Dopo mesi di trattative, numerosi fallimenti e rinvii, ieri i governi rivali della Libia hanno firmato l’accordo per un esecutivo di unità nazionale, nel quinto anniversario delle Primavere arabe
Cinque anni fa, tra il 17 e il 18 dicembre del 2010, le rivoluzioni nel mondo arabo aprivano, a partire dalla Tunisia, una nuova epoca in tutto il bacino del Mediterraneo, tanto a sud, con gli effetti diretti dei cambi di regime, quanto a nord, dove cominciarono ad arrivare sempre più persone in fuga dall’instabilità politica che alcune di quelle rivoluzioni avevano portato con sé. Se da un lato la Tunisia rappresenta una storia di successo, pur con tutti i problemi di una transizione democratica complessa, sono molti i fallimenti. È inevitabile pensare alla Siria, che ha pagato più di ogni altro il prezzo della reazione governativa alle proteste, ma insieme al paese mediorientale è probabilmente la Libia lo scenario sul quale gli errori nella gestione del cambio di regime hanno causato i danni maggiori.
Nel paese che per 42 anni fu guidato dal dittatore Mu’ammar Gheddafi, gli ultimi 18 mesi hanno visto convivere due governi in conflitto tra loro, uno a Tripoli e legato a movimenti di ispirazione islamista, e un altro a Tobruk, riconosciuto a livello internazionale e politicamente collocato nella sfera di influenza egiziana. Dopo numerosi rinvii, fallimenti e occasioni mancate, ieri per la Libia potrebbe essere arrivato il momento di una svolta: a Skhirat, in Marocco, infatti, è stata firmata l’intesa per il governo di unità nazionale. Per l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Kobler, che esattamente un mese fa aveva sostituito il diplomatico spagnolo Bernardino Léon, «è una giornata storica».
L’accordo
L’intesa sottoscritta da oltre 100 esponenti politici libici di tutti gli schieramenti, escluso naturalmente il gruppo Stato islamico, prevede ora quaranta giorni di tempo per formare un nuovo governo che si insedierà a Tripoli e che sarà guidato da un Consiglio presidenziale composto da nove membri scelti per rappresentare, nei limiti del possibile, le varie anime politiche e le comunità del paese. Oltre al presidente, ci saranno due vicepresidenti e sei ministri che, una volta operativi, dovranno anche collaborare con la comunità internazionale per nominare i nuovi vertici della banca centrale e dell’ente petrolifero nazionale, scelte decisive per riportare il paese dentro al sistema economico mondiale, dal quale gli eventi degli ultimi quattro anni l’hanno escluso, trasformando la Libia in quello che gli analisti definiscono uno “Stato fallito”.
L’accordo prevede anche un cessate il fuoco immediato e totale in tutta la Libia, sottoscritto questa volta da tutte le parti, anche se rimane in sospeso la situazione del capo delle forze armate di Tobruk, il generale Khalifa Haftar, contrario a ogni forma di accordo.
Divisioni e suddivisioni
In un paese che per oltre 40 anni è stato unito a forza da un regime autoritario, era inevitabile pensare che, una volta abbattuta la dittatura, si andasse verso una polverizzazione. I due governi che hanno sottoscritto ieri l’accordo sono soltanto una parte delle numerose forze che si sono spartite il paese dal 2011 a oggi, ma sono certamente le più significative. Tuttavia, la decisione delle Nazioni Unite di suddividere ancora una volta il potere legislativo tra Tobruk e Tripoli è rischiosa: la Camera dei rappresentanti, che si stabilirà nella prima città, dovrebbe durare un anno, mentre nella capitale ci sarà un Consiglio di Stato che avrà funzione di seconda camera consultiva. Il timore che possa ripetersi quanto accaduto nel luglio del 2014, quando una parte annullò unilateralmente la decadenza del proprio organo di riferimento, sembra fondato.
Contro il terrorismo
Nonostante i suoi potenziali difetti, l’accordo non era più rinviabile. Le trattative, che hanno vissuto di alti e bassi per oltre un anno, hanno subìto un’accelerazione importante nelle ultime settimane, quando la presenza di gruppi terroristici nel Paese è tornata a farsi più evidente e ingombrante. Secondo Giuliano Luongo, direttore del programma Africa dell’Isag, l’Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie, «la protratta mancanza di istituzioni centrali ha fatto sì che nel paese si sviluppassero e radicassero sempre più i movimenti legati al terrorismo internazionale. La presenza delle organizzazioni terroristiche è cresciuta alzando l’asticella della violenza e forzando le altre parti in causa a usare soltanto soluzioni belliche, che hanno finito per aprire solchi ancora più grandi tra le differenti parti coinvolte nel conflitto e nei conflitti». Sui mezzi di informazione italiani, in particolare, è la presenza di milizie legate al gruppo Stato islamico a destare maggiori preoccupazioni, anche se sono decine i movimenti di ispirazione jihadista che hanno approfittato dell’instabilità del Paese.
Il Daesh in Libia
A proposito di Stato islamico, è importante comprendere un elemento della natura di questo gruppo, perché spesso si è sentito dire che “l’Isis si espande in Libia”, anche se questa affermazione non è del tutto corretta. «Lo Stato Islamico o Daesh – spiega Luongo – è un’organizzazione più eterogenea di quanto non si possa pensare. Bisogna immaginare che sia una sorta di antenna attorno alla quale si radunano diversi gruppi estremistici che, in maniera più o meno utilitaristica, si allineano agli ideali dello Stato islamico. Rispetto al nucleo iniziale di questa organizzazione, che ne segue rigidamente i dettami, si distinguono questi gruppi che escono dalle galassie di altre organizzazioni terroristiche. Bisogna tenere presente che il potenziamento dello Stato islamico ha visto una proporzionale decrescita di importanza dell’originale Al-Qaeda. Lo Stato islamico, quindi, fa da nucleo che attrae varie fazioni estremistiche che cercano di imporre la loro legge affiliandosi a un gruppo più forte che può fornire loro supporto di vario tipo, dalla semplice logistica alla copertura mediatica, elemento fondamentale per la propaganda di questa tipologia di movimenti».
“Isis in libia”, insomma, significa che ci sono nuove affiliazioni, ma non necessariamente che ci sia un’espansione in termini militari e territoriali. C’è molta differenza, e ci riporta a una situazione che non va sottovalutata o derubricata a un problema minore, ma che può ancora essere contenuta.
Il futuro
La firma sull’accordo è fortemente simbolica, ma ha il rischio che rimanga soltanto quello, un segno sulla carta e poco più. Il nuovo esecutivo, insieme alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale, che questa volta vede l’Italia in prima fila, dovrà fare in modo che questa intesa sia un punto di partenza per un processo non più rinviabile.
Le sfide, da quelle umanitarie a quelle economiche, sono molte e di grande portata, ed è compito di tutti fare in modo che questa volta vengano affrontate davvero.
Marco Magnano | notiziecristiane.com
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