L’intesa per ridurre gli arrivi di migranti sulle coste italiane prevede di fermarli già sulla sponda libica, ma non risponde al bisogno di ripensare al modello dell’immigrazione in Europa.
Giovedì 2 febbraio il governo italiano e quello libico di unità nazionale, con sede a Tripoli, hanno firmato un accordo che ha l’obiettivo di ridurre il flusso di persone che da anni cercano di raggiungere l’Italia partendo dalle coste libiche, mettendosi nelle mani dei trafficanti che si approfittano della guerra civile in corso nel Paese a più riprese dal 2011.
Nel documento, che è stato apprezzato anche dagli altri governi dell’Unione europea, riuniti a Malta il giorno successivo, prevede in sostanza un pacchetto di aiuti da parte del governo italiano per le autorità libiche che si occupano di contrasto alle partenze dalle coste nordafricane.
Nel 2016 sono arrivate via mare in Italia oltre 180.000 persone, molte delle quali hanno raccontato di essere partite dalla Libia, mentre sono oltre 4.500 quelle che hanno perso la vita nella traversata. Di fronte a questi numeri, che nascondono storie e relazioni interrotte, negli ultimi anni l’Italia ha cercato a più riprese di sviluppare degli accordi con la Libia, ma la guerra civile e l’assenza di un unico governo legittimo ha sempre frenato ogni tentativo di cooperazione. Ancora oggi Tripoli e Tobruk rappresentano due diversi Stati, uno a est e uno ovest, anche se la preferenza internazionale si è spostata dalla seconda alla prima negli ultimi 18 mesi. Il presidente del governo riconosciuto dall’Unione europea, detto anche “di unità nazionale”, è Fayez al-Sarraj, che ha gravi problemi a governare anche la parte ovest della Libia, quella attorno a Tripoli, e non sembra in grado di garantire la messa in atto concreta degli accordi internazionali.
Infatti, secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo, esperto di fenomeni migratori, «non possiamo parlare di un’intesa Italia–Libia perché non possiamo parlare di una Libia unica: il governo di Tripoli, infatti, controlla solo una parte minima del territorio. Gli scontri a Tripoli sono frequenti, le coste vengono sorvegliate da una guardia costiera che risponde soltanto al governo al-Sarraj ma che viene vista come un’antagonista dal rappresentante più forte della parte militare del governo di Tobruk, ovvero il generale Haftar, ben sostenuto dall’Egitto e in parte anche dalla Russia».
L’interlocutore è il primo dei problemi, il secondo è l’approccio di questa intesa. Può funzionare?
«Il contenimento delle partenze dalla Libia, che qualcuno chiama anche “blocco”, è inefficace. Si è visto anche nel fine settimana, nel quale nonostante il pessimo tempo sono arrivate 1.600 persone. Oltretutto ci sono stati, soltanto nel mese di gennaio, circa 300 morti nelle acque a nord della Libia. Per mettere in piedi questo accordo si è dato più spazio alla guardia costiera libica, che adesso arriva a fare i soccorsi a 30 miglia dalla costa, in acque internazionali, ma sono soccorsi che diventano rapidamente dei sequestri di persona, perché chi poi riprova il viaggio e arriva qui racconta che dopo essere stati ripresi in acque libiche vengono gettati nei centri di trattenimento, alcuni gestiti anche dalle milizie. Ricordiamo che questi luoghi non sono prigioni gestite dallo Stato, anche perché non c’è un vero Stato, e lì ci sono torture continue, donne che vengono sistematicamente abusate, così come i minori. Sembra incredibile, ma purtroppo si comprende anche perché l’Europa di fronte a tutto questo preferisca chiudere gli occhi».
Quindi non possiamo parlare di un vero blocco?
«No, non c’è nessun blocco: anche il consiglio di Malta, che era un consiglio informale, non ha deciso nulla, perché non era nelle condizioni di farlo. Il Consiglio da solo a livello europeo non decide nulla, ha mostrato solo un intento politico e ha promesso di riconoscere alcune centinaia di milioni di euro alla Libia, ben poca cosa, se la Libia riuscirà a controllare le proprie coste».
L’accordo con la Libia è soltanto il primo passo?
«Certo. L’obiettivo è anche, per esempio, il Niger, più a sud, con l’intenzione di sbarrare la frontiera dei migranti che dall’Eritrea o dal Sudan cercano di fuggire verso la Libia, ma ricordiamo che anche il Niger e lo stesso Sudan sono Paesi nei quali le violazioni dei diritti umani sono continui, quindi in sostanza l’Ue sta accettando di collaborare con Paesi che non garantiscono il rispetto dei diritti umani per assecondare un’opinione pubblica che farebbe bene a preoccuparsi di ben altre ragioni della crisi economica che la travolge, che non sono certamente i disperati che arrivano in Italia, gran parte dei quali tra l’altro se potesse andrebbe in altri Paesi».
