Il tempo sospeso

shatila229A 33 anni dal massacro di Sabra e Shatila, le condizioni del campo palestinese di Beirut sono sempre più difficili: sovraffollamento, malattie e violenza, a cui si aggiunge il rischio di chiusura delle scuole.

Shatila è piena di uccellini. Canarini, piccoli pappagalli verdi fanno sentire il loro canto per le vie strette del campo, fra i rifiuti, l’acqua stagnante e i bambini che giocano. Chiusi in gabbie piccolissime, stanno sospesi dentro le stanze senza finestre dei profughi siriani, arrivati fin qui da Yarmouk, periferia di Damasco, o da altre regioni devastate dalla guerra. I palestinesi hanno fatto loro spazio, se così si può dire, lasciando che i palazzi crescessero in altezza, fino al punto da oscurare il sole e togliere la luce a chi vive ai piani inferiori. Sono 25mila gli abitanti del campo profughi oggi, 7 mila i siriani, che si vanno ad aggiungere ai diecimila sfollati dai campi libanesi ormai chiusi di Tall El-Zaatar e Nabatyyeh, e agli iracheni fuggiti dalla guerra del ’91. Un chilometro quadrato di densità umana senza acqua corrente, spesso senza elettricità, senza servizi.

Shatila, da quando è stata costruita alla periferia di Beirut, dopo la fondazione dello Stato di Israele nel ’48 e il conseguente esodo di palestinesi – 700mila arabi palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, in una diaspora drammatica che interessò i Paesi vicini, fra cui appunto il Libano – è stata distrutta sette volte fra guerre civili, scontri fra fazioni politiche e religiose e vere e proprie spedizioni punitive. L’episodio più grave è l’eccidio compiuto dalle Falangi cristiane libanesi e dall’esercito israeliano 33 anni fa, dal 16 al 18 settembre 1982. Due giorni in cui vennero sterminati senza pietà uomini, donne e bambini nel campo profughi di Shatila e nel quartiere adiacente di Sabra, compiuto nonostante l’assicurazione avuta dal primo ministro israeliano Begin e dal futuro presidente libanese Gemayel che, in cambio della partenza dei guerriglieri dell’Olp, i soldati non avrebbero toccato i civili palestinesi. Neanche la forza internazionale di interposizione, garantita dagli Stati Uniti servì, invece, a fermare il massacro: furono 4mila i morti e Shatila venne quasi completamente rasa al suolo.

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Anche la casa di Jamile Shehade è stata abbattuta, e non era la prima volta. Lei è sopravvissuta ma non è se n’è andata: oggi è responsabile del Centro educativo Beit Atfal Assumoud di Shatila, che organizza diverse attività per i bambini del campo, dall’asilo per i piccoli a teatro, musica e biblioteca per i più grandi, offrendo anche la possibilità di un controllo medico e dentistico gratuiti. Sono più di mille a passare sulle strette scale del palazzo del centro e la porta è sempre aperta: «Palestinesi, libanesi, siriani, musulmani o cristiani, a noi non importa – dice Jamile – noi abbiamo rispetto per tutti». La luce va e viene, come dappertutto a Beirut, ma qui il buio dura di più. «Dopo il massacro non c’era più un uomo in tutta Shatila – ricorda – erano tutti morti o in prigione. Il campo lo hanno ricostruito le donne, gli anziani e i bambini, con l’aiuto dell’Unrwa e della Croce Rossa». «Non c’è acqua potabile e nemmeno un’area verde in tutta Shatila dal 1982. Quando ero bambina io eravamo 4mila nel campo: non avevamo niente ma c’era almeno lo spazio per giocare. Ci conoscevamo tutti e sopravvivevamo grazie al supporto reciproco», aggiunge. Jamile è nata qui, i suoi nonni sono arrivati dopo il ’48 e all’inizio hanno vissuto sotto una tenda. Non ha mai vissuto altrove, ma questo non è il suo Paese. La terra è la Palestina. «Ormai i primi profughi sono quasi tutti morti, noi siamo la seconda generazione e abbiamo la responsabilità di trasmettere la memoria ai più giovani».

L’incertezza del futuro, però, è fortissima. Quest’anno, ai problemi cronici del campo – dal sovraffollamento, alle malattie endemiche, dalla droga alla violenza e alla mancanza di lavoro – si aggiunge la preoccupazione per la possibile chiusura delle scuole. L’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che cerca di garantire condizioni dignitose di vita ai cinque milioni di rifugiati palestinesi in Medio Oriente, sta attraversando una grave crisi finanziaria, che rischia di mettere in discussione il suo impegno per l’istruzione dei ragazzi palestinesi della diaspora. «Sono 700 le scuole a rischio chiusura – dice Kassem Aina, direttore generale dell’Istituto Beit Atfal Assumoud – questo significherebbe 21mila persone senza lavoro e soprattutto otto milioni di ragazzi senza diritto allo studio, consegnati alla strada e quindi alle mafie e all’Isis». Un problema drammatico, soprattutto in Libano dove i palestinesi non hanno accesso ai diritti di base, essendo apolidi: non possono (e non vogliono) diventare libanesi ma non sono considerati nemmeno cittadini di un altro stato, quindi non possono essere equiparati a rifugiati di altri paesi. Anche se studiano, non hanno diritto a un lavoro che richieda competenze, perché possono svolgere soltanto mansioni umili, non possono comprare una casa, ma soltanto affittarla.

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Non hanno modo, salvo eccezioni, di uscire dal Libano. Sono, in pratica, prigionieri senza diritti in una terra che non li vuole. «La crisi dell’Unrwa e il taglio dei fondi sono un problema politico, non soltanto finanziario», commenta Kassem Aina. Per ora, grazie a donazioni internazionali, l’anno scolastico è cominciato ugualmente. «Ma non sappiamo quanto durerà», dice Aina. Sul ruolo delle fedi nelle dinamiche sociali, Aina non ha dubbi: «noi siamo apolitici e laici – taglia corto – le religioni diventano un business e non ci interessano, sono una faccenda da ricchi».

L’emergenza istruzione ha coinvolto anche i bambini, che hanno fatto una manifestazione nel campo per protestare contro la possibile chiusura delle scuole: «Molti dei nostri ragazzi e ragazze sono bravissimi ma spesso smettono di studiare perché la famiglia ha bisogno che portino soldi a casa», dice Jamile. «Ogni volta che accade ho paura», confessa.

Bisogna essere forti per vivere qui, aggiunge poi, quasi sottovoce, senza smettere il sorriso. Lo stesso che incontri nelle bambine e nelle madri siriane che ti invitano ad entrare in casa – una stanza, una finestra oscurata, poche cose in un angolo – per offrirti i biscotti appena fatti mentre ne racconti ripercorrono la strada fatta per arrivare qui, per togliersi dalle bombe di Assad e provare a ricominciare, in un appartamento da condividere in due famiglie, 300 dollari per 15 metri quadri. E’ un incrocio di nostalgie, Shatila, un occhio sempre attento a dove si va, ai rapporti di potere, alle alleanze. Bisogna essere forti per vivere qui, in un limbo perenne, e resistere alla nostalgia di un Paese mai visto, di cui sai a memoria le canzoni da quando hai cominciato a parlare e in cui speri continuamente di tornare.

«Se chiudo gli occhi posso vedere il mio villaggio, vicino ad Haifa – confessa Jamile – per me è il paradiso. Ho sentito talmente tante volte le storie dei mei nonni che ormai mi sembra di esserci stata».

Foto: Stefano Stranges

Federica Tourn | Riforma.it

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