“A Christmas Carol” meglio conosciuto in italiano come “Cantico di Natale” è una commovente, popolare favola sul Natale, redatta dal grande scrittore ottocentesco inglese Charles Dickens (1812-1870).
Racconta la conversione di Ebenezer Scrooge, un finanziere avido di denaro e taccagno, privo di nobili sentimenti, uomo senza scrupoli e insensibile alla misera condizione dei poveri, sfruttando fino all’osso il suo povero impiegato, Bob Cratchit, a cui dà uno stipendio da fame e costringendolo a lavorare persino alla vigilia di Natale. Ma qualcosa accade proprio quella sera della vigilia di Natale: rincasando nel picchiotto del suo portone scorge la sagome di Jacob Marlowe, il suo socio defunto. Turbato, corre freneticamente, rinchiudendosi nella sua stanza. Ciò non impedisce allo spirito di Marlowe di entrare. Trascinando dietro di sé una lunga catena, condannato a vagare per il mondo per avere pensato solo a sé e ad accumulare denaro e per avere estromesso dalla sua vita le persone che lo amavano. L’amara consolazione per lui è ammonire Scrooge affinché non percorra la stessa strada dell’egoismo e della vessazione dei più diseredati. Marlowe avverte Scrooge della visita di tre spiriti, rispettivamente del Natale passato, del Natale presente e del Natale futuro. Dopo avere visitato il suo passato, i cui eventi sono contrassegnati dalla sua indole di uomo schivo, burbero e freddo, Scrooge vede il suo presente, incontra personaggi che ha sempre trattato con disprezzo e dileggio come il nipote Fred, che nonostante tutto ha parole affettuose per suo zio, o come i disprezzati di Londra dalla classe sociale della quale Scrooge fa parte. Sebbene questo ritorno al passato e il prendere coscienza del suo presente fossero motivo di forte turbamento spirituale, Scrooge è fortemente atterrito dalle scene agghiaccianti che il Fantasma del Natale futuro gi prospetta: vi è una tomba aperta dentro la quale sarà calata una bara e tumulata. E’ un funerale squallido, il defunto non viene pianto da nessuno, e nessuno si ricorderà di lui. Scrooge è sconvolto, comprende che quella fossa aspetta la sua salma: odiato e disprezzato da tutti, la sua tomba sarà priva di lacrime di pietà. E’ l’ora del cambiamento. Si sveglia al suono festoso delle campane. E’ il giorno di Natale. Scrooge si veste di una nuova umanità. Compra il più grosso tacchino in vendita, commissionandolo per il suo bistrattato impiegato, Bob Cratchit. Esce di casa con il sorriso in bocca, salutando giovialmente le persone che incontra. Dona generosamente una grossa quantità di denaro a un uomo che gli aveva chiesto in passato un contributo per i poveri, visita il nipote, passando il più bel natale della sua vita. Il mattino seguente accoglie affettuosamente Bob Cratchit, fortemente spaventato, perché era arrivato con una manciata di minuti in ritardo e temendo i rimbrotti violenti del padrone. Ma stranamente è accolto da Scrooge con un largo sorriso e la promessa di un lauto aumento di stipendio, prendendosi anche cura del figlio Tim, bisognoso di dispendiose cure mediche. Con la sua conversione Scrooge acquista una nuova umanità.
