Instabilità, terrorismo islamico, disoccupazione, guerre e bombardamenti. Ecco a cosa hanno portato le “rivoluzioni democratiche” della mezzaluna araba.
Si dice che nel 1971, quando Henry Kissinger volò segretamente in Cina per preparare il terreno al famoso incontro dell’anno successivo tra il presidente Nixon e il “Grande timoniere” Mao Zedong, il diplomatico americano chiese al premier comunista Zhou Enlai che cosa pensasse della Rivoluzione francese. Nonostante fossero passati quasi 200 anni dal 1789, Zhou rispose: «È troppo presto per dirlo». Al di là della furbizia tutta cinese nell’aggirare domande insidiose, spesso mascherata da saggezza, l’aforisma ha un fondo di verità: gli eventi storici richiedono tempo prima di poter essere giudicati in modo definitivo. La Primavera araba, esplosa il 17 dicembre 2010 dopo che il tunisino Mohamed Bouazizi si era dato fuoco per chiedere dignità e protestare contro il regime di Ben Ali, è stata troppo presto salutata da un euforico Occidente come un unico grande movimento di liberazione. Oggi come allora la parola “fine” deve ancora essere scritta sulle rivolte che hanno sconvolto il mondo arabo, ma a cinque anni di distanza (è nel 2011 infatti che l’incendio si è propagato) si può fare un quadro della loro evoluzione: democrazia instabile in Tunisia, ritorno parziale all’autoritarismo in Egitto, guerra sanguinaria in Yemen, 250 mila morti in Siria, caos totale in Libia e proliferazione dovunque di attentati e minacce jihadiste.
La delusione della Tunisia
Quest’anno l’anniversario della cacciata di Ben Ali, fuggito il 14 gennaio 2011 dopo 23 anni di tirannia, non è stato salutato con entusiasmo. Dalla città di Kasserine sono partite proteste di centinaia di giovani per invocare giustizia e lavoro. Uno dei grandi mali della Tunisia sotto il regime era proprio la disoccupazione. Oggi, secondo il viceministro delle Finanze, Boutheina Ben Yaghlane, il 15 per cento della popolazione non ha un lavoro, cifra che sale al 31,4 per cento se si considerano solo i giovani. La crescita economica nel 2015 è rimasta sotto l’1 per cento e le previsioni per il 2016 non fanno ben sperare.
Dal punto di vista democratico il paese ha fatto passi da gigante, come testimonia anche il premio Nobel per la pace assegnato al “National Dialogue Quartet” tunisino. Il paese è riuscito ad approvare una nuova Costituzione e a eleggere in modo democratico un parlamento. L’ultimo voto ha consegnato la maggioranza al partito laico di sinistra Nidaa Tounes, che ha sconfitto gli islamisti di Ennahda. I dissidi interni alla coalizione di governo di unità nazionale però hanno già causato un piccolo terremoto e in parlamento, dopo alcuni cambi di casacca, la maggioranza relativa è tornata a Ennahda.
Il principale problema della Tunisia, dopo l’economia, resta il terrorismo islamico. Il governo sta cercando in ogni modo di controllare e chiudere le moschee estremiste, un migliaio circa su oltre cinquemila, ma queste continuano a proliferare. Più di 5.500 tunisini sono partiti alla volta della Siria per unirsi all’Isis e 500 sono tornati. I reclutatori, secondo alcuni giornali locali, sono dappertutto e guadagnano tra i 2.700 e i 9.000 euro per ogni nuovo adepto. I disoccupati che si fanno tentare sono tanti. Il turismo, che rappresenta il 14,5 per cento del Pil, è in forte crisi dopo le stragi compiute dallo Stato islamico l’anno scorso. Il 26 giugno, 38 turisti sono stati massacrati a Sousse da un tunisino affiliato all’Isis; tre mesi prima, il 18 marzo, lo Stato islamico aveva assaltato il museo del Bardo, uccidendo 22 persone, tra cui 21 turisti. Mohamed Masmoudi, una guida di Tunisi, ha detto alla Bbc: «Dall’attacco di Sousse, almeno per quello che vedo io, il turismo in Tunisia è morto. È completamente morto».
La delusione per una rivoluzione che non ha portato i vantaggi sperati tocca tutti. Anche un eroe come Hosni Kaliya, l’uomo che si è dato fuoco poco dopo il venditore ambulante Bouazizi e che insieme a lui ha fatto partire le proteste. Kaliya è sopravvissuto ma oggi confida: «È stato uno sbaglio, non sapevo che cosa sarebbe successo. Ma non credo più nella rivoluzione». Suo fratello si è dato fuoco l’anno scorso per la mancanza di lavoro. Ed è morto. Il sentimento di tanti tunisini è espresso bene dalla madre: «Io maledico questa rivoluzione, rivoglio indietro mio figlio. Sempre più persone moriranno, sempre più persone combatteranno e si daranno fuoco. Non c’è futuro».
