Il Servizio Civile è un gioiello: non usiamolo per fermare la porta

Aumentano le richieste di partecipazione al Scn. Palazzini, Cnesc: «Il nodo è l’appoggio dello Stato, le richieste sono sempre state maggiori dei posti disponibili».

Negli ultimi anni, gli iscritti al Servizio Civile nel nostro Paese sono aumentati in modo notevole: da 15 mila nel 2014 a quasi 50 mila nel 2016. Da qualche giorno se ne parla nuovamente in relazione al fatto che questo aumento potrebbe essere portato dall’alternativa che il servizio offre all’assenza di lavoro. Sappiamo però che questa attività, utile per il paese e per chi vi partecipa, non ha la funzione principale di colmare la disoccupazione giovanile in Italia, ma piuttosto di offrire ai giovani la possibilità di servire il proprio Paese in modo non violento e imparare aiutando gli altri. Resta il fatto che i numeri sono aumentati e, secondo Licio Palazzini, presidente del Cnesc, la Conferenza Nazionale Enti Servizio Civile, si deve principalmente ai maggiori investimenti da parte dello Stato.

La notizia dell’aumento è positiva? Può essere un rimedio contro la disoccupazione?

«La notizia è sicuramente positiva, prima di tutto perché lo Stato italiano ha ripreso a investire sul Servizio Civile, perché tutto dipende da questo. Le risorse pubbliche hanno permesso di aumentare da 15 mila opportunità a quasi 50 mila nel 2016, un dato che credo si confermerà nel 2017. La risposta dei giovani, però, è sempre stata superiore al numero di posti disponibili. Guardando alla serie storica si parla di 400 mila posti finanziati a fronte di un milione di domande. Dal 2001 c’è sempre stata questa esuberanza di richieste. Sul perché i giovani facciano domanda, è indubbio che la progressiva riduzione di politiche pubbliche pro-giovani abbia ristretto al Servizio Civile praticamente l’unica politica pubblica giovanile. Questo, sommato alla crisi, ha fatto sì che la prima motivazione di alcuni giovani sia quella economica. Il passaggio successivo però, dopo che i giovani sono entrati in servizio, è quello in cui capiscono che si impara a conoscere se stessi, a fare delle cose che prima non si sapevano fare, a conoscere il territorio intorno a loro. L’aumento degli investimenti è una buona notizia, ma come organizzazioni vorremmo essere sostenuti un po’ di più dalle istituzioni in termini del messaggio che viene passato».

In che modo?

«Se il messaggio che arriva dalle istituzioni è quello di un avvicinamento costante del servizio alla parola “lavoro”, il messaggio che ricevono le organizzazioni è quello di partecipare a una politica pubblica per il lavoro; se invece cominciassero ad arrivare messaggi che stanno già nella riforma del Servizio Civile universale (“attività funzionali a partecipare alla difesa civile non armata della patria e a promuovere il dovere di partecipazione dei giovani alla vita sociale”) allora anche le organizzazioni si confronterebbero con questo input».

Alcuni giovani continuano l’esperienza trasformandola in lavorativa: un cambiamento interessante…

«Si, lo è, ma anche qui se lo si definisce come risultato nelle politiche del lavoro, non ci convince; ma se lo si iscrive nell’attuazione dell’obiettivo di promuovere la partecipazione civica dei giovani finito l’anno di servizio civile, allora si sta realizzando la legge. È vero che un anno di buona esperienza di Servizio Civile nella persona che l’ha fatto si traduce in una motivazione molto più forte a continuare a impegnarsi per gli altri, lavorando e dando del tempo extra per la vita sociale, oppure verificando con l’organizzazione la possibilità di continuare in un ruolo diverso. È importante che le istituzioni diano attuazione a quella parte della Legge 64 che parla delle competenze acquisite dai giovani: competenze pratiche, civiche e di lettura dei processi di questa società. Sono anni che chiediamo che questa disposizione sia messa in pratica, ma fino ad ora siamo incappati nella disfida tra Stato e regioni su chi sia competente in cosa e sul fatto che ogni regione abbia il suo sistema di certificazione delle competenze. Un sistema arcaico che danneggia i giovani e il nostro lavoro, perché non riconosce il capitale sociale che trasferiamo ai giovani durante l’anno di Servizio Civile».

Insomma, si ha un gioiello e lo si usa come fermaporta. Qual è la soluzione pratica?

«Sono d’accordo con la metafora e una volta tanto la scelta dello stato non è economica, ma politica, quindi basta risolvere un punto. Se il Servizio Civile è nazionale, tutti i giovani che partecipano hanno diritto a veder valorizzare la loro esperienza. Se con il sistema delle regioni questo non è possibile, si attivi uno strumento nazionale specifico per il Servizio Civile che faccia venir fuori il capitale sociale che si produce. Gli strumenti ci sono, come organizzazioni siamo già pronti a formare i nostri quadri per questi obiettivi, ma la scelta è politica».

Immagine: via Pixabay

di Matteo De Fazio | Riforma.it

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