La favola di Natale di Dickens non è molto dissimile dalla parabola lucana del Ricco e del mendicante Lazzaro. Essa è la parabola finale del cap. 16, che insieme alla parabola dell’amministratore infedele, posta all’inizio dello stesso capitolo, incorniciano una serie di detti apparentemente priva di una connessione logica e anche, per versi, tematica (cfr.Lc 16:9-18).La parabola sembra essere una rielaborazione di una favola egiziana, avente per soggetto il ribaltamento delle sorti nell’aldilà. E’ il mito egiziano del viaggio di Si-Osiris e di suo padre Sean-Haemwese nel regno dei morti, le cui parole finali sono le seguenti: ….” Chi sulla terra è buono, trova bontà anche nel regno dei morti, ma chi sulle terra è malvagi, quegli anche là riceverà cattiveria” Tale racconto probabilmente è stato importato da giudei Alessandrini in Palestina e rielaborato: Esso è diventato la storia di un povero Scriba e del ricco pubblicano Bar Ma’jan (1)
Credo che sia ragionevole pensare che Gesù conoscesse questo racconto mitico e favolistico e lo ritoccasse secondo la sua sensibilità narrativa e la sua finalità parenetica. La parabola del ricco e di Lazzaro può essere anche definita un racconto esemplare, cioè da non imitare, almeno nella sua prima parte. Essa si presenta come un dramma teatrale in un unico atto con tre scene. La prima scena racconta della condizione terrena dei due protagonisti (16:19-21). La seconda scena mette in risalto una condizione capovolta dei due protagonisti nell’aldilà(22-26)L’ultima scena, invece, descrive il dramma della sofferenza irreversibile del Ricco senza che essa possa essere alleviata o modificata né può esserci una comunicazione miracolosa che permette di modificare la sorte dei suoi familiari. (27-31)
Esaminando in dettaglio la prima scena (19-21), notiamo due figure tragiche in antitesi tra di loro:Gesù parla di un uomo che vive nella ricchezza e nel lusso e, probabilmente, nella lussuria. E’ un incallito crapulone senza Dio, uomo straricco, che si veste di porpora e bisso: il verbo greco è “endidysko”, un verbo raramente usato nel NT e nel greco della Bibbia dei Settanta per descrivere una condizione regale e di grande lusso. Tale verbo è usato nella parabola all’imperfetto, indicando uno stile di vita abituale del vestire sontuoso (i tessuti di porpora e bisso sono indumenti indossati dalla classe sociale aristocratica, oggi diremo dell’alta borghesia. E’ un uomo dedito quotidianamente ai banchetti e ai bagordi, ostentando la spensieratezza della sua esistenza.
Di contro, Gesù introduce il secondo protagonista della parabola: è un mendicante, paralitico, gettato davanti alla porta del sontuoso palazzo del ricco (il verbo greco è “ebebleto”, al passivo, e significa che era stato gettato presso). La condizione del mendicante è terribilmente miserevole: al posto della porpora, egli è coperto di ulceri, incapace di allontanare i cani randagi che gli stanno attorno per leccargli le ulceri. Egli desiderava saziarsi dei pezzi di focacce che venivano buttati sotto la tavola dopo essere stati usati per intingere nelle ciotole e per detergere le mani (2) Gesù lo presenta al pubblico con il nome di Lazzaro (e’ l’unica figura di parabola, a cui Gesù da un nome). E’ un nome ebraico, “El’azar”, che significa” Dio ha soccorso”. Infatti, Lazzaro è il rappresentante di quel gruppo sociale di diseredati, che è timorato di Dio: essendo emarginato e oppresso dai potenti, esso riponeva in Dio la sua fiducia. La condizione tragica di Lazzaro è descritta vivacemente da Gesù:disumanizzato, egli è al di là di una esistenza umana vissuta dignitosamente: privo di risorse economiche, affamato, fisicamente disabilitato, attaccato dai cani randagi, ignorato dal ricco. (la classe sociale che potrebbe fare qualcosa a favore degli ultimi).
Il dramma parabolico continua avendo un altro scenario: l’ambiente non è quello terreno, il palazzo del ricco alla cui porta giace un uomo disumanizzato dalla malattia, dalla povertà e dal cinismo umano, ma è quello ultramondano: sia Lazzaro che il ricco muoiono. L’Ades, come luogo di tormenti, accoglie il ricco (esso è abitato dai senzadio continuamente tormentati) e il mondo paradisiaco, rappresentato da Abraamo, il primo dei Patriarchi, a cui è stata data la promessa di una grande discendenza (Gen.13:16), presso il quale viene condotto dagli angeli dopo la morte Lazzaro (l’espressione “nel seno di Abraamo” vuole significare l’intima comunione con Abraamo). Egli è adesso uno che occupa il posto d’onore nel banchetto celestiale. Vi è un rovesciamento delle situazioni: sia il ricco che Lazzaro non entrano neppure qui in contatto.
