Una delle questioni che si presenta sempre più frequentemente alla psicologia della religione è il tema delle basi biologiche ed evolutive della fede, dati i contributi provenienti dalle neuroscienze e, altresì, dalle scienze cognitive, che stanno fornendo nuove informazioni sul funzionamento del cervello e della mente. Oggi, in particolare, prendo spunto dall’articolo di Vallortigara e Girotto (la Repubblica 26-06-2013), che anticipa un loro saggio, contenuto nell’ultimo numero della rivista “Micromega” dedicato al tema dell’ateismo.
Gli autori mettono insieme, per dar forma a un ragionamento sull’origine naturale della fede, i risultati di una serie di ricerche svolte nell’ultimo decennio sulle modalità attributive della mente infantile e adulta. Come siamo ormai abituati a leggere, il punto di partenza di molte interpretazioni (a mio avviso errate) di tali ricerche è l’idea che la fede scaturisca dalla naturale tendenza del bambino ad attribuire impropriamente relazioni causali tra i fenomeni. Anche senza il contributo dell’educazione religiosa, poiché l’attribuzione causale impropria è una delle basi naturali del ragionare infantile, la fede tenderebbe a manifestarsi, anzitutto, come risposta a domande sui fenomeni del mondo naturale che non si spiegano in altro modo (“Perché c’è il mondo? Perché sono nato? Cosa c’era all’inizio del tempo?”).
Una simile interpretazione dell’origine naturale del credere in Dio non basta, tuttavia, spiegano gli autori, a dare conto della fede come percezione di un qualche significato e finalità dell’esistere. Gli autori aggiungono, allora, un secondo elemento: i bambini sono particolarmente orientati a distinguere le attività proprie di un oggetto inerte da quelle di un agente soggettivo e sono molto orientati alla ricerca di agenti soggettivi. Gli oggetti inerti mostrano delle caratteristiche spazio temporali precise e si comportano in base a delle regole che i bambini intuiscono e sulla cui base formano le loro aspettative a proposito degli oggetti stessi. I bambini sanno che se si spinge un oggetto, ad esempio un pallone da calcio, questo si muove, così come imparano presto che la sua massa non può passare attraverso altri oggetti, e che il pallone da calcio cade verso il basso se lo si lascia andare. Il pallone, dunque, non si muove da solo, non va da qualche parte “perché lo vuole”, non essendo dotato di intenzionalità e capacità di agire, ma va dove viene spedito. I soggetti animati, invece, non si limitano a reagire, ma agiscono intenzionalmente e hanno degli scopi: fanno cose che hanno un senso per loro, finalizzano le loro azioni per realizzare progetti significativi. Allora, se qualcuno ha creato il mondo, poiché questo qualcuno viene pensato come un soggetto agente, lo ha fatto per uno scopo. E, ora, si aggiunga un terzo elemento: la tendenza umana a vedere nelle cose l’intenzionalità di un artefice, connaturata tanto alla mente infantile che a quella adulta, che porta l’uomo a vedere in troppe cose uno scopo.
Il cocktail ateistico, a questo punto, è pronto. Mescolando i tre elementi si otterrebbe la base naturale della fede in Dio: che ha creato il mondo, lo ha creato con una finalità, e con l’intenzionalità propria di un artefice. Suppongo, basandomi su vari scritti in merito, che il ragionamento potrebbe proseguire così: “le persone razionali, giunte alla maturità, si volgeranno finalmente al pensiero scientifico e si ergeranno contro tali aporie della mente. Qualcuno continuerà a definirsi credente: non ci si può fare nulla, ma, in compenso sono stati scovati i presupposti cognitivi della credulità umana”. Ma è davvero così?
Se il cocktail fosse davvero questo, dovremmo aspettarci che i credenti basino la loro fede e l’esperienza spirituale sui presupposti di questi tre ingredienti, magari estendendo le zone erronee dell’infanzia anche nell’età adulta. Se, invece, i credenti utilizzassero (come utilizzano), altri ragionamenti, o si basassero su altre percezioni, esperienze, sentimenti, il discorso, logicamente, non si applicherebbe. Come si sono abbandonate tante altre modalità infantili (come credere che se un liquido è versato in un bicchiere più stretto esso sia di più della stessa quantità versata in un bicchiere più largo…), si abbandonerebbero anche queste e ci sarebbero altri processi alla base della fede, certamente meno banali. Tali processi esistono e appartengono, a mio avviso, a una sfera peculiare della vita umana, che ricorda ciò che Kant chiamò “ragion pratica”, attribuendole non meno rilevanza che alla “ragion pura”. Non è, infatti, difficile scoprire che i credenti non si relazionano al trascendente perché, diversamente, non si spiegano le cose, ma, piuttosto, vivono la fede in relazione ad un senso di finitudine esistenziale, per il quale la fede apre la possibilità di dare una risposta, che non è, tuttavia, necessaria, ma libera.
