L’Italia, si sa, è sempre stata un paese da operetta. Ma non fraintendiamoci, non lo dico con disprezzo. È una constatazione, quasi un dato di fatto. Da sempre abituati a oscillare tra la tragedia e la farsa, gli italiani hanno il dono di trasformare il dramma in commedia e la politica in un circo perpetuo dove tutto sembra avvolto da una patina di leggerezza.
Non c’è da sorprendersi, dunque, se siamo il Paese dove anche i colpi di Stato finiscono col sembrare sketch da avanspettacolo, e dove i governi cadono al ritmo di un minuetto.
Ma c’è un problema: il sipario, questa volta, sembra calato per sempre. E la risata, quella stessa risata che ci ha permesso di sopravvivere a decenni di caos, si è fatta amara, quasi soffocata.
Montanelli lo sapeva bene. Amava l’Italia e gli italiani, ma non aveva mai perso la capacità di guardarli con un occhio disincantato e ironico. “Gli italiani sono pronti a perdonare tutto, tranne il successo”, scriveva. Ed è vero, nel nostro paese, chi osa emergere viene subito abbattuto. Ma oggi siamo andati oltre. Non siamo più nemmeno capaci di indignarci. Il nostro Paese ha smesso di prendersi sul serio e, cosa peggiore, ha smesso di farci sorridere.
Se un tempo potevamo ridere di noi stessi, adesso la commedia all’italiana ha lasciato spazio a un teatro di burattini logori e arrugginiti. Lo spirito della farsa, che ci permetteva di tirare avanti anche nei momenti più difficili, è evaporato. Dino Risi, con i suoi film, sapeva raccontare un’Italia piena di difetti ma viva, dove la comicità era un modo per non soccombere. Oggi, invece, sembriamo tutti stanchi. La farsa si è trasformata in una grottesca ripetizione di se stessa. E quando la farsa non diverte più, diventa una tragedia.
Siamo passati dall’essere un popolo capace di trasformare qualsiasi disastro in una battuta fulminante a una massa di spettatori inerti, che guardano la scena con disillusione e un pizzico di disperazione. Guardiamo i nostri politici fare promesse con la stessa serietà con cui un attore recita una parte, e sappiamo già che il finale è scritto: tutto cambia affinché nulla cambi, come ci ricordava il principe di Salina nel Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma la differenza è che, oggi, non c’è nemmeno più quella recita brillante a cui eravamo abituati. Il copione è sempre lo stesso, ma gli attori sembrano ormai esausti, incapaci di offrire persino una buona interpretazione.
Le risate si sono spente. E con loro, anche quel cinismo che un tempo ci permetteva di affrontare la realtà senza farci troppo male. Come scriveva Alberto Moravia, “l’indifferenza è la malattia del nostro tempo”. E mai come oggi questa frase sembra calzare a pennello per descrivere il clima che si respira in Italia. Un tempo potevamo permetterci di essere ironici, perché sapevamo che la nostra leggerezza nascondeva una forza vitale.
Oggi, l’ironia si è trasformata in apatia, e il disincanto si è fatto amaro. Non ci arrabbiamo più, non ci indigniamo più, non ridiamo più. Guardiamo lo spettacolo, scuotiamo la testa, e poi ci voltiamo dall’altra parte.
Pasolini, che aveva previsto tutto, parlava già negli anni ’70 di una “mutazione antropologica” che avrebbe travolto l’Italia. Vedeva nel consumismo e nella televisione le radici di un cambiamento profondo, che avrebbe reso gli italiani più superficiali, più conformisti, e alla fine, più indifferenti. La sua era una profezia amara, ma corretta.
Oggi, l’Italia che conosciamo è un Paese che ha perso la sua anima, un paese che non riesce più a ridere né a piangere, ma si limita a vivere giorno per giorno, aspettando che qualcosa cambi, senza più credere davvero che possa accadere.
Ma non è sempre stato così. C’è stato un tempo in cui la leggerezza era una virtù, e in cui l’Italia, con tutti i suoi difetti, riusciva comunque a sopravvivere grazie a quella capacità tutta nostra di trasformare il disastro in farsa. Persino nelle fasi più buie della nostra storia, siamo riusciti a uscirne con una risata.
Guardiamo indietro e pensiamo a quella “commedia all’italiana” che, come una lente deformante, ci permetteva di guardare alle nostre miserie con un sorriso complice. Ma la verità è che oggi, quella stessa commedia è diventata ripetitiva, noiosa, e ha perso la sua funzione catartica.
Siamo un Paese che ha fatto dell’arte di arrangiarsi il proprio vessillo, e che ha sempre saputo cavarsela in qualche modo.
Ma oggi sembra che non ci sia più nulla da arrangiare, e quel talento per la commedia si sia spento. E quando la risata si ferma, rimane solo il vuoto.
E allora cosa resta di questo Paese da operetta? Forse solo un senso di vuoto e di rassegnazione. Forse quella stessa malinconia di cui parlava Norberto Bobbio, un altro grande pensatore italiano, che riconosceva in noi un popolo incapace di prendere davvero in mano il proprio destino. È come se avessimo perso la fiducia in noi stessi, come se ci fossimo rassegnati a essere sempre e comunque spettatori di un copione che non ci appartiene più.
La risata, quella risata liberatoria che ci ha accompagnato per decenni, si è spenta. Il sipario è calato, e dietro non c’è più nulla da vedere. Siamo un paese che ha perso persino il gusto di prendersi in giro, e questo, per noi, è il segno più grave di un declino che non è più soltanto politico, ma anche morale. Montanelli, che non ha mai perso la capacità di sorridere amaro di fronte ai difetti degli italiani, oggi scuoterebbe la testa, forse deluso, forse rassegnato. Il nostro Paese da operetta ha perso la sua musica. E noi, come pubblico, non sappiamo più cosa fare.
Davide Romano
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