Il Racconto della fuga di un ebreo dall’Irak… di Joseph Samuels

ismagesIn gennaio è comparso un video di Muktadar Al Sader, il leader della milizia sciita, in cui implorava gli ebrei iracheni di ritornare per aiutare a ricostruire il loro paese. Bene. Immaginate me, la mia famiglia o qualunque ebreo camminare per le strade di Bagdad indossando una kippah o andare in sinagoga. Quanto potremmo durare io o la mia famiglia? La mia storia è una delle 135.000 storie di ebrei che scapparono, che furono costretti ad andarsene, che subirono torture, videro le loro proprietà confiscate e dovettero vivere come prigionieri nella loro patria. Non torneremo mai indietro. Nessuno nella comunità ebraica irachena è abbastanza pazzo anche solo da pensare di tornare indietro.
Le parole di Al Sader fanno rivivere tristi ricordi della mia fuga dall’Irak.
A Bassora, il freddo in dicembre era insolito, ma nel 1949 alle 23 faceva molto freddo. Avevo messo la mia vita nelle mani di due contrabbandieri musulmani e non ero solo. C’erano altri 15 adolescenti, tra cui il mio fratello minore, Nory. Il movimento clandestino per aiutare gli ebrei a fuggire dall’Irak aveva organizzato che una barca ci portasse in Iran. Salimmo a bordo, uno per volta, a vari intervalli, per evitare di suscitare sospetti nel quartiere. Non avevamo né bagagli, né denaro, né cibo o acqua.
La barca, se così la si può chiamare, era lunga circa 10 metri e larga 3. Non aveva sedili, né letti, ne gabinetti, né motori. Procedeva spinta da una pertica. Era adatta solo a portare carichi leggeri come letame o fieno per gli agricoltori del delta. I due contrabbandieri avevano creato un finto fondo con uno spazio sottostante che misurava circa 3 metri x 3 e alto circa 80 cm. Ci accovacciammo in questa cella nel buio assoluto. Io fui scelto come la persona responsabile del viaggio. Per prima cosa feci dei buchi nel fieno in modo che potessimo respirare. La nostra fuga dipendeva dalla fortuna, dalla marea e dalla corruzione della polizia di frontiera.
In modo che la nostra traversata coincidesse con la marea, a mezzanotte circa i due contrabbandieri spinsero la barca fuori dall’affluente. Il nostro raggio di speranza, l’Iran, era a valle e al di là del fiume, a due o tre ore di viaggio. Lo scroscio dell’acqua rompeva la quiete della notte ed era una dolce musica per le nostre orecchie. Mentre discendevamo il fiume principale Shat el Arab, “il fiume dell’arabo,”la speranza della libertà si accendeva nei nostri cuori.
Tuttavia, dopo circa un’ora, il dolce rumore dell’acqua si fermò. Tutto taceva, salvo il rumore del vento. Uscii da uno dei buchi. I due contrabbandieri sembravano preoccupati. “Non ci possiamo muovere,” disse uno degli uomini, “la marea è con noi ma il vento è contrario.”
Rientrai attraverso il buco e dissi a tutti di chiudere gli occhi e dormire un poco, mentre aspettavamo che il vento calasse.
Attraccammo in un affluente del fiume. Le ore passavano rapidamente e cominciavo a preoccuparmi. Il mio cuore batteva più forte del vento verso il sorgere dell’alba. Non ci saremmo potuti muovere durante il giorno e avremmo mancato al nostro appuntamento. E che dire di cibo, acqua e servizi igienici? E se qualche abitante del villaggio ci avesse visti e l’avesse riferito al muchabarat, la polizia segreta? Dopo tutto, stavamo lasciando l’Irak illegalmente e questo era un crimine capitale.
Non potevo condividere i miei timori con i ragazzi e le ragazze. Uno dei ragazzi aveva solo 13 anni. Invece, cercai di assumere un atteggiamento stoico e li assicurai che tutto sarebbe andato bene. Dovevamo aspettare finché fosse stato di nuovo buio. Qualcuno cominciò a piangere. Ne avevo voglia anch’io, ma frenai le mie lacrime.
