La Disney Lgbt è ormai irrefrenabile. Ora arriva la drag queen per i bambini

Che cosa centrano una drag queen come Nina West e un’associazione di attivisti trans come Glsen con l’intrattenimento per bambini? Apparentemente nulla. Sono e dovrebbero essere e restare ambito, anzi universi paralleli, destinati quindi – in primis, per ovvie ragioni di salvaguardia dell’infanzia – a non incontrarsi mai. Sfortunatamente, non la pensa così la principale casa mondiale di prodotti audiovisivi per i minori, la Disney, che, come segnalato con sdegno su Twitter dallo scrittore Christopher F. Rufo, «ha promosso uno speciale per bambini realizzato da drag queen».

In effetti, lo spezzone condiviso da Rufo non lascia spazio a dubbi ed immortala, come si diceva, Nina West – negli improbabili panni di fatina – e vari altri personaggi, allo scopo d’incoraggiare «i bambini fin dall’asilo a unirsi all’organizzazione di attivisti trans Glsen», al cui sito esplicitamente si rinvia. Ora, è fuori discussione come un simile spot sia d’una gravità inaudita. E per varie ragioni. In primo luogo, perché si serve di un marchio da decenni sinonimo di cartoni innocenti e spensierati – quello disneyano – per veicolare contenuti nella più rosea delle ipotesi di parte ed eticamente più che sensibili.

Inoltre, come se non bastasse, va ricordato che non è la prima volta che la Disney si appoggia a organizzazioni Lgbt di questo tipo. Esattamente un anno fa, infatti, sempre a maggio, proprio la Disney faceva «il conto alla rovescia» per il mese del Pride e ribadiva l’impegno della Walt Disney Company nel finanziare in modo costante le «organizzazioni di tutto il mondo che sostengono le comunità LGBTQ+». Tra queste proprio la Glsen.

In seconda battuta, va evidenziato come proporre ai bambini sotto una chiave giocosa e colorata – quale è, almeno a prima vista, quella drag queen – il tema del transgenderismo è irresponsabile. Per un fatto molto semplice, e cioè che «i sintomi» del disturbo dell’identità di genere in eta prepuberale, come segnalava già nel 2008 un lavoro uscito sul Journal of Sexual Medicine, «diminuiscono o addirittura scompaiono in una percentuale considerevole di bambini (le stime vanno dall’80 al 95%). Pertanto, qualsiasi intervento nell’infanzia sembrerebbe prematuro e inappropriato».

Ecco che allora appare davvero pericoloso avviare alla galassia dell’associazionismo Lgbt bambini che, nella stragrande maggioranza dei casi, risolveranno in modo autonomo e naturale ogni forma di disagio che dovessero percepire sulla loro identità di genere. Non c’è alcun bisogno che Glsen, Disney o altri facciano nulla: questi minori vanno semplicemente lasciati in pace. È così  difficile accettarlo, senza ricorrere per forza alla leva dell’indottrinamento? A quanto pare, per alcune realtà purtroppo lo è.

Tornando a noi, va detto che avviare i bambini alle transizioni precoci – o alle associazioni Lgbt che di transgederismo, nello specifico, si occupano – è inaccettabile anche perché, come annotava nel 2012 un lavoro uscito sul Journal of Homosexuality, i bambini che si sottopongono o si sono sottoposti a questi trattamenti «si rendono a malapena conto di appartenere all’altro sesso natale. Sviluppano un senso della realtà così diverso dalla loro realtà fisica da rendere inevitabilmente difficile l’accettazione dei molteplici e prolungati trattamenti di cui avranno bisogno in seguito. Anche i genitori, che assecondano questo comportamento, spesso non si rendono conto di contribuire alla mancanza di consapevolezza di queste conseguenze da parte del bambino».

Sono parole senza dubbio dure, ma dense di verità. E che devono fungere da motivo circa il fatto che chiunque osi propinare ai piccoli il tema del transgenderismo – sia pure in una prospettiva apparentemente soft, come fatto da Disney – vada guardato con estrema diffidenza: anche se porta un nome rispettabile e a suo modo glorioso, come indubbiamente è quello disneyano. Il fatto è che tanti, evidentemente, non hanno ancora compreso che, se i bambini non sono proprietà dello Stato – aberrazione possibile solo sotto i regimi totalitari -, essi non sono neppure ostaggi dei media.

Le loro famiglie, e soltanto loro, sono infatti titolari della facoltà educativa, esercizio che perfino le scuole possono realizzare solamente in delega rispetto ai genitori i quali, non a caso, debbono sempre e comunque formalizzare il loro consenso informato prima di qualsivoglia attività che non sia prettamente didattica. Una regola sacrosanta che alcuni media, però, stanno tentando di aggirare. E di questo papà e mamme vanno resi consapevoli, prima che ai loro bambini sia rifilato il prossimo spot.

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