La scoperta è positiva nella misura in cui rende meglio comprensibile la natura umana, ma diventa qualcosa di ambiguo a seguito dell’interpretazione ideologica che di essa viene fornita.
Sul sito del Corriere della Sera dello scorso 27 febbraio 2015 è apparso un articolo di Edoardo Boncinelli dal titolo “Quel gene che ha fatto la differenza tra noi e le scimmie”, in cui l’illustre studioso ha raccontato, entusiasticamente, della scoperta del gene ARHGAP11B posseduto solo dagli esseri umani, ma non dalle scimmie antropomorfe e che, oltre ad aver contribuito, si presume, allo sviluppo evolutivo della corteccia cerebrale umana, pone la differenza effettiva tra l’uomo e i primati.
La scoperta per Boncinelli sarebbe così sensazionale e porterà a risultati così straordinari che lo stesso Darwin sarebbe stato positivamente colpito, come colpito rimase dall’osservazione di un orango femmina allo zoo di Londra nel marzo del 1838.
Di per sé la scoperta sembra positiva e lo è nella misura in cui rende ancora meglio comprensibile la natura umana, ma diventa qualcosa di ambiguo a seguito dell’interpretazione ideologica che di essa viene fornita.
Da un lato, infatti, c’è la scoperta di un gene, uno dei tanti, che renderebbe ragione dello sviluppo di una parte del cervello umano; dall’altro lato, invece, la deduzione, mica tanto logica, che questa scoperta per un verso comproverebbe la somiglianza tra essere umano e orango, e per altro verso cristallizzerebbe l’unica differenza tra gli uomini e gli irsuti “parenti quasi-umani”, comprovando, in definitiva, che la distinzione tra i primi e i secondo consista in un elemento soltanto di carattere biologico.
Insomma, per un solo gene, cioè per un frammentino di una composizione bio-chimica, l’orango è un quasi uomo, un uomo mancato, e l’uomo è un quasi orango, un orango che non è più orango.
Ma è proprio così?
Non occorrono dei particolari studia di filosofia o biologia per comprendere che così non è, che cioè, al netto delle scoperte genetiche, delle ipotesi evolutive, delle similitudini o delle differenze biologiche, l’uomo e l’orango sono profondamente diversi, non perché li separi un gene o una intera catena di fattori bio-chimici, ma perché l’uomo è ontologicamente diverso, in quanto è persona, in quanto cioè, per utilizzare le parole di Spaemann, ha un elemento ontologicamente costitutivo: la coscienza.
Tramite la coscienza, infatti, l’uomo percepisce la propria diversità rispetto al resto del creato, non solo con l’uso delle facoltà razionali, che un qualunque evoluzionista riterrebbe sviluppabili anche da altre creature nelle medesime condizioni evolutive, ma per la consapevolezza di sé come strutturalmente deficitario in ordine alla propria completezza, come si riconosce nella sua natura sostanzialmente relazionale.
Gli altri animali, infatti, sono comunitari, non relazionali, per questo vivono in branchi o gruppi, ma non in Stati o associazioni; la scoperta del diritto, del resto, è la prova più autentica della natura relazionale dell’essere umano che lo contraddistingue dalle altre creature; non a caso gli esseri umani riconoscono diritti agli animali (pur tralasciando gli eccessi di un ottuso progressismo come quello di Zapatero e compari che hanno riconosciuto i diritti umani fondamentali ad alcuni primati negando all’un tempo la natura umana, la natura degli animali e la stessa natura del diritto), ma gli animali non riconoscono nessun diritto agli esseri umani.
Non a caso gli esseri umani hanno adattato la propria scienza medica, tesa a salvare la vita e l’integrità fisica dei propri simili, agli animali, inventando la scienza veterinaria.
La coscienza, dunque, è ciò che primariamente, e meglio di ogni altro elemento, pone l’insanabile ed incolmabile distinzione tra l’uomo e l’orango.
L’uomo e l’orango, allora, sono diversi non per uno o per tutti gli elementi della struttura biologica che li compone, ma perché, diversamente dall’orango, come ricorda Nikolaj Berdjaev, «la persona non è una categoria biologica o psicologica, ma una categoria etica e spirituale».
Si dovrebbe essere più cauti, dunque, nel trarre delle conseguenze sbagliate da corrette scoperte scientifiche, non foss’altro che per tener conto della verità inconfutabile della nota battuta, qui ri-adattata, per la quale si vedono tanti Boncinelli che, osservandolo e studiandolo, si interessano di un orango, ma non si vede nessun orango che si interessi ad alcun Boncinelli nemmeno per studiarlo o osservarlo!
Foto scimpanzé da Shutterstock
Aldo Vitale
Fonte: http://www.tempi.it/
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