Uno dei barcaioli andò a cercare del cibo. Gli consigliai di non comprarne in grande quantità, perché avrebbe potuto creare sospetti. Era tempo di andare in bagno, mattina presto. Uno ad uno uscimmo dal nostro buco. Un ragazzo, mio buon amico, il cui fratello era stato arrestato con accuse di sionismo solo poche settimane prima, tremava tanto che non poteva stare in piedi. Il barcaiolo tornò dopo un’ora con pane, formaggio e datteri. Come topi, due o tre di noi uscirono dal buco, mangiarono qualcosa e tornarono dentro, fino a che tutto il branco fu sfamato.
Ero vestito all’araba e portavo una lunga palandrana e una kafia in testa proprio come i barcaioli. Mi allontanai dalla barca e mi sedetti all’ombra sotto un albero. Chiusi gli occhi e avrei voluto dormire, ma non potevo. La mia vita mi passava davanti agli occhi come in un film.
Ricordavo il Farhood del 2 giugno 1941 a Baghdad, quando le folle uccisero oltre 200 ebrei e migliaia di case ebraiche furono saccheggiate. Io avevo 11 anni. Sopravvissi. Quando ne avevo 14, due ragazzi musulmani mi inseguirono con un coltello. Corsi più veloce di loro. Sopravvissi. In maggio 1948, dopo che l’ Irak e quattro paesi arabi fallirono nello scatenare una guerra contro Israele, molti giovani ebrei furono arrestati, torturati o semplicemente scomparvero. Ancora una volta sopravvissi.
Solo pochi giorni prima la polizia segreta mi aveva fermato alla stazione del treno dove arrivavo da Baghdad. Ero con mio fratello e altri due ragazzi e andavamo a Bassora. Uno dei poliziotti mi chiese lo scopo del mio viaggio a Bassora. Gli dissi che andavo a trovare mio cugino. Quando menzionai il suo nome, Agababa, gli si illuminarono gli occhi e il suo tono di voce cambiò. Diventò molto gentile e disse che conosceva bene mio cugino e che comprava da lui le sue camicie Arrow. Sopravvissi ancora una volta. Gli altri due ragazzi furono rimandati a Baghdad. Non ne sapemmo più nulla.
Sulla barca, le ora passavano lente. Era il giorno più lungo della mia vita. Sul fiume passò una pattuglia, ignara del carico umano nascosto nella balla di fieno. Ero spaventato e frustrato. Cominciai a pregare, “Signore, fa che venga la notte in modo che possiamo finalmente fuggire.” Rientrai dal buco e assicurai tutti che il mattino seguente saremmo stati in Iran e dopo pochi giorni in Israele.
Finalmente venne la notte. I miei angeli custodi facevano gli straordinari. Avevamo la marea e il vento favorevoli. Quando fu il momento ricominciammo a muoverci e prima dell’alba attraversammo il fiume. Tre uomini preoccupati erano quasi impazziti aspettandoci sull’altra sponda. Erano lì dalla notte precedente.
“Siamo al sicuro, siamo in Iran,” gridai felice. Uno ad uno, gli altri topi uscirono dal buco, esausti e macilenti; alcuni in lacrime, altri con un sorriso largo come il fiume che avevamo appena attraversato.
Ma per me, le esigenze di così tanta gente superavano quelle della famiglia e di altri che erano già liberi, per quanto fossero giovani. Invece di accompagnare mio fratello in Israele rimasi in Iran per due estenuanti mesi per aiutare altri a scappare dall’ Irak. Sfortunatamente, non tutti ci riuscirono prontamente come noi.
Dopo quella difficile traversata in barca, ciascuno di noi, sedici ragazzini, andò per la sua strada – guidati dalla storia e dalle sue forze. Ma in mezzo alla tristezza e al dolore per aver lasciato la famiglia e la casa crebbero i semi del nostro futuro e del popolo ebraico.
Poscritto
Dopo aver partecipato ad una proiezione