Egitto rewind
In piazza Tahrir, luogo simbolo della Primavera araba, c’è stato poco movimento quest’anno. E anche chi avrebbe voluto festeggiare l’inizio delle proteste contro il dittatore Hosni Mubarak (25 gennaio), costretto a lasciare il potere l’11 febbraio 2011, è stato invece consigliato dal governo a inneggiare alla polizia, della quale lo stesso giorno ricorre la Festa nazionale. Al Cairo si è da poco insediato il nuovo parlamento, regolarmente eletto tra il 2015 e il 2016, ma l’entusiasmo è ai minimi storici. Come prima cosa, l’assemblea ha ratificato la criticata legge antiterrorismo voluta dal nuovo presidente Abdel Fattah al-Sisi, che secondo l’opposizione concede troppi poteri alle Corti militari, restringendo libertà di stampa e di manifestazione. Le esigenze della sicurezza, soprattutto davanti agli attentati dell’Isis, mal si conciliano con gli spiriti rivoluzionari. L’ex generale Al-Sisi ha deposto manu militari il presidente dei Fratelli Musulmani, Mohamed Morsi, nel 2013. Nel 2014 è stato democraticamente eletto con il 98 per cento delle preferenze (ma con affluenza molto bassa) promettendo sicurezza e lavoro.
Gli importanti appoggi internazionali (Arabia Saudita su tutti) e i primi passi nella riforma dei sussidi, invocata da anni dal Fondo monetario internazionale come prerequisito indispensabile per risollevare il paese, non sono serviti a fare il balzo in avanti sperato dagli egiziani. Se prima della rivoluzione l’economia cresceva anche del 7 per cento, oggi è ferma al 2-3 per cento. La lira egiziana ha perso moltissimo rispetto al dollaro e le riserve di valuta straniera sono passate da 11,6 miliardi (2007) a 4,8 miliardi. A causa della corruzione, sotto Mubarak il 25 per cento della popolazione viveva sotto la soglia della povertà e la disoccupazione era alta, ma a cinque anni dalla rivoluzione il 40 per cento dei giovani resta senza un lavoro. Alaa Abdel Fattah, rivoluzionario della prima ora, sta scontando cinque anni in carcere per aver protestato contro il governo. Sotto Mubarak forse gliene avrebbero dati di più, ma è una magra consolazione. Alle domande del Guardian taglia corto: «Non ho niente da dire: nessuna speranza, nessun sogno, nessuna paura, nessun avvertimento, nessun pensiero, niente, assolutamente niente».
I cristiani copti tendono di più a vedere i lati positivi di un governo forte: Al-Sisi, fervente musulmano, ha impedito ai Fratelli Musulmani di instaurare un Califfato e li ha dichiarati organizzazione terrorista, ha concesso più libertà religiosa, come dimostrano le norme semplificate per edificare nuove chiese, e ha saputo accattivarsi il favore della minoranza recandosi nella cattedrale del Cairo per la Messa di Natale, evento unico nella storia del paese. Inoltre ha promesso di pagare i 20 milioni di euro necessari alla ricostruzione delle oltre 60 chiese bruciate dalla Fratellanza nel 2013. Resta il problema degli attentati a sfondo religioso, che nonostante le promesse non sono diminuiti.
La recessione record della Libia
“Libia, conto alla rovescia per l’intervento militare Nato”. Bastano i titoli dei giornali per capire che dopo l’uccisione del rais Muammar Gheddafi, avvenuta il 20 ottobre 2011 dopo mesi di guerriglia, il paese nordafricano a poche centinaia di miglia nautiche dall’Italia è cambiato in peggio. Tanto che si torna a parlare di intervento armato. Nel paese liberato dal sanguinario dittatore regna il caos più totale: il governo riconosciuto dalla comunità internazionale si trova nell’est del paese, a Tobruk, mentre nella capitale Tripoli è insediato un governo protetto dagli islamisti di Alba Libica. Spezzettata tra tante tribù e centinaia di milizie, la Libia è diventata il territorio ideale per una nuova succursale del Califfato. Lo Stato islamico ha conquistato le città di Sirte, Harawa, Nawfaliyah, Bin Jawad, vicine ai porti petroliferi orientali, e sta cercando di occupare la zona a ovest della capitale dove si estrae il greggio (e dove si trova anche l’Eni). Unione Europea e Onu, per non prestare il fianco alla propaganda dell’Isis e per non ripetere gli errori del 2011, hanno puntato tutto sulla creazione di un governo di unità nazionale. Una volta insediato, dovrebbe essere questo a chiedere l’aiuto militare della comunità internazionale per sconfiggere i jihadisti, per evitare la retorica dell’invasione occidentale. Dopo oltre un anno di colloqui in Libia è effettivamente nato un governo di unità nazionale, guidato dal premier Fayez al-Sarraj, ma il parlamento di Tobruk non l’ha riconosciuto. Inoltre, le milizie jihadiste hanno giurato di non fare entrare i ministri a Tripoli.