Mentre nella prima scena, quella terrena viene descritta la situazione vantaggiosa del ricco e quella squallida e miserevole di Lazzaro, nella seconda la situazione è invertita: il mendicante che era stato umiliato, adesso gode del massimo onore: “L’espressione” nel seno di Abraamo” è la designazione del posto d’onore nel banchetto celeste alla destra del Capofamiglia Abraamo; questo posto d’onore, supremo fine della speranza, significa che Lazzaro sta al vertice di tutti i giusti”. (3)
Il ricco adesso è umiliato. Si può dire che Lazzaro è uno degli invitati al banchetto celeste, quel banchetto che è stato negato in vita dal ricco, il quale a sua volta è escluso dal banchetto escatologico. Inoltre, egli, vedendo Lazzaro banchettare, egli scorge colui che prima non aveva visto. Continuando con il rovesciamento delle situazioni, il ricco chiede come un mendicante ad Abraamo di inviare Lazzaro ad alleviare il tormento della sete, intingendo le sue labbra con un po’ d’acqua (Lazzaro stava al portone ad aspettare che dei pezzi di focaccia cadessero dalla tavola per poter alleviare i morsi della fame).
E’ interessante notare che nel dialogo tra Abraamo e il ricco non vi sono toni di riprovazione: il ricco chiama rispettosamente Abraamo con l’appellativo di “Padre”. A sua volta, Abraamo affettuosamente si rivolge al ricco con toni paterni, chiamandolo “figlio”: sembra da ciò che l’Ades, pur essendo un luogo di sofferenza e di tormento non è visto come il risultato della vendetta di Dio, ma come la conseguenza tragica e inevitabile delle scelte fatte dal Ricco in vita: avere escluso Dio dalla sua vita, determina l’autoesclusione dal banchetto celeste. In aggiunta, è doveroso dire che Lazzaro vive l’intimità con Dio non come risultato della sua condizione di povero o perché abbia avuto una condotta esemplare. Questi possibili riferimenti ad atti meritori sono assenti nel nostro testo. E’ la parte finale della parabola che può indicarci la chiave di comprensione del rovesciamento delle situazioni. Se le prime due scene fanno risaltare l’agire di Dio,l’ultima scena scena (27-31) evidenzia l’azione umana nella citazione della situazione dei fratelli del ricco.
La terza scena si apre con la manifestazione dell’apprensione del ricco per la sorte futura dei suoi fratelli. Impotente di poter cambiare il suo tragico stato attuale, egli desidera ardentemente che cmabi la condizione dei suoi fratelli che sono in vita. Ci troviamo davanti a quell’agire umano che segna irreversibilmente la propria condanna: i fratelli del ricco vivono la stessa condotta di vita che caratterizzava la sua vita terrena, ossia una vita laica, totalmente terrena e sganciata dall’evangelo. Osservando bene il dialogo tra il ricco e Abraamo, ci accorgiamo che la Scrittura (Mosè e i Profeti) diventa l’ancora di salvataggio per chi è lontano da Dio. Gli eventi sovrannaturali (nella fattispecie la stessa Risurrezione) sarebbero ininfluenti nel veicolare un messaggio di salvezza. L’evitare l’Ades, il luogo della privazione della luce di Dio, che determina il tormento del desiderio di essa (la sete!), può avvenire solo e soltanto con la lettura della Scrittura e l’accettazione del suo messaggio salvifico.
Ci troviamo nel cuore del messaggio della parabola: prendere seriamente le Scritture determina la conversione, la quale produce azioni di vero ravvedimento: per il ricco la conversione avrebbe comportato l’abbandono del suo egoismo e il rivestimento di una nuova natura, che produce una animo generoso, pronto alla condivisione. In una società fortemente secolarizza e scristianizzata, la predicazione evangelica è l’evento determinante per invitare i nostri compagni di umanità alla conversione e alla sequela di Cristo. Il miracolo della conversione è l’evento che il signore vuole che l’uomo senza Dio viva. Lazzaro viene portato dagli angeli nel seno di Abraamo non perché era povero, ma perché aveva creduto nelle Scritture. La colpa del ricco sta nel fatto che, ignorando le Scritture, ha ignorato anche chi aveva urgente bisogno di lui. La rivelazione della Parola di Dio va predicata, ascoltata e accettata.
“Per questa ragione anche noi ringraziamo sempre Dio: perché quando riceveste da noi la parola della predicazione di Dio, voi l’accettaste non come parola di uomini, ma quale essa è veramente, come la Parola di Dio, la quale opera efficacemente in voi che credete”(1^Tess.2:13)
(1)Joakim Jeremias-Le Parabole di Gesù- Paideia ed, Bs, 1973, pagg.224-225
(2) J.Jeremias- Op.cit.-pag. 225
(3) J.Jeremias-Op.cit.-pag.226
Paolo Brancè | Notiziecristiane.com
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