E che invece arrivando qui cosa trovano?
«Trovano l’altra vera emergenza europea: gli altri Paesi hanno bloccato le frontiere, costituendo un muro simile a quello che Trump vorrebbe rinforzare con il Messico. Il muro europeo parte da Ventimiglia, passa dal Brennero e arriva a Belgrado, ed è fatto anche dalla mancata riforma del regolamento di Dublino e dal mantenimento di regole inique che scaricano sui Paesi di primo ingresso, Grecia e Italia, il carico maggiore dell’accoglienza di alcune centinaia di migliaia di persone che distribuite invece in tutta Europa sarebbero più che sopportabili».
L’Europa pensa veramente di non pagare le conseguenze di questa strategia?
«Le pagheremo sicuramente, per esempio in termini di conflitto vero e proprio che si determinerà presto in Libia se non ci sarà un intervento della diplomazia che si preoccupi non tanto di fermare i disperati che passano quanto di risolvere il conflitto endemico tra la Tripolitania e la Cirenaica, tra il generale Haftar e il governo al-Sarraj sostenuto dalle Nazioni unite. Questo è un problema di conflitti che si riproporranno: la Libia può diventare un’altra Somalia, per capirci».
E direttamente in Europa?
«Anche. Considerare i migranti, e in particolare i richiedenti asilo, come dei nemici interni rischia di determinare una implosione della nostra società, perché avere il nemico significa adottare poi anche dei muri al nostro interno, costruire fortezze, creare delle zone recintate con la promessa alla popolazione in difficoltà per la crisi economica che questo potrà salvaguardare il welfare e l’accesso ai servizi quando veramente poi si scopre poi che sono ben altre le ragioni che impoveriscono e determinano preoccupazione. Purtroppo si sta utilizzando l’allarme terrorismo in funzione del contenimento dei movimenti migratori, come se i terroristi che fin qui sono stati arrestati e individuati non fossero persone con una cittadinanza europea, persone con ampia disponibilità economica, persone che non sono certamente sui barconi che arrivano dalla Libia o dalla Tunisia. I casi singoli non possono certamente modificare questa realtà, ma bisogna avere il coraggio di separare nettamente il fenomeno dell’immigrazione da quello del terrorismo».
Con l’idea di impedire gli arrivi gli Stati europei negano un loro dovere, quello di accogliere le persone in fuga da persecuzioni e guerre, stabilito a livello internazionale. È un profilo di inapplicabilità per questo accordo?
«L’Italia è già stata condannata nel 2012 dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo per dei respingimenti che ha effettuato nel 2009 verso la Libia. Con questo accordo si sta cercando di aggirare il divieto di respingimento, sancito dalla convenzione di Ginevra, facendo effettuare queste operazioni dalla guardia costiera libica, formata anche a bordo di navi italiane e della missione europea EuNavForMed, con protocolli operativi mirati per cui i libici hanno margini di intervento maggiore. Il problema è che i libici non hanno una dotazione di mezzi tale da garantire ricerca e salvataggio, quindi in realtà in nome di questa esigenza di contenere i movimenti migratori si condannano a morte migliaia di persone. Ricordo che lo scorso anno sono morte più di 4.000 persone, oltre dieci al giorno, e anche gennaio 2017, con la morte di circa 280 persone, ci dice la stessa cosa».
Possibile che l’opinione pubblica non si opponga a questa logica?
«La cosa più triste è che l’opinione pubblica in Italia, ma anche in altri Paesi europei, è ancora più sulla difensiva per riaffermare i nazionalismi in nome di condizioni economiche di difficoltà. È comprensibile che ci sia una mancanza di informazione, una mancanza di comprensione di quello che effettivamente succede, anche perché alcuni partiti politici spacciano ricette che non risolvono i problemi, ma comportano questi effetti devastanti sul piano della vita delle persone e anche sul nostro vissuto. I migranti arriveranno comunque, e quindi dare una regolarizzazione e consentire il riconoscimento dello status di rifugiato è l’unico modo per garantire una coesistenza e una coesione sociale laddove altrimenti ci sarà una crescita esponenziale, che si sta già verificando in questi mesi, di immigrati irregolari a causa della mancanza di canali legali di ingresso in Europa. Mancano i canali umanitari, manca la comprensione del fatto che questi movimenti migratori non sono un’invasione e che sarebbero perfettamente gestibili a livello europeo se la distribuzione degli oneri tra i Paesi europei fosse equa. Ecco, questo sarebbe possibile se ci fosse ancora un’Europa, dobbiamo interrogarci su questo: l’Unione europea è capace di decidere e non soltanto di minacciare blocchi navali? C’è anche da capire che cosa fare a livello nazionale in assenza di risposte europee che purtroppo non si vedono».
Immagine: via Flickr
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