«Io non abortirei mai, ma…»

Ci sono molte persone, anche tra i cattolici che, pur essendo convinte che l’aborto sia un male, ritengono in fin dei conti necessaria («una buona legge») la 194/78 perché consente alle «donne disperate» di farlo «in sicurezza». Ci sono validi motivi logici e razionali che possono spiegare perché questo ragionamento è radicalmente sbagliato: la legge 194 è una legge radicalmente malvagia, nonostante quei primi articoli che dicono di voler tutelare la maternità: certo, sarebbe giusto fossero applicati. Ma non lo sono mai stati e da 45 anni stanno lì a confondere e menare per il naso proprio i prolife.




«Io non abortirei mai, ma non posso impedire ad altri di farlo». È una classica obiezione volta a legittimare la 194. Nella maggior parte dei casi la persona che, anche in buona fede, sostiene questo principio arriva ad affermare ciò, seppur spesso in modo inconsapevole, perché costruisce un’analogia con altre condotte: non andrei mai in montagna, ma non posso impedire agli altri di andarci se hanno voglia; non manderei mai mio figlio in una scuola pubblica, ma non posso impedire agli altri di farlo. E così via.

Ora vi sono atti che sono malvagi sempre, comunque e per tutti, al di là dei gusti e delle idee personali. Insegna Giovanni Paolo II: «Esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto» (Reconciliatio et paenitentia, n. 17). Parimenti Tommaso d’Aquino appunta: «Gli atti peccaminosi sono cattivi per se stessi e non possono esser buoni in nessuna maniera, in nessun luogo e in nessun tempo: poiché sono legati per se stessi a un fine cattivo» (Summa Theologiae, II-II, q. 33, a. 2 c.).

Da qui la categoria concettuale degli assoluti morali o dei doveri negativi assoluti o dei mala in secioè degli atti intrinsecamente malvagi. L’assolutezza deriva dal fatto che la malvagità dell’atto risiede nell’oggetto voluto dall’agente, nella natura dell’atto, ossia nel fine prossimo ricercato, e tale malvagità è sganciata – ab-soluta cioè sciolta da – dalle intenzioni perseguite o dalle circostanze in cui si articola l’azione perché non derivante da nessuno di questi due aspetti. In altri termini, un’azione intrinsecamente malvagia rimane tale anche se compiuta per una buona intenzione (rubo ai ricchi per donare ai poveri) o in stato di necessità (ricorro alla fecondazione artificiale perché è l’unica soluzione per avere un figlio). E dunque, per esempio, un atto di pedofilia è malvagio sempre e comunque e questa malvagità riguarda tutti, nessuno escluso. Il divieto di compierli, sotto il profilo morale, è universale e oggettivo. Altro esempio: il divieto di compiere un assassinio deve essere rispettato da ogni persona. E dato che l’aborto è un assassinio – un assassinio prenatale – anche l’aborto rientra nella categoria di quelle azioni che non posso essere mai compiute da nessuno.

Spiegato ciò, chi mai potrebbe dire: «Io non ucciderei mai un innocente, però non posso impedire che altri lo facciano se lo vogliono»? In modo simile sarebbe irragionevole argomentare nel modo seguente: «Io non violenterei mai una donna, però non posso impedire che altri lo facciano se lo vogliono»; «io non abuserei mai di un bambino, però non posso impedire che altri lo facciano se lo vogliono»; «io non picchierei mai una persona di colore o un ebreo per motivi razziali, ma non posso impedire che altri lo facciano se lo vogliono».

Di contro le azioni prima indicate – recarsi in montagna, frequentare una scuola pubblica – non sono azioni intrinsecamente malvagie e quindi non sono colpite da un divieto universale di carattere morale. Devono evitarsi e potrebbero essere lecitamente impedite da altri se, pur essendo in sé buone, nelle circostanze date diventassero nocive, ossia se producessero più effetti negativi di quelli positivi. Per esempio Tizio ha una grave patologia respiratoria e l’altitudine della montagna potrebbe essergli fatale: da evitare per lui quindi di recarsi in montagna.

Però, se osserviamo con attenzione, l’obiezione richiamata in apertura di articolo non riguarda tanto la decisione del singolo di astenersi doverosamente da alcuni atti, bensì la decisione di impedire che altri compiano alcune azioni considerate malvagie. In particolare, l’impedimento richiamato ha natura giuridica: si rifiuta, cioè, che un’azione considerata soggettivamente malvagia venga vietata ad altri a causa di una prescrizione legale.

Prima di tutto domandiamoci: è sempre doveroso impedire un atto malvagio? No, non è sempre doveroso. Impedire un atto malvagio è sì azione in sé buona, ma non sempre doverosa. A volte, è lecito astenersi dal compiere il bene – impedire che Tizio compia il male – per un bene maggiore. Per esempio, Caio, cliente che si trova nei locali di una banca, può lecitamente astenersi dall’impedire che Tizio rapini a mano armata la stessa banca, per ipotesi aggredendolo fisicamente, al fine di tutelare la propria incolumità (troviamo questo principio perfettamente espresso nella parabola della zizzania).

Anche lo Stato può omettere di impedire alcune condotte per un bene maggiore. Si chiama tolleranza giuridica: evitare di sanzionare perché la sanzione provocherebbe più danni che la condotta stessa. Il farmaco sarebbe peggiore del male da curare. Per esempio, nel nostro ordinamento giuridico il tentato suicidio non è reato, proprio perché, anche se l’attentato alla propria vita lede il bene comune, sanzionare con il carcere o con un’ammenda il tentato suicida sarebbe inefficace, non tanto sul profilo retributivo (riparare all’ingiustizia commessa), ma su quello della deterrenza (la prospettiva di finire in carcere se il tentativo di suicidio fallisse consoliderebbe per paradosso l’intento suicidario) e su quello pedagogico (è poco utile se non dannoso incarcerare un depresso).

Vi sono invece condotte che lo Stato deve sempre impedire e per cui non vale il principio di tolleranza e le deve sempre impedire, sia per il tramite della legge sia per il tramite della forza pubblica, perché tali condotte sono distruttive del bene comune che lo Stato è invece chiamato a tutelare e avvalorare. Si tratta di quelle condotte che, generalmente, i codici penali degli Stati qualificano come reati: l’omicidio, il furto, il sequestro di persona, la violenza sessuale, etc. E quindi se il privato cittadino può anche non intervenire per sventare una rapina perché primariamente deve tutelare il suo bene personale, lo Stato all’opposto deve intervenire per sventare una rapina perché primariamente deve tutelare il bene pubblico. In merito all’aborto, allora, lo Stato non solo non dovrebbe riconoscere il diritto all’aborto in capo alle donne, non solo non dovrebbe obbligare i medici a compierlo, non solo non dovrebbe tollerarlo non punendolo, ma dovrebbe vietarlo sanzionandolo proprio perché un omicidio.

Giustificare poi la volontà di non impedire un aborto appellandosi alla libertà individuale è errato. La libertà è autentica solo se connessa con il vero bene della persona («la verità vi farà liberi», Gv 8,32), solo in riferimento alle azioni buone e non a quelle malvagie. Se seguissimo la logica sottesa all’obiezione «io non abortirei mai, ma devo lasciare la libertà di farlo a chi vuole» dovremmo, per coerenza logica, tutelare la libertà di chi vuole stuprare, compiere atti di pedofilia, truffare, etc.

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