Il doloroso racconto della prigionia di Amina, una delle 280 yazide riuscite a fuggire dalle mani dei jihadisti che hanno invaso l’Iraq e sterminato il suo popolo.
Kocho è la Marzabotto degli yazidi. Insieme alla vicina località di Qiniyeh, questo villaggio di 1.700 abitanti ha subìto il peggiore dei massacri compiuti dai jihadisti dell’Isis a metà dello scorso agosto contro questa minoranza religiosa. Secondo Human Rights Watch e Amnesty International, «centinaia di persone sono state uccise in questi due villaggi in aggiunta ai gruppi di uomini e ragazzi che sono stati rastrellati solo per essere portati via e fucilati». Secondo i sopravvissuti, alcuni dei quali si sono salvati fingendosi morti dopo essere rimasti feriti in fucilazioni di massa, la sola Kocho ha perduto fra i 400 e i 600 uomini e ragazzi, passati per le armi il 15 agosto e i giorni seguenti.
Amina è una di loro. Come migliaia di suoi correligionari, oggi vive sotto una tenda dell’immenso campo profughi di Sharia, nel governatorato di Dohuk. Una di quelle tendopoli che si materializzano quando si verificano calamità di portata biblica. Quattromila tende che danno riparo a 30 mila persone sono qualcosa che non si riesce a descrivere e nemmeno a fotografare o filmare, perché l’insieme eccede la portata delle parole e degli obiettivi fotografici. L’Afad, la protezione civile turca che lavora sotto l’egida del primo ministro, pensava di farsi bella fornendo questi ripari che poi gli operatori alle dipendenze del governatore curdo iracheno di Dohuk hanno ordinatamente sistemato in lunghe file intervallate da recinzioni e strade carrabili. Ma provate a parlare coi profughi, tutti yazidi, che sono stati concentrati qui dall’inizio di novembre da decine di località e sistemazioni dove erano sparsi, e sentirete soprattutto lamentele e proteste: per le tende troppo piccole, formato tre metri per tre metri e mezzo, sotto ciascuna delle quali pernottano mediamente sette persone; per le stufette elettriche di due soli elementi, troppo deboli per riscaldare gli ambienti; per le distribuzioni di beni e generi di prima necessità, che sempre favoriscono qualcuno e sfavoriscono qualcun altro. «Vogliamo uno straniero a dirigere gli aiuti», protestano. «Non vogliamo più iracheni, non importa se musulmani o yazidi».
Amina non partecipa alla discussione. Lo sguardo mesto e pensoso, gli angoli della bocca piegati verso il basso, questa quarantenne ha due storie da raccontare che pesano su di lei come le macine del suo villaggio abbandonato. Il racconto dell’eccidio di Kocho, ma anche e soprattutto il racconto della prigionia e della fuga. Perché Amina è una delle circa 2 mila donne yazide rapite e ridotte in schiavitù dall’Isis, ed è una delle 280 che sono riuscite a riavere la libertà. La sua odissea è durata tre mesi, dai primi di agosto ai primi di novembre. La racconta quasi tutta il suo “portavoce”, il fratello Sami, che lei interrompe ogni tanto per precisare un dettaglio o perché la domanda del giornalista può avere risposta solo dalla sua bocca. Intorno a noi una mezza dozzina di membri maschili del parentado, vigilanti e silenziosi. Sami sta peggio della sorella: si è salvato dalla strage perché si trovava in un’altra città, ma a lui l’Isis ha rapito la moglie e due figli piccoli, che restano in cattività.
L’assedio del villaggio
Ecco cosa ha raccontato a Tempi Amina-Sami: «Il nostro villaggio è rimasto circondato per dodici giorni, durante le prime due settimane di agosto. Il nono giorno dell’assedio hanno inviato degli emissari che ci hanno intimato: “Avete tempo tre giorni per convertirvi all’islam, altrimenti sarete uccisi”. Il nostro sceicco (anche i capi religiosi yazidi si chiamano sceicchi, ndr) ci ha detto: “Non è giusto cambiare religione, e poi altri lo hanno fatto ma sono stati uccisi ugualmente”. Nessuno a Kocho ha rinunciato alla sua fede. Scaduti i tre giorni, i jihadisti sono entrati nel villaggio in grande numero e molto armati. I loro capi hanno detto ai nostri: “Vi lasciamo andare via liberi, qui non potete stare. Radunatevi dentro alla scuola del villaggio mentre noi organizziamo il vostro trasporto verso il Jebel Sinjar”». Si tratta della catena montuosa dove erano fuggiti già migliaia di yazidi dopo la presa dell’omonima città da parte dell’Isis. Ma l’evacuazione si rivela essere un tranello. «Dopo un po’ sono arrivati con camioncini e pick-up. Prima hanno chiesto di consegnare tutti gli oggetti di valore. Hanno confiscato denaro, telefoni cellulari e ori. Poi, anziché far salire le famiglie insieme, hanno separato gli uomini dalle donne e hanno cominciato a fare salire i primi sui veicoli mentre a noi dicevano di aspettare il nostro turno. Facevano salire gli uomini 30-40 alla volta sui cassonati e sui camion, quindi partivano. In questo modo hanno portato via credo 600 persone, tutti maschi dai 12 anni in su. Abbiamo capito che andavano a morire».
