Di Cristian Nani, direttore di Porte Aperte in Italia
C’è un mondo più grande là fuori. E c’è una Chiesa più grande là fuori. Per scoprirli bisogna partire.
Gli eroi solitamente per essere tali devono partire, devono lasciare la loro casa, i loro affari e le loro comodità. Immediatamente viene in mente l’esempio di Abramo, chiamato da Dio ad andarsene dal suo paese, dai suoi affetti, per dirigersi verso un “paese che io ti mostrerò” dice il Signore (Gen 12:1). Maria e Giuseppe furono costretti (da un censimento) a lasciare Nazaret per andare a Betlemme, proprio mentre Maria era prossima a dare alla luce il nostro bambino. E non molto dopo la nascita, furono costretti a fuggire in Egitto, per evitare la strage di innocenti. E che dire di Gesù, Pietro, Paolo e molti altri ancora.
Ma l’intera letteratura umana trabocca di questi archetipi: l’eroe parte verso l’ignoto. Generalmente non lasciamo casa volentieri, tanto meno se diretti verso l’ignoto: spesso sono circostanze, naufragi, una qualche forma di sofferenza a farci partire. La nostra vita biologica, una meraviglia secondo il salmista, prende forma nel grembo di una madre e sin da subito siamo costretti a una partenza. Si chiama parto proprio perché si parte, si lascia un luogo caldo e accogliente e ci si trova lanciati nell’ignoto, divisi dalla madre. Saranno necessarie addirittura delle forbici per tagliare ciò che ci unisce alla nostra sicurezza più grande, la nostra mamma. Tutto comincia, quindi, con una paura, una sofferenza e un salto verso l’ignoto. Eppure, stiamo nascendo! Quel distacco è essenziale per la riuscita dell’esistenza. Così come sarà essenziale ricostruire una dimora per dare nuova forma a quell’esistenza. C’era un ordine, attraversiamo un disordine, per costruire un nuovo ordine.
Ordine, disordine e riordino non sono dinamiche esclusive dell’eroe, lo sono di ogni essere umano e questo il discepolo di Cristo lo deve sapere. Deve sapere che il suo pellegrinaggio su questa terra richiederà partenze e ignoto e che dovrà costruire ancora e ancora, e poi dare alla luce e lasciare in eredità. E tutto questo confidando in Colui che lo ha chiamato alla vita e mandato nel mondo.
Nella Chiesa perseguitata troviamo molte sorelle che attraversano queste fasi del discepolo in maniera violenta: la persecuzione è un propellente delle partenze, dell’ignoto, in una parola del disordine. E assistiamo ogni giorno a una marea di queste madri e figlie che, confidando in Dio, partono, affrontano l’ignoto e private della sicurezza terrena ricostruiscono dimore per se stesse, per i loro figli, per i loro amati.
Le vediamo ricostruire operose nei campi profughi in Africa Subsahariana, fuggite dalla violenza islamica; nei villaggi in Asia Centrale, stoiche di fronte al rifiuto della società; nelle chiese in Medio Oriente, instancabili nel dare soccorso al prossimo; nelle carceri iraniane, combattenti per la libertà di fede; negli attacchi in India, pronte a immolarsi come scudi per i loro cari; negli incontri segreti, sussurrare canti di giubilo al loro Signore.
E le vediamo anche piangere per lutti troppo grandi, implorare per soccorsi impossibili, spezzarsi per pesi insopportabili.
Hanno bisogno di noi, della loro famiglia in Cristo, nel loro pellegrinaggio. E noi di loro per non dimenticare il nostro di pellegrinaggio.
Sono persone comuni. Sono insicure. Sono eroine. Sono le nostre sorelle.
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