Non a caso, i credenti definiscono la fede come un dono, ovvero qualcosa di totalmente gratuito. Vi è, nell’esperienza spirituale, l’entrare in contatto con un senso di profonda interconnessione tra le cose, che collega il Sé a Dio, al mondo e agli altri. Se fosse solo un problema di sopravvivenza di antiche “vestigia cognitive” non si capirebbe perché, oggi, in un mondo che non favorisce certo la visione di insieme, ma incoraggia la iper specializzazione e la velocità nel reagire, si senta, sempre più prepotentemente, il bisogno di fermarsi ad approfondire la propria vita, fino alle porte della fede. Non si capirebbe come mai fioriscano tante scuole che insegnano a dare attenzione al presente, seguendo pratiche di preghiera cristiana. pratiche meditative, o, anche, pratiche di consapevolezza non agganciate a una fede in particolare.
Si sa che le attività di preghiera silenziosa e di meditazione sono esperienze specifiche, che si abbinano a correlati neuropsicologici tipici, con alterazioni del quadro elettroencefalografico e diversa percezione del dolore fisico e mentale (Coromaldi e Stadler, 2004, Kakigi et al., 2005, cit. in Chiesa A. 2011). La ricerca di tali dimensioni dell’esperienza, come la consapevolezza, può essere ritrovata in tanta psicologia contemporanea. Mi riferisco, in particolare, a tutti gli studi nati a partire dal lavoro di Kabat Zinn sulla pratica di consapevolezza (tanto per dare un riferimento a uno studioso che si muove all’interno dell’orizzonte della psicologia scientifica, che, mi auguro, appagherà la sete scientista di leggere cose che vengono pubblicate su riviste rigorosamente peer revieweed…). L’apertura al momento presente è il fulcro di molte attività e pratiche di meditazione, che oggi vengono copiosamente riscoperte come strumento fondamentale per preservare noi stessi dalla reattività del vivere di corsa, producendo, consumando e consumandoci.
E poi, vorrei porre all’attenzione una domanda importante, che rappresenta una delle cifre della ricerca di significato cui l’essere umano aspira e che fa da motore alla sua ricerca incessante di senso: perché quando ci si apre al momento presente, anche se non ci si concentra su un oggetto religioso, esperienze di senso di interconnessione emergono? È come se, quando si scegliesse di fare un passo indietro rispetto all’attività della mente nel pensare, si potesse scoprire un “luogo”, da cui guardare al proprio pensiero. E in quel “luogo” è possibile sperimentare un senso di unità, prima ancora di avergli dato un nome. So che è scandaloso, ma non posso non notare la risonanza tra il concetto di “luogo da cui osservare i pensieri”, proposto nei training di consapevolezza, e quello di “anima”, che osserva la mente, proprio delle tradizioni religiose.
Vale la pena, allora, riprendere la definizione di sacro come “riflesso dell’impotenza umana dinnanzi all’eternità del tempo e all’infinito dell’universo” (Zas Fris De Col, 2011) e cercare di comprendere davvero perché, comunque, anche nel pieno della secolarizzazione, lo ricerchiamo. Al fenomeno della fede, come libera scelta (o, se si preferisce, dono), di abitare nel sacro o di rifiutarlo, del credere o non credere, di essere o non essere religiosi mi sembra che si sia ancora ben lontani dal dare una spiegazione scientifica: anzi, forse è per ragioni strutturali che non ci può essere una risposta univoca; mi limito a citare nuovamente il concetto kantiano di “ragion pratica” e a ricordare che, per quanto riguarda la psicologia, il costrutto di trascendenza ha un lungo “pedigree” teoretico (Piedmont R., 1999), davvero sorprendente per qualcosa che dovrebbe essere residuale. Nell’ambito della letteratura psicologica, la religiosità rappresenta un dominio di studi molto ampio, è un elemento importante, laddove la presenza della tendenza ad auto trascendersi, nella persona, è un elemento confrontabile con gli altri fattori fondamentali della personalità, tanto da poter essere considerato una delle maggiori dimensioni della vita psicologica. Normale, razionale e adulta, aggiungerei.
di Maria Beatrice Toro – psicologa e psicoterapeuta
fonte: uccronline.it
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