La parola “ospitalità” sembra offrire spunti di riflessione particolarmente appropriati nel contesto in cui ci troviamo a vivere, dove le parole utilizzate nei confronti dello straniero sono più spesso legate a un’idea di negazione, rifiuto, respingimento, da una parte, o accoglienza, solidarietà, primo soccorso, dall’altra. La legge dell’ospitalità ci impone un cambiamento radicale di paradigma, che ci porta a considerare le relazioni interculturali come movimenti reciproci e bidirezionali. Solo in questo modo, è possibile costruire una “dimora” dove cittadini presenti qui da generazioni, cittadini di recente acquisizione, così come “ultimi arrivati”, possano sentirsi pienamente riconosciuti.Una società che non diviene dimora per tutti è infatti costantemente aperta al rischio del non riconoscimento delle sue componenti minoritarie, fino a episodi di discriminazione ed esclusione: sono molti quelli che subiscono la costrizione dell’esilio.
È soltanto apparentemente lontano il tempo in cui, nel 1938, Martin Buber (grande pensatore ebreo-tedesco, 1878-1965) intraprendeva un viaggio, non certo di sua volontà, costretto com’era a fuggire dal Nazismo. E, nella precarietà di quella situazione scriveva: “Viviamo un’epoca ‘senza casa’, siamo perduti ‘in aperta campagna’ e non possediamo neppure quattro picchetti per innalzare una tenda”( Il problema dell’uomo).
Era, evidentemente, una metafora: la dimora di cui denunciava la mancanza non era certo una casa fatta di muri e stanze, non alludeva neppure a quella suggestiva dimora che, come una tenda, può essere messa in uno zaino come equipaggiamento essenziale nelle escursioni giovanili. Buber si riferiva ad una dimora più intima, più essenziale e urgente: a quella dimora esistenziale, ontologica, che per lui è l’Io-Tu, l’incontro autentico, il dialogo che chiama ciascuno ad uscire dalla nicchia dell’autocentramento, dove la parola è monologo, pensiero unico, o dall’anonima indifferenza di una collettività omogeneizzante, dove la parola è “chiacchiera”, cacofonia, è vuota, è morta. La “dimora”, insomma, è il dialogo ospitale, l’incontro che permette di oltrepassare il regno della cosalità, dell’Esso (dove l’altro è un “qualcosa”) per varcare la soglia del Tu (del Tu “riconosciuto”, con la misteriosa grandezza che lo costituisce). Appare attuale, forse più che nei suoi anni, la denuncia di Buber.
Oggi le escursioni dell’io – in crociera o in gommone in mari poco ospitali, nelle strade luccicanti delle nostre città o nelle periferie degradate che proliferano a tutte le latitudini – alla fin fine attenuano quasi sempre, o fanno naufragare, le nostre presunzioni, e ci riportano all’orfanezza di fondo dell’essere – nonostante tutto – “senza casa”.
O richiamano ad una casa angusta, del tutto inadatta alle esigenze reali dell’abitare. A volte, come denuncia Bauman, ci rintaniamo nel chiuso delle nostre paure, e – spinti dalla crescente “Building Paranoia”( Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone). (Paranoia del costruire muri) – innalziamo attorno alle nostre case, attorno ai nostri quartieri o alla nostra “civiltà” una serie infinita di recinzioni, di separatori sociali, di strumenti di interdizione che – elementi portanti di una cultura dell’apartheid – impediscono all’altro di valicare i nostri confini e di avvicinarsi alle nostre abitazioni. Questi bunker dell’io, queste nicchie culturali iperprotette da sofisticati sistemi d’allarme, non sono certo la “dimora” intesa da Martin Buber. In esse, l’essere umano (individuale e collettivo) spesso tradisce se stesso, contraddice il compito di migliorare, di diventare più grande, di “oltrepassarsi” veramente, andando oltre i confini ristretti per avvicinarsi ad altri fini.
