La protesta di decine di migliaia di Rohingya per il ritorno in Myanmar

Esplode la protesta dei rifugiati nei centri di accoglienza oltre-confine, in Bangladesh. Più di un milione sono stanziati nei campi del sud-est, diventato il più grande insediamento profughi del mondo. I dimostranti chiedono diritti di cittadinanza e la ripresa dei programmi assistiti di rimpatrio. Nel 2022 sono morti 348 Rohingya nel tentativo di raggiungere in barca Malaysia e Indonesia.

Yangon (AsiaNews) – Decine di migliaia di rifugiati Rohingya in Bangladesh hanno promosso oggi una imponente manifestazione, chiedendo di essere rimpatriati in Myanmar dal quale erano fuggiti nel 2017 in seguito a una brutale repressione dei militari. E poco importa che dalle parti di Naypyidaw (e Yangon) dal febbraio 2021 siano tornati a tutti gli effetti al potere la giunta e i generali, che hanno cacciato il governo democratico targato Nld e arrestato la sua leader Aung San Suu Kyi. Meglio i soldati dell’esercito, gridano i profughi, che gli “squallidi” centri di accoglienza nei quali hanno vissuto in tutti questi anni, spesso in condizioni di miseria e indigenza.

Più di un milione di Rohingya sono stipati da tempo nei campi nel sud-est del Bangladesh, trasformato nel più grande insediamento di rifugiati del mondo. La maggior parte è fuggita dalla repressione dell’esercito birmano quasi sei anni fa, altri ancora lì vivono da più tempo. Nel corso della protesta i rifugiati hanno sventolato cartelli e intonato slogan fra i quali “Basta vivere da rifugiato. Nessuna verifica. Nessun controllo. Nessun colloquio”. I più chiedono, o pretendo, “un rapido rientro” attraverso i canali dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), gridando “vogliamo tornare alla nostra madrepatria” o “Torniamo in Myanmar. Non cercare di fermare il rimpatrio”.

L’aumento della criminalità, le dure condizioni di vita e le cupe prospettive di ritorno in Myanmar stanno spingendo più rifugiati Rohingya a lasciare il Bangladesh in barca per Paesi come Malaysia e Indonesia, moderni “boat people” disposti a mettere in pericolo la loro vita. I dati Onu parlano di almeno 348 rifugiati originari del Myanmar (ma che Naypyidaw non considera alla stregua di cittadini) che hanno perso la vita in mare solo lo scorso anno.

Fra quanti vogliono rientrare nella ex-Birmania vi è anche Mohammad Jashim, uno dei leader della comunità, il quale chiede però che vengano “garantiti” i “diritti di cittadinanza”. “Siamo i cittadini del Myanmar per nascita. Vogliamo tornare a casa – ha proseguito nell’intervista alla Reuters – con tutti i nostri diritti, tra cui la cittadinanza, la libera circolazione, i mezzi di sussistenza, la sicurezza”. Al riguardo, egli ha poi auspicato il pieno “aiuto” delle Nazioni Unite.

I generali birmani fino a poco tempo fa avevano sempre mostrato poca inclinazione a riprendere i Rohingya, che per anni sono stati considerati come invasori provenienti dall’esterno, senza diritti e vittime di abusi. I primi tentativi di rimpatrio risalgono al 2018 e al 2019 ma sono falliti perché i rifugiati, temendo repressioni ancor più dure, si sono rifiutati di tornare indietro. Il progetto pilota prevedeva infatti il rientro di circa 1100 rifugiati, i quali rischiavano di finire “confinati in altri campi” e per questo il progetto non è mai decollato.

Per il Bangladesh, densamente popolato e anch’esso attraversato da crisi economica e sociale, il rimpatrio è l’unica soluzione possibile. Inoltre, le comunità locali si mostrano sempre più ostili verso i Rohingya che necessitano di maggiori risorse a fronte di un calo dei finanziamenti stanziati dalle principali agenzie umanitarie internazionali.

Il Programma alimentare mondiale (Wfp) ha di recente ridotto gli stanziamenti mensili per il cibo da 10 a 8 dollari Usa a persona. “La nostra situazione – denuncia Mohammed Taher, in piazza a manifestare – si sta solo deteriorando. Che futuro abbiamo qui?”. E il Myanmar, con la “scusa” dei controlli, cerca “solo di prendere del tempo”.

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