Come affrontare la vita quando la malattia colpisce tua figlia? L’autrice ci racconta come è possibile elaborare il dolore proprio grazie ai bambini.
Ho come la sensazione che, attorno a noi, ci sia un’evoluzione. Mi sembra che siamo passati da un periodo in cui si pensava a inseguire il benessere personale, economico, sociale a uno diametralmente opposto in cui protagonista è la malattia, il fantasma che risiede molto vicino alla nostra porta di casa. Dichiarazioni che sentivo in passato come «Quello sì che è fortunato: ha tutto, compresa la salute», oppure «Si sa che la sfortuna colpisce sempre le solite persone», hanno oggi lasciato il posto a frasi come «Ognuno ha le sue», «Non c’è famiglia che non debba fare i conti con il cancro».
Mi chiedo che cosa sia cambiato. Forse nella crisi che il nostro paese sta vivendo c’è un risvolto positivo: ognuno è costretto a guardarsi un po’ più attorno, a scoprire che in tanti si fa fatica, che «ce n’è per tutti».
Allora mi domando: non è sempre stato così? Bisogna aspettare di trovarsi in «braghe di tela» per potersi accorgere di come stanno gli altri?
Essere a contatto con la vita degli altri non vuol dire pensare che le malattie, la morte sono cose che accadranno anche a noi: vuol semplicemente dire che siamo uguali a tutti gli altri, siamo esseri umani e in quanto tali «finiti».
Oggi mi sembra di aver più chiaro che cosa è importante e che cosa non lo è.
Per un genitore è «normale» pensare che il proprio figlio diventerà un giorno un uomo o una donna, padrone della sua esistenza. È «ovvio» collegare l’idea di malattia alla vecchiaia. La vita, di solito, funziona così. Ma se ti trovi in quella percentuale di genitori che hanno un figlio malato sai quant’è difficile fare i conti con l’idea di futuro.
La mia storia inizia così: per mia figlia mai un sintomo; poi un elettroencefalogramma e una risonanza magnetica perché durante l’estate, per due volte, «due misere volte», mia figlia si era incantata, ma in modo strano. Per non più di cinque secondi tremava, storceva gli occhi e poi tutto passava.
Così la diagnosi sconvolge la vita di una famiglia e di una bambina. Quando apprendi la notizia, resti sconcertato: quello iniziale è un momento drammatico, ti senti solo di fronte a malattie dalle sigle sconosciute, non sai minimamente di che cosa sta parlando il medico.
La malattia, che anni fa i medici del Regina Margherita di Torino diagnosticarono a mia figlia all’età di sette anni risulta difficile da pronunciare: cancro al cervello. Ci siamo sentiti «schiantati», devastati dalla diagnosi. Come spesso accade nei casi di tumore cerebrale, noi genitori non avevamo avuto il tempo di vedere i sintomi.
Non rimanere soli nel dolore, dare qualità ai pochi momenti in cui si sta insieme, imparare ad ascoltare se stessi e i propri bambini. I forti legami creati da subito dentro e fuori la struttura ospedaliera hanno aiutato me e mio marito a non precipitare nell’abisso della disperazione. Dagli operatori sanitari al neurochirurgo, dalla maestra dell’ospedale alla neuropsichiatra, alla fisioterapista della Asl, un «esercito» di persone ha vissuto l’avventura della malattia. Conoscendomi come attrice e pedagogista teatrale, impegnata nella formazione di operatori ed educatori, «alla fine» mi hanno chiesto di scrivere quella storia che non avrei mai voluto raccontare.
Così ho scritto il libro Aiutami a non avere paura (ed. Claudiana, Torino 2009): è una storia tra tante. Una storia vera come ce ne sono altre. Io questa storia non avrei mai voluto scriverla, ma le parole hanno preso vita da sole, nel dialogo con altri genitori, nell’umanità degli incontri con infermieri, medici, chirurghi, maestre ospedaliere, psicologi, neuropsichiatri, terapisti della riabilitazione.
Ho scritto per non dimenticare, per dare un senso a ciò che un senso non ha. Perché la malattia di un bambino non ha senso.
Il titolo Aiutami a non avere paura nasce dal grido di aiuto lanciato da un bambino affetto da una gravissima malattia. Questa frase, nel racconto, assume un valore trasversale: vale per il bambino, per il genitore, ma anche per il medico.
«Credo non sia giusto negare la paura. Fortunatamente con il passare degli anni si impara a mettere in atto una serie di strategie per controllarla e talvolta aiuta a migliorare se stessi», afferma la neurochirurga che ha operato mia figlia (che oggi ha sedici anni, ha subito in vari interventi l’asportazione del tumore, rivelatosi benigno, e convive con i postumi della sua malattia e con il lutto del padre, morto di cancro dopo sei anni «da quel giorno»).
Dicono che le pagine del libro sono pagine che vanno lette con molta forza e molto coraggio, ma anche che la leggerezza con cui ho raccontato tutto è la leggerezza del modo di vivere dei bambini.
Ogni pagina scritta vorrei che insegnasse a guardare alla «flebo mezza piena». Sì, quello che la gente comune chiama il bicchiere mezzo pieno, io lo chiamo così. La flebo mezza piena è un nuovo modo di guardare al dolore. Perché questo fanno i bambini: ti insegnano a rielaborarlo perché ti insegnano (o «re-insegnano») a chiamare le cose con il loro nome, non negano la malattia e nemmeno la morte.
Intorno al libro sono nate varie iniziative (www.aiutamianonaverepaura.it): tra queste l’associazione culturale Antescena che, tra le varie attività, ha sostenuto l’omonimo spettacolo teatrale, dedicato ai bambini malati di cancro e a tutti gli adulti che si prendono cura di loro.
Il teatro permette di giungere subito al messaggio. Poniamo l’accento sulla pedagogia del coraggio e sul concetto di resilienza: sono le prime cose che si colgono in scena. La parola «resilienza» deriva dalla fisica e dimostra come tutti i materiali hanno la capacità di sopportare una forza d’urto; riportando il concetto in psicologia, rispetto alla malattia e alla morte, l’importante è far capire che ognuno ha in sé le risorse per sostenere l’impatto: è una caratteristica antropologica di cui siamo tutti dotati.
Perché ci s’imbarca in un’avventura così? Quando vivi un’esperienza hai bisogno di parlarne: è servito a me e desidero tanto che alla gente arrivi la mia urgenza di comunicare qualcosa che mi ha cambiata e fatta crescere.
Fonte: http://www.riforma.it/
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