al nostro fianco c’è qualcuno che soffre senza dignità, come nelle storie del passato.

Uno degli esempi è quello delle lavoratrici agricole romene in Sicilia. Alcune testate internazionali sono da poco ritornate sulla grave situazione delle donne sfruttate e sottoposte a abusi sessuali e condizionamenti psicologici nel ragusano. Nonostante i riflettori puntati, queste situazioni faticano a restare al centro dell’attenzione pubblica, tanto che il governo romeno ha accettato di collaborare con le autorità italiane per fermare gli abusi tra le 5.000 lavoratrici stagionali delle serre. Ne parliamo con Lorenzo Tondo, giornalista e collaboratore del Guardian che ha seguito la vicenda.

Che portata ha questo fenomeno?

«Il fenomeno dello sfruttamento della manodopera straniera non riguarda solo la Sicilia. Anche parlando dell’abuso di donne lavoratrici nei campi, ci sono degli esempi in altre zone, ma è evidente l’alta concentrazione soprattutto nella provincia di Ragusa. Questo per via delle serre, che permettono periodi lunghi di lavoro nei campi e che accolgono persone provenienti dalla Moldavia romena: dopo l’entrata della Romania nell’Unione europea, avvenuta nel 2007, una grande parte di manodopera iniziò a trasferirsi in quelle zone. Un fenomeno che è durato fino a oggi, si è creata una folta comunità di rumeni che è andata a contendere il lavoro con la comunità tunisina della zona».

Come si è creata questa situazione?

«Prima di tutto per via di politiche discutibili dell’Unione europea sull’ingresso dei prodotti agricoli provenienti dal nord Africa, per esempio, che hanno costretto i produttori ragusani ad abbattere i costi della manodopera. È una cosa che comunque non giustifica lo sfruttamento, ma serve a capire il fenomeno. L’altra causa è che la manodopera precedente, quella tunisina, è diventata sempre più rischiosa da assumere, a causa di un cambio di normative: un tunisino non sempre è un possessore di permesso di soggiorno, e di conseguenza, partendo dalla direttiva 2009/52/CE fino alla legge sul caporalato, assumerlo senza documenti diventava molto rischioso. Con l’assunzione di un cittadino europeo questo rischio non c’è: ecco perché la manodopera romena è andata gradualmente a sostituire quella tunisina in quelle serre, che sono il terzo polo agricolo in Europa».

Sembra che la manodopera dell’est Europa sfugga alle maglie delle leggi anticaporalato, è così?

«Sì, perché spesso nel parlare di caporalato ci si aspetta che debba esserci la figura del reclutatore, che però in queste zone non è ben definita. Alcune donne mi hanno raccontato che alla discesa del bus che da Botoșani porta le persone alla stazione di Vittoria c’è sempre un uomo di nazionalità romena che le attende, non si capisce se sia la stessa persona oppure no, i procuratori non hanno delle prove in tal senso. L’assenza del reclutatore rende difficile etichettare il fenomeno, ma ciò non toglie che lo sfruttamento esista, anzi, molte situazioni sono terribili e drammatiche».

Parliamo solo di sfruttamento lavorativo?

«Ci sono state molte inchieste, in passato per esempio quella di Antonello Mangano sull’Espresso: purtroppo ogni volta che questa storia finiva sulla carta stampata, puntualmente veniva dimenticata. L’aspetto psicologico è uno di quelli più gravi e comprende l’assoggettamento, il condizionamento, la sottomissione e la vunerabilità di queste donne. Gli stupri sono un esempio di questo condizionamento psicologico: nello stupro non c’è il consenso della donna, ma in questo caso il consenso c’è ma è come se non ci fosse, perché è dettato da una minaccia, da un ricatto. Se non c’è consenso, il giorno dopo non c’è più il lavoro per capirci. Capiamo dunque che queste persone sono in trappola, di fronte a una scelta che non è tale. Si trovano ad accettare questi abusi sessuali come se fossero parte di un pacchetto di sacrifici che sono costrette a tollerare se vogliono rimanere in Italia a lavorare. Questo condizionamento rende queste vite delle storie di schiavitù».

Immagine: via Pixabay

di Matteo De Fazio | Riforma.it

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