La parabola dei talenti, ovvero Dio ama chi ama il rischio. (leggi Matteo 25,14–30)
Siamo sulla strada verso Gerusalemme città nella quale Gesù sarà catturato e condannato a morte. Gesù sta dando ai discepoli le “istruzioni” per il tempo che verrà dopo la sua salita al cielo e prima del suo ritorno. All’inizio della parabola usa infatti la congiunzione “poiché” che la collega all’esortazione del versetto 13 dello stesso capitolo (“Vegliate perché non sapete né il giorno né l’ora”) inserita all’interno di quella sulle Dieci vergini.
I protagonisti della storia. C’è un Signore, che è chiaramente Gesù, che sta partendo per un lungo viaggio dal quale però tornerà. Anche se nessuno sa quando. E ci sono tre servi ai quali affida un consistente deposito. A ciascuno secondo le proprie capacità perché il padrone conosce bene i suoi servi. Insieme al deposito, affida ai servi anche la sua fiducia. Perché i servi avrebbero potuto anche scappare con la cassa! Del resto la somma era notevole. Pensate che un “talento” non era una moneta ma un valore che poteva essere quantificato sia in monete d’argento o d’oro e che equivaleva a circa 6mila denari e sappiamo (Mt. 20,2) che un denaro era una giornata di lavoro agricolo. Quindi un solo talento equivaleva a circa 16 anni di lavoro.
Dicevo che il Signore conosceva bene i suoi servi e, infatti, al suo ritorno i primi due gli restituiscono il capitale addirittura raddoppiato. E ricevono per questo una duplice ricompensa: la possibilità di dominare su un patrimonio sproporzionato rispetto a quello, al poco, che avevano ricevuto in amministrazione e soprattutto la “gioia” che è quella che il Signore concede a coloro che ama.
E veniamo all’altro personaggio della storia: il terzo servo il quale gli restituisce il talento ricevuto accompagnando il gesto con parole assai poco rispettose (“Tu sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”). Gli dice, insomma, che si arricchisce sul lavoro degli altri perché è vero che il capitale è il suo ma non la fatica per farlo fruttare. “Ho avuto paura” gli dice. Magari di perdere il talento e di doverlo rifondere di tasca sua! Certo, potrebbe essere anche una scusa per giustificare la sua svogliatezza e anche il suo risentimento – in fondo lui ha ricevuto meno degli altri – perché il padrone pretende di “mietere” il frutto del suo lavoro. Insomma, un opportunista spietato che campa sul lavoro altrui!
In punta di diritto alachico, come sostiene uno studioso, il terzo servitore ha osservato una norma rabbinica secondo la quale seppellendo il denaro e poi restituendolo lui con la legge era a posto, come si suol dire. ! “Questo è il tuo talento, amici come prima!”.
Ma dal punto di vista morale, le cose stanno ben diversamente. Il padrone gli ha affidato non solo il denaro ma anche la sua fiducia, dicevamo. Se avesse voluto seppellirlo, lo avrebbe potuto fare lui stesso. E così il Signore gli rigetta in faccia le sue stesse parole e l’immagine che gli ha dato di lui, come in uno specchio. Forse il servo è davvero prigioniero di questa terribile immagine del suo Signore. È un prigioniero, un cattivo da captivus diaboli, prigioniero del diavolo. Forse lo siamo anche noi. Che immagine abbiamo di Dio in noi? Non è forse questa immagine distorta che ci blocca e che ci dà in fondo anche un alibi?
Tutto chiaro? Cominciamo dal significato che tutti noi diamo alla parola talento. Lei ha talento per la musica, lui per la cucina…Talento è ormai per noi una dote naturale che il brano ci invita a mettere a frutto per il bene di tutti. Per alcuni esegeti non è solo questo. Secondo loro la colpa sarebbe di Giovanni Calvino, povero Calvino!
Per alcuni, infatti, la parabola è in verità un invito alla conversione rivolto a quel cristiano che sovente è ben contento del suo rassicurante “minimo”, della sua confortevole tiepidezza, che fa le cose come si sono sempre fatte perché non ha alcuna vera passione per il Regno e che anzi si affaccia alle nuove sfide e ai nuovi impegni che l’annuncio pone con “paura”. Un cristiano che non guarda con audacia, creatività e generosità a compiti che il Signore continuamente pone in un mondo in veloce e perenne mutazione. Un mondo in cui la messe sterminata di coloro che “vogliono vedere Gesù” (Gv 12,21) leva al cielo la sua voce. Perché l’attesa del Signore deve essere vigilante, operosa, creativa. Non pigra.
Lui non è più con noi, è partito per un lungo viaggio e non sappiamo quando tornerà. Ma sappiamo che ha affidato a ognuno di noi un compito: moltiplicare i doni che ciascuno ha ricevuto. Perché, come abbiamo visto, il dono è anche un compito: custodire e far fruttificare. Ma allora che cosa è questo dono?
Secondo Ireneo di Lione è la vita che Dio ha donato a ciascuno di noi. La vita è un dono che non va sprecato in inutili passatempi, occupazioni, in strade che non arrivano da nessuna parte. Secondo altri, invece, i talenti sono le Parole che il Signore ha affidato ai suoi discepoli per custodirle e farle fruttare nel mondo. E, in questo compito, c’è anche una componente di rischio… ma il Signore ama chi rischia per lui. Ed è infatti proprio il rischio che il terzo servo non ha voluto accettare. Più che il male, ha fatto di peggio: non ha fatto nulla!
E noi? Come stiamo mettendo a frutto il dono che il Signore ci ha affidato? Come lo stanno mettendo a frutto le nostre chiese spesso contente del loro “poco”, anche dei loro pochi fedeli, che non vogliono accettare il rischio, che magari hanno seppellito il talento sotto coltri di rituali sempre più vuoti e burocratiche discipline, e che non hanno il coraggio di obbedire fino in fondo il Signore che ci ha comandato di annunciare il Vangelo fino ai confini del mondo? A ogni costo e correndo ogni rischio?
Davide Romano
Sostieni la redazione di Notizie Cristiane con una donazione, clicca qui