«Il Consiglio di Sicurezza, riaffermando le sue risoluzioni su questo tema, che comprendono le risoluzioni 242 (1967), 338 (1973), 446 (1979), 452 (1979), 465 (1980), 476 (1980), 478 (1980), 1397 (2002), 1515 (2003), e 1850 (2008) eccetera eccetera».
Basta leggere l’inizio del testo al centro della battaglia diplomatica tra Israele e le cancellerie di mezzo mondo per aver ben chiaro quale sarà l’esito della risoluzione 2334, la condanna della politica degli insediamenti in Cisgiordania approvata venerdì dal Consiglio di sicurezza dell’Onu. Passata la bufera con ogni probabilità questo testo farà la fine degli altri dieci pronunciamenti dell’Onu che l’hanno preceduto: diventerà un numero da citare come un oracolo nelle dichiarazioni politiche sul conflitto israelo-palestinese. Ben sapendo che quel numero – almeno per il momento – non conterà proprio nulla.
Il testo votato dall’Onu con quattordici voti favorevoli (tra cui quelli geopoliticamente «pesanti» di Russia e Cina) e l’astensione degli Stati Uniti (che per la prima volta non hanno opposto il diritto di veto, mandando su tutte le furie Netanyahu) invoca la cessazione di ogni nuova costruzione israeliana in Cisgiordania e a Gerusalemme Est per «salvaguardare la soluzione dei due Stati» nel conflitto che oppone israeliani e palestinesi. Si tratta però di una risoluzione che nasce già depotenziata fin dall’inizio; come per i «parametri di Clinton» del 2000, infatti, anche Obama conferma la tesi per cui i presidenti democratici trovano il coraggio delle scelte forti nei confronti di Israele solo a mandato scaduto. In questo caso, poi, è una scelta compiuta sapendo che dal 20 gennaio alla Casa Bianca arriverà un inquilino come Donald Trump, le cui nomine sul dossier Medio Oriente lasciano pochi dubbi sull’intenzione di tenere l’atteggiamento morbido di sempre rispetto alle nuove costruzioni israeliane in Cisgiordania.
Dunque quello che sta andando in scena in queste ore sulla risoluzione 2334 è un fantastico cinema. Con il premier Netanyahu che fa il melodrammatico convocando gli ambasciatori dei Paesi interessati il giorno di Natale. Dichiarando solennemente che Israele «non porgerà l’altra guancia». Tanto basta per far diventare un appuntamento quasi serio la Conferenza di pace sulla questione palestinese che un altro governo dall’orizzonte non esattamente lunghissimo – quello francese – ha convocato per il 15 gennaio. Palcoscenico ideale per nuove dichiarazioni e nuovi documenti destinati a loro volta a restare solo sulla carta.
Eppure la questione degli insediamenti sarebbe tremendamente seria. Il 2017 che sta per iniziare segnerà i cinquant’anni dall’inizio di questa vicenda, con la conquista militare di Gerusalemme Est e della West Bank, i Territori sulla riva occidentale del fiume Giordano dove oggi vivono circa 3 milioni di palestinesi. In questi cinquant’anni in quegli stessi Territori i governi israeliani di ogni orientamento politico hanno favorito costantemente la crescita di colonie nelle quali oggi vivono circa 400 mila ebrei israeliani. Ma sono cresciute intorno a un’ambiguità: Israele non ha mai voluto annettere le regioni che chiama con i nomi biblici di Giudea e Samaria, perché questo significherebbe dare la cittadinanza anche ai palestinesi. Così continua a considerare le colonie come zone extraterritoriali, dallo status giuridico complesso. Fino a ieri almeno un punto fermo la legge israeliana l’aveva posto, stabilendo che una nuova colonia non poteva comunque sorgere in aree su cui singoli cittadini palestinesi potessero vantare dei diritti di proprietà risalenti al catasto dell’epoca dell’amministrazione giordana. Adesso però – all’interno della coalizione che sostiene Netanyahu – il partito politico espressione diretta dei coloni preme perché salti anche questa distinzione: vuole una sanatoria degli outpost, gli insediamenti che sono abusivi per la stessa legislazione israeliana. E alla Knesset è già riuscito a ottenere un primo voto favorevole.
Netanyahu, quindi, oggi ha buon gioco nel gridare al complotto di Obama, sentendosi le spalle coperte dall’amministrazione Trump. Dal 20 gennaio, quindi, tutto andrà avanti come sempre: arriveranno nuove costruzioni, i coloni aumenteranno ancora, le tensioni cresceranno ulteriormente. Ma la domanda che resterà comunque aperta è: quale status giuridico ha in mente Benyamin Netanyahu per gli insediamenti e per i palestinesi che abitano in Cisgiordania? Sono vent’anni che l’attuale premier non risponde; farlo lo porterebbe infatti a dover compiere una scelta, come accaduto ad Ariel Sharon. E invece Netanyahu preferisce governare e basta.
Non sarà certo una risoluzione come questa a metterlo alle strette. L’unica vera svolta potrebbe venire dal contesto più ampio del Medio Oriente in cui molti equilibri stanno cambiando: nel pieno dell’isolamento internazionale Bibi sta scommettendo tutto sugli Stati Uniti di Donald Trump. Ma con Mosca che aspira sempre più a giocare un ruolo da protagonista nella regione, siamo proprio sicuri che per Gerusalemme non cambierà proprio nulla? Venerdì – una volta capito che aria tirava all’Onu – la diplomazia israeliana ha provato a chiedere a Putin di esercitare il diritto di veto in Consiglio di sicurezza. Ma nonostante gli ottimi rapporti costruiti con Israele in questi ultimi anni, il Cremlino ha risposto picche. Molto più che a Obama, probabilmente oggi a Gerusalemme stanno pensando a questo.
di Giorgio Bernardelli | Lanuovabq.it
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