Tutt’altro che facile e scontata, la dinamica dell’ospitalità chiama in causa un’arte complessa che si articola attorno a più movimenti: l’arte di allestire un luogo abitabile, l’arte di invitare, l’arte di andare a trovare e infine l’arte di sostare. Affrontando e superando, in ogni fase, contraddizioni e paradossi.
L’arte di allestire un luogo abitabile
Per ospitare ci vuole una casa. L’uomo è chiamato ad un rapporto creativo con lo spazio, per fletterlo umanizzandolo e rendendolo luogo abitabile. Martin Heidegger – similmente a Buber – afferma che l’uomo è in quanto abita. Il suo modo di esistere nel mondo si esplica nella forma dell’abitare, nell’ospitare un luogo e nel farsi da esso ospitare. Un luogo è ospitale, e ospita, se è amato, rispettato. Se, come sollecita la Genesi, esso è un giardino affidato all’uomo perché lo coltivi e lo custodisca. Non è facile, oggi, coltivare e custodire in modo coerente ed equilibrato.
Spesso le case – ma anche le città – sono ridotte a “tane” inabitabili, anguste all’interno e inaccessibili dall’esterno. Spesso sono spazi senza il respiro dell’umanità, veri e propri non-luoghi (M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità), edificati e “coltivati” con l’unica preoccupazione del business, del mercato, del consumismo. Spazi di un correre senza incontro, del tutto aperti e senza i limiti dati dalla presenza di elementi vitali. Bauman spiega il vivere in questi non-luoghi sostenendo che “si pattina sul ghiaccio sottile”: soltanto la velocità consente di non sprofondare! Non basta il coltivare per produrre – costruendo in fondo una babele senz’anima: è necessario, invece, “coltivare per custodire” (“essere custode di”).
Spetta a ciascuno di noi, allora, scoprire la giusta misura dell’abitare autentico, umanizzando gli spazi per renderli “dimore”, agorà, piazze, comunità – capaci di essere ospitati e di ospitare.
L’uomo è perciò questa capacità di ospitare un luogo, amandolo, per farsi ospitare da esso e per renderlo ospitale per gli altri. Ed è l’uomo stesso, in questo modo, che trova la sua collocazione autentica, proprio perché riconosce la propria mappa esistenziale in questo abitare un luogo aprendolo all’abitabilità altrui. Facendosi, perciò, abitato dall’altro.
La prima domanda della Bibbia, “Dove sei Adamo?”, chiede all’uomo di esserci, di non nascondersi, di rapportarsi perciò coerentemente con se stesso e con gli altri, manifestandosi perciò con “sincerità” e autenticità, senza occultamenti e distorsioni identitarie. Gli chiede, in altre parole, di aver luogo, di assumere una posizione rispetto al mondo, evitando di trasformarlo in un nascondiglio, in una tana, in una casa blindata e, nel contempo, di sottrargli la specifica dimensione di custodia, di intimità che come dimora autentica deve conservare.
Si tratta, insomma, di un equilibrio complesso, di una giusta misura tra la “monade senza porte e senza finestre” e la “terra di nessuno”, per sfuggire sia alla trappola identitaria dell’autocentramento solipsistico sia quella dell’allocentrismo banalizzante.
Non è semplice, in questa prospettiva, intendere nel giusto modo il concetto di “ospitalità assoluta” che propone Derrida (Sull’ospitalità). Significa aprire incondizionatamente le proprie porte, rendere assoluta l’accessibilità alla propria dimora? Va pertanto individuata con intelligente sapienza la discriminante tra luogo e non-luogo, tra vera ospitalità e anonima indifferenza. Probabilmente la soluzione va rintracciata nell’Io-Tu, nella reciprocità che impedisce all’Io e al Tu, proprio nel riconoscimento dell’Assolutezza del Tu, di porsi come assoluti per assumere perciò la giusta posizione dello “stare di fronte”, del “rispetto”.
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