Ovviamente sappiamo tutti che Saddam Hussein non venne abbattuto (e che l’Iraq non venne invaso) per aver impiccato o sterminato con gas letali i curdi. Tantomeno per la guerra con l’Iran durante la quale godeva del sostegno statunitense.
Tuttavia si rimane perplessi quando altri popoli oppressi talvolta lo ricordano ancora – questo macellaio – un campione dell’antimperialismo. “Contraddizioni in seno ai popoli” verrebbe da dire.
Oggi 12 maggio, cade il 49° anniversario dell’impiccagione di Leyla Qasim e di altri quattro compagni curdi: Jawad Hamawandi, Nariman Fuad Masti, Hassan Hama Rashid e Azad Sleman Miran.
Nella memoria della Resistenza curda il nome della giovane militante femminista assassinata a soli 22 anni rimane ancora integro. Un esempio perenne come quelli di Sakine Cansiz, Zarife Xatun, Hevrin Khalaf … i cui ritratti campeggiano sui muri di tante abitazioni curde e nei luoghi pubblici del Kurdistan (dove questo è possibile ovviamente).
Leyla era nata nel 1952 a Xanequin (Kurdistan del Sud, in territorio iracheno) da Dalaho Qasim e Kanî, poveri contadini che avevano altri cinque figli. Con suo fratello Chiyako aveva appreso l’arabo dalla madre.
Nel 1971 si era iscritta alla facoltà di sociologia di Bagdad e qui aveva contribuito alla costituzione di un sindacato degli studenti militando sia per i diritti delle donne sia per la causa curda.
Già alla fine degli anni sessanta, insieme al fratello, aveva scritto e diffuso alcuni opuscoli contro la politica del partito Baas (in particolare contro le torture e la repressione della popolazione curda). Il suo arresto per “separatismo” rientrava in una vasta operazione condotta dall’esercito iracheno e in carcere venne torturata, sottoposta a trattamenti disumani.
Si ritiene sia stata la prima donna giustiziata in Iraq e forse la quarta prigioniera politica nel mondo a venire impiccata. Soprannominata “la Sposa del Kurdistan”, per ricordarla vennero scritti poemi, canzoni e in suo onore eretta una statua a Erbil.
Ancora oggi quel nome viene donato a migliaia di bambine nate in Kurdistan. Non è quindi casuale se centinaia di “Leyla”, combattenti e militanti della Resistenza curda, stanno ora lottando sia in Royava che in Bakur o Rojhilat.
Gianni Sartori
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