…E IL BUON PASTORE VA ALLA RICERCA DELLA PECORA SVIATA … LA PARABOLA DELLA PECORA SMARRITA (MT 18:10-14)
L’immagine del Buon Pastore, che amorevolmente e teneramente si prende cura del suo gregge, ricorre spesso nei racconti biblici. Il Salmo 23, in particolare, semplifica poeticamente l’immagine suadente e delicata del Signore come il Buon pastore che conduce nei prati sempre verdi e nei ruscelli zampillanti di acqua fresca e sorgiva il suo gregge mansueto e docile. Gesù stesso si presenta come il buon pastore in Giov. 10:11 “… Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore e al quale non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pecore e si dà alla fuga (e il lupo li rapisce e li disperde), perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore … La figura del buon pastore è fatta risaltare magistralmente da Gesù nella parabola della pecora perduta.
La parabola è presente nei Vangeli di Matteo e Luca, i cui testi differiscono nel linguaggio e nello scopo perseguito. Sebbene si pensi che gli Evangelisti abbiano attinto alla stessa fonte letteraria, è possibile che Gesù abbia raccontato la parabola in più di una occasione e con uditorio diverso. Comunque sia, gli Evangelisti hanno redatto la parabola secondo il loro specifico interesse teologico.
Ma qual è il significato originario della parabola? Luca conserva la versione originaria del racconto gesuano La comprensione della parabola nell’ambito vitale del racconto di Gesù è centrata sulla valenza metaforica dell’immagine delle pecore. Nell’Antico Testamento, la pecora/gregge indica il popolo di Israele. E’ probabile che l’uditorio abbia compreso che la pecora che si sbanda dal gregge, sia una persona che si è allontanata dal popolo di Dio, sottraendosi alle cure del pastore, che erano i peccatori e pubblicani. In tal modo, si può pensare che la parabola nel contesto della vita di Gesù, si riferisca al suo comportamento nei confronti dei pubblicani e dei peccatori. Gesù legittima il suo comportamento come una condotta tipica di Dio stesso nei confronti dei peccatori. Dio si rivela e salva nell’opera e nella parola di Gesù: la parabola è una auto-testimonianza di Gesù (cfr. Lc 15:1 sgg).
In Matteo la parabola diventa parenetica, ossia è una ammonizione della comunità ad assumere un comportamento simile a quello di Gesù, spingendo l’uditorio a manifestarlo nel proprio comportamento nei confronti dei membri smarriti della comunità.
Essa è rivolta ai discepoli (Cfr.Mt 18:1). Se analizziamo l’intero impianto narrativo del cap. 18 si può cogliere propriamente questo aspetto catechetico di Gesù nei confronti dei suoi discepoli: Gesù insegna l’umiltà (18:1-5), la cura dei “piccoli”, evitando di essere disprezzati e non istigarli a peccare (18:6-10), la riconciliazione (18:15-17), il legare e lo sciogliere (18:18-20), il perdono (18:21-35).
Il testo della parabola è incastonato tra una introduzione (18:10) e una applicazione riguardante i “piccoli” (18:14). Dal contesto si deduce che i “piccoli” sono alcuni discepoli (la parola greca è “micròn”, che si oppone alla parola greca “paidion” del v. 2, intendendo che i “piccoli” sono un gruppo di discepoli deboli e facilmente influenzabili).
La parabola è introdotta da una domanda retorica: “ti umìn dokèi”, “a voi cosa sembra, “che ne pensate”?, a cui segue un brevissimo racconto tratto dalla vita dei campi, e, in particolare, quella della pastorizia. Nella parabola campeggia il verbo “planào”, che significa, in genere, perdersi, essere ingannato, essere sviato, allontanarsi dalla verità. Nella versione matteana la parabola in sé non è una storia narrata, bensì una costruzione argomentativa formata da due proposizioni condizionali introdotte dalla congiunzione “eàn” (se). Nella prima proposizione, introdotta da una domanda retorica, si richiede una implicita risposta data dall’uditorio/lettore, mentre nella seconda proposizione è presente una tesi presentata nella forma solenne di un logion aperto dalla parola “amen”. La parabola sembra essere uno espediente che pone in dialogo Gesù con l’uditorio, da cui si aspetta l’approvazione dell’operato del pastore.
Chi sono i “piccoli”? Certamente non sono i “fanciulli” del v. 2 ossia coloro che devono assumere un atteggiamento simile al bambino, che è fragile, indifeso, bisognoso di protezione, fiducioso, dipendente, ma un gruppo sociale all’interno della comunità appartenente alla fascia sociale bassa, povera, a cui il Signore pone particolare attenzione (il riferimento agli angeli, che, secondo la tradizione antico-testamentaria, è inviato da Dio per una stabile protezione). La “pecora sviata” è uno che fa parte di questo gruppo, disprezzato, vilipeso,ma anche facilmente influenzabile con dottrine eterodosse, che rischia di venire meno alla sua fede cristiana, verso cui è puntato lo sguardo amorevole del pastore.
Questi “piccoli” sono scandalizzati dal disprezzo e dall’indifferenza da parte di una buona parte della comunità. Tutta la comunità è messa sullo stesso piano da parte del pastore. Tuttavia, è doveroso prendersi particolare cura di chi rischia di perdersi, il cui ritrovamento è reintegro, tutt’altro che sicuro, è motivo di gioia. L’applicazione trasforma la parabola in una direttiva alla comunità (non solo ai conduttori!), la cui responsabilità è la preoccupazione e la ricerca di quanti si sono smarriti (si ipotizza che la chiesa per cui Matteo ha redatto l’Evangelo, ha registrato casi di tiepidezza e di defezione).
In Matteo manca la scena plastica e tenera della versione di Luca (15:5-6), nella quale il pastore si mette la pecora sulle spalle e fa festa con gli amici. Anche la versione matteana della parabola pone in risalto la gioia del pastore, che è dovuta all’azione del recupero e del reintegro nella comunità, mentre nella versione lucana la gioia è causata dall’avere ritrovato l’uomo perduto. Tale gioia scaturisce dal fatto che chi si smarrisce rischia di distruggersi ed è volontà del Padre che nessuna dei “piccoli” debba perire.
La parabola della pecora smarrita secondo la versione matteana si staglia agli occhi del lettore/uditore come una azione indefessa del pastore/conduttore della comunità tesa a ristabilire gli equilibri etico-spirituali in una comunità che rischia il collasso spirituale: è una comunità in pericolo e tutta la comunità è chiamata a incarnare la cura pastorale di Gesù, attuata con un impegno instancabile fino all’estremo. In ultima analisi, la parabola della pecora smarrita è anche un monito rivolto non solo a uno specifico gruppo, che rischia di deviare e perdersi, ma che questo pericolo è insito in ogni membro, perché nessuno è sicuro di non smarrirsi mai.
Paolo Brancè | Notiziecristiane.com
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