L’Onu non ha ancora riconosciuto come “genocidio” i crimini dell’Isis in Iraq e in Siria, ma sta raccogliendo prove sempre più numerose per documentarlo. L’ultima, illustrata al Palazzo di Vetro da Jan Kubis, il rappresentante speciale nella missione in Iraq, è la scoperta di almeno 50 fosse comuni nei territori liberati dall’esercito regolare iracheno. Il ché inizia a dare anche l’idea delle dimensioni del crimine, oltre che della sua natura genocida.
“Io condanno – dice Kubis – nei termini più duri possibili, le continue uccisioni, i rapimenti, gli stupri e le torture degli iracheni ad opera dell’Isis, atti che possono costituire crimini contro l’umanità, crimini di guerra e anche genocidio”. Con questa dichiarazione, la parola “genocidio” entra dunque nel Palazzo di Vetro, dopo le condanne formali espresse dal Parlamento Europeo, dal governo degli Stati Uniti e dal Parlamento britannico. Una risoluzione in merito è ancora di là da venire, ma è stato compiuto almeno un primo passo. La scoperta delle fosse comuni riguarda solo una regione limitata del territorio occupato dall’Isis, solo quella liberata e messa in sicurezza dalle forze dell’esercito regolare di Baghdad e dei curdi, a Ramadi, Tikrit e Sinjar, terre in cui è rimasta vittima soprattutto la locale minoranza yezida. Ramadi, sotto occupazione dell’Isis dal maggio del 2015, è stata liberata nel dicembre successivo, ma solo nel febbraio scorso sono state soppresse le ultime sacche di resistenza dell’Isis. Già dopo l’ingresso delle forze regolari erano emerse le prove del crimine di massa. In una fossa comune scavata nel locale campo da calcio (trasformato in luogo di esecuzioni e sepoltura), sono stati rinvenuti i corpi di almeno 40 persone: membri di tribù restie ad accettare la dominazione jihadista, soldati iracheni prigionieri, donne e appartenenti alla minoranza degli yezidi. Altre 16 fosse comuni sono state scoperte a Sinjar, area liberata dai curdi. In una di queste sono contenute le spoglie di 60 corpi di donne e bambini, in un’altra quelle di 70 donne anziane. Assieme a loro ci sono ancora i loro oggetti personali: forbici, bastoni da passeggio, stringhe, profumi, borse, scarpe, tutti oggetti di uso comune che testimoniano una vita normale vissuta fino a pochi attimi prima dell’esecuzione.
Le spoglie rivelano un’opera di persecuzione sistematica delle minoranze, perché si tratta, appunto, di persone non in grado di combattere: donne anziane, bambini, la cui unica colpa era di essere “infedeli”. Si tratta di primissime prove (si teme che ne verranno scoperte molte altre) che confermano i racconti, ormai numerosi, dei sopravvissuti. Lamya Haji, irachena yezida, raccontava all’Irish Independent, proprio in questi giorni, come avvenga la selezione delle vittime. Nel suo villaggio, Kocho, circa 400 uomini sono stati catturati dai jihadisti e fucilati sul posto, 1000 donne sono state rapite. “Hanno iniziato a separarci: gli uomini e i ragazzi da una parte, le donne anziane da un’altra, le ragazze e le bambine, dagli otto anni in su, in una terza sezione”. Le donne anziane sono quelle finite nella fossa comune di Sinjar o in un’altra equivalente: uccise perché “inutili”, assieme agli uomini “potenzialmente pericolosi”. Le giovani, invece, sono un bottino più ricco: sono state tenute in vita per farne schiave, da rivendere nei mercati cittadini. Lamya Haji racconta la sua personale odissea: venduta in rapida successione a quattro differenti uomini dell’Isis, è stata ripetutamente violentata, torturata e costretta ai lavori forzati. Lavori domestici, quando era nelle mani di un uomo che la voleva “solo” usare come oggetto di piacere, ma anche costretta a produrre cinture esplosive per i terroristi suicidi, nella piccola fabbrica di esplosivi gestita da un certo Imad. E’ qui che ha potuto testimoniare l’esistenza dell’“internazionale jihadista”: giapponesi, francesi, siriani e arabi di tutto il Medio Oriente passavano a ritirare il prodotto finito. Lamya è riuscita miracolosamente a sopravvivere alla sua fuga rocambolesca, benché ferita da una mina artigianale che ha ammazzato le sue due compagne di evasione. Ora è in Kurdistan e mira a ottenere un (ben meritato) asilo politico in Germania.
Il numero preciso di schiave dell’Isis è ancora ignoto, la stima più citata parla di 6000 donne in cattività “La situazione delle minoranze in Iraq non è buona – spiegava Nadia Murad a Tv2000, il 6 maggio – Gli yezidi, da un anno e mezzo, sono vittime di un genocidio per mano dell’Isis. Migliaia di yezidi ormai vivono in campi profughi nel Kurdistan iracheno. I bambini non vanno più a scuola e migliaia di ragazze si trovano nei centri dell’Isis dove vengono violentate e prese a noleggio (sic!) dai combattenti. Oltre 1200 bambini yezidi si trovano nei campi di addestramento dell’Isis per diventare in futuro dei terroristi. Le nostre regioni sono occupate dall’Isis e nelle zone liberate abbiamo rinvenuto oltre 35 fosse comuni con cadaveri di uomini, donne e bambini. Queste fosse comuni sono ancora all’aria aperta”. Anche Nadia Murad, narra la sua odissea personale: “Mi hanno presa come schiava sessuale, hanno ucciso i miei 6 fratelli e mia madre. Ero preda di guerra insieme a bambine di 9-10 anni, anche loro erano schiave sessuali. Sono stata violentata, venduta, noleggiata e prestata da un combattente all’altro. Tutto questo nell’Iraq di oggi per mano di persone musulmane. Mi hanno portato via la vita. Oltre 3500 persone, tra donne e bambini, ancora oggi vengono violentate”.
Jan Kubis ritiene che l’azione militare non sia sufficiente. La crisi umanitaria in Iraq è infatti “una delle peggiori nel mondo” e oltre 10 milioni di iracheni, pari a un terzo della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria. Lamenta il fatto che solo un quarto degli 861 milioni di dollari richiesti per l’Iraq sia stato effettivamente erogato. Ma non è solo una questione di soldi. Quel che è stato distrutto dal totalitarismo jihadista è soprattutto il tessuto sociale. Cristiani e yezidi non tornano nelle loro terre d’origine, perché hanno ormai paura di finire di nuovo nelle fauci dei loro aguzzini. Non solo i combattimenti continuano e nessun’area può realmente dirsi al riparo dall’Isis, ma non si sa nemmeno quanti “volenterosi carnefici del Daesh” (per usare un’espressione coniata per i tedeschi sotto Hitler) vi siano fra i locali iracheni sunniti, i maggiori beneficiari del regime jihadista, fra coloro che hanno requisito case e averi delle vittime e non intendono mollare la preda.
di Stefano Magni | Lanuovabq.it
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