Varie testimonianze di sopravvissuti raccontano che gli uomini, dopo essere stati fatti sdraiare a terra, sono stati uccisi in fucilazioni effettuate con fucili mitragliatori più, in alcuni casi, colpi di grazia sparati con le pistole alla testa degli agonizzanti. Compiuto l’olocausto degli uomini e dei ragazzi, è cominciata la via crucis delle donne e dei bambini. «Ci hanno caricato sugli stessi veicoli usati per portare i nostri uomini a morire, e ci hanno trasferite nella città di Sinjar che avevano conquistato. Lì hanno separato le donne nubili giovani da quelle sposate oppure nubili ma sopra i trent’anni, e questi gruppi da quello delle ultracinquantenni. Le prime sono state mandate a Mosul, le seconde a Tell Afar (a metà strada fra Sinjar e Mosul, ndr), mentre delle terze non abbiamo nessuna notizia da allora».
Amina è una nubile quarantenne, perciò viene prima trasferita a Tell Afar, e poi due giorni dopo da lì insieme alle compagne di sventura in Siria. A Raqqa, la capitale siriana del califfato, diventa ufficialmente una schiava. «Eravamo un gruppo di 70 donne. Ci hanno portato dentro a un grande salone, forse era una palestra. Lì c’erano altre donne in attesa, tutte più giovani di noi. Erano almeno 200. E c’erano già i “compratori”, tutti combattenti dell’Isis. I prezzi variavano a seconda dell’età delle donne: più erano giovani e più bisognava pagare. Una signora cinquantenne è stata assegnata a un uomo che ha offerto 15 mila dinari appena (sono poco più di 12 dollari), mentre per le 15-17enni si pagavano 200 mila dinari». Duecentomila dinari sono una cifra anch’essa modesta: 170 dollari.
All’inizio di novembre è apparso sui media un presunto tariffario dell’Isis per la compravendita di donne yazide e cristiane di dubbia autenticità. Il documento precisa che la fissazione dei prezzi sarebbe stata resa necessaria dalla flessione degli scambi sul mercato, che avrebbe condizionato negativamente le entrate dello Stato islamico. Ma le cifre indicate sono tutto tranne che redditizie per le casse del califfato: si va da un minimo di 50 mila dinari (42,5 dollari) per le donne che hanno fra i 40 e i 50 anni, a un massimo di 200 mila dinari (cioè 170 dollari) per le bambine da 1 a 9 anni. Le ragazze fra i 10 e i 20 anni costerebbero 150 mila dinari l’una (cioè 127 dollari).
Il costo di una vita
Le cifre, vero o falso che sia il documento, non sono molto diverse da quelle che dichiara la testimone diretta Amina. Le une e le altre appaiono poco più che simboliche. Il che fa pensare che l’esistenza del mercato delle schiave abbia una funzione soprattutto ideologica: le donne fatte prigioniere vengono spartite fra i combattenti come il resto del bottino, in base a pratiche in vigore sin dai tempi delle campagne militari di Maometto e dei suoi compagni e per riaffermare la concezione secondo cui i kaffir, gli infedeli, possono essere legittimamente ridotti in condizioni di schiavitù.
Amina prosegue: «Le ragazze più giovani si ribellavano al loro destino quando veniva annunciata la loro vendita a questo o quell’uomo presente nel salone, e allora venivano picchiate di fronte a tutti per costringerle a sottomettersi e per intimidire le altre. Alla fine della giornata quasi tutte le donne erano state assegnate a un uomo, ma io e mia cugina no. Allora ci hanno detto che saremmo state le serve delle donne combattenti».