A causa dell’instabilità e della guerra che si combatte a pezzi in tutto il paese, la Libia ha già perso almeno 70 miliardi di dollari in mancati proventi dal petrolio: nel 2011, prima della rivoluzione, estraeva 1,61 milioni di barili al giorno; oggi la produzione è crollata a un livello inferiore ai 400 mila barili, mentre il dinaro libico ha perso il 60 per cento del suo valore negli ultimi 18 mesi. Secondo una previsione dell’Economist Intelligence Unit, il Pil crollerà di almeno 8 punti percentuali nel 2016, facendo registrare così la peggior performance economica del mondo.
Bombe saudite sullo Yemen
Non c’è nessun anniversario da festeggiare neanche in Yemen. Il paese più povero della penisola arabica viene bombardato ininterrottamente da aprile dalla coalizione sunnita guidata dai sauditi e ottomila morti in dieci mesi non sono certo qualcosa di cui gioire. Se nel 2011, dopo le proteste di piazza, il rais Saleh ha ceduto il potere che deteneva da 33 anni al suo vice Abdrabuh Mansur Hadi, questi all’inizio del 2015 ha dovuto abbandonare la capitale Sana’a dopo le rivolte dei ribelli sciiti Houthi, che da anni reclamano più peso nelle istituzioni. Temendo che il paese finisse in mano agli sciiti, magari aiutati dall’arcinemico Iran, l’Arabia Saudita lo ha invaso. L’ascesa dei ribelli è stata fermata, ma i combattimenti hanno favorito l’avanzata di Al-Qaeda e Isis, che oltre a controllare gran parte della seconda città più importante del paese, Aden, nuova sede del governo, si sono anche impadroniti di Mukalla, quarta città più importante nel sud nel paese.
L’Onu ha più volte denunciato i crimini contro l’umanità che stanno avvenendo in Yemen, dal momento che le bombe saudite colpiscono spesso obiettivi civili, «inclusi campi per rifugiati; raduni come matrimoni; fermate dell’autobus; aree residenziali; strutture mediche; scuole; moschee; mercati, fabbriche e magazzini». Anche una delle quattro chiese del paese è stata prima colpita dalle bombe di Riyadh e poi fatta saltare in aria dai jihadisti. Più volte membri dell’Onu hanno cercato di nominare una commissione di inchiesta per verificare i crimini contro l’umanità ma l’Arabia Saudita, dal 2015 a capo del Consiglio per i diritti umani dell’Onu, ha sempre fatto cadere nel vuoto la proposta.
La Siria smembrata
Un paese smembrato e senza più confini, i cui cieli vengono attraversati da caccia di decine di nazionalità diverse, occupato in parte da un gruppo jihadista che pubblica su internet un giorno sì e l’altro pure decapitazioni e crocifissioni, una terra oggetto di mire nazionalistiche e teatro di una guerra più ampia tra sunniti e sciiti, decine di milizie islamiste finanziate da paesi arabi e occidentali in guerra tra loro, nessuna sicurezza per le minoranze, prese di mira dai seguaci del Califfato e dai ribelli “laici”, nessuna prospettiva dai colloqui di pace internazionali, che pongono ossessivamente come prerequisito la cacciata di Bashar al-Assad da Damasco. Nel 2013 Fouad Twal, patriarca della Chiesa di Gerusalemme, disse a Tempi: «Tra vivere con un regime imperfetto, dittatoriale e cercare di cambiarlo facendo 80 mila morti e un milione e mezzo di rifugiati, ebbene, io preferisco vivere con un regime imperfetto e con un dittatore. Non si possono accettare 80 mila morti e milioni di rifugiati per il gusto di cambiare». Oggi i morti sono 250 mila e gli sfollati 12 milioni (8 nel paese, 4 fuori). Non c’è bisogno di aspettare il giudizio della storia per censurare questa folle mattanza.
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