La polizia dei terroristi
Amina non sa dare precisazioni, ma probabilmente si tratta della brigata al Khansaa, un’unità tutta femminile dell’Isis a cui sono assegnati compiti di polizia, come quello di perquisire le donne ai posti di blocco (soprattutto per smascherare uomini che si travestono da donne rendendosi irriconoscibili grazie alla velatura integrale) e di imporre il rispetto della normativa islamica sull’abbigliamento. La donna yazida ricorda quei giorni come un incubo: «Ci trattavano con grande disprezzo, ci davano ordini con durezza. Insistevano che avremmo dovuto leggere il Corano e convertirci all’islam. Se entrava un uomo nell’edificio e noi non correvamo a coprirci il volto, gridavano e ci insultavano. Passavamo tutto il tempo a pulire i gabinetti e i pavimenti e a lavare i loro vestiti». L’assortimento delle jihadiste era estremamente vario e sorprendente. «Molte non parlavano arabo o curdo, le due lingue che io comprendo. Le loro apparenze fisiche erano le più diverse: alcune avevano occhi verdi e capelli castani quasi biondi, altre avevano gli occhi come le cinesi e le giapponesi. Di alcune mi dicevano: “sono tedesche”; di altre: “stanno parlando inglese”. Erano un centinaio di donne, forse di più. Dopo poche settimane io e mia cugina non ce la facevamo più, la nostra vita era diventata insopportabile, e allora abbiamo fatto richiesta di essere trasferite ad altre mansioni».
Operazione salvataggio
La richiesta viene accettata, e Amina e la cugina vengono assegnate alla preparazione dei pasti di una mensa per i combattenti. «Ci hanno collocate in una abitazione sorvegliata e ci hanno detto che saremmo rimaste lì fino a quando qualcuno non ci avesse comprate per assegnarci alla servitù della sua casa. Dopo quindici giorni si è presentato un australiano e ci hanno consegnate a lui». Quando arrivano a casa dell’australiano (probabilmente un arabo emigrato in Australia) le due donne hanno la prima sorpresa: l’uomo ha già cinque serve, più giovani di loro, e la moglie di lui che l’ha seguito dall’Australia dà l’impressione di non essere affatto contenta della situazione che si è creata. Costei richiama l’attenzione dei superiori dell’uomo perché lo costringano a rientrare nei ranghi. «I capi gli hanno detto che non poteva avere sette serve, poteva tenerne una sola, e che se voleva avere altre donne in casa doveva sposarle. Gli hanno pure detto che quello era un ordine di al Baghdadi. Allora lui ha cominciato a chiedere a ciascuna di noi di sposarlo. Tutte gli rispondevamo: “Ci devo pensare”».
La moglie dell’australiano appare più gelosa di giorno in giorno, e le yazide prendono il coraggio a due mani: le chiedono di permettere loro di mettersi segretamente in contatto con le famiglie. Dal cellulare della donna partono allora telefonate ai familiari delle due donne rimasti in Iraq, compreso il fratello Sami. Vengono persino inviate foto scattate col cellulare per fugare dubbi sull’origine e il significato delle chiamate. A quel punto scatta l’operazione di salvataggio. I familiari delle due donne contattano un’organizzazione yazida irachena che si occupa della liberazione delle donne rapite dall’Isis. Essa è in contatto con un’organizzazione turca di mediatori specializzati in riscatti che a loro volta hanno antenne in territorio siriano. Un misterioso siriano entra in contatto con la moglie del jihadista e concorda le condizioni per la fuga delle schiave. Una notte, mentre l’uomo è assente da casa per doveri di servizio al fronte, le donne vengono fatte fuggire da Raqqa e trasportate in territorio turco. Da lì raggiungono i familiari rimasti nel Kurdistan iracheno. La loro liberazione costa alla fine 3 mila dollari a testa.
Secondo la Commissione per i diritti umani del parlamento iracheno, alla fine di dicembre 1.597 donne e 1.986 uomini appartenenti alla minoranza yazida risultavano essere ancora nelle mani dello Stato islamico. Un certo numero di loro riesce a comunicare coi parenti grazie alla compiacenza di alcuni carcerieri e di alcune mogli dei jihadisti. I messaggi che trasmettono sono a dir poco raggelanti. «Dite ai piloti degli aerei della coalizione di bombardarci», diceva una delle telefonate ricevute da parenti di sequestrati. «Non riusciamo più a sopportare quello che ci stanno facendo».
Rodolfo Casadei
Tratto da: http://www.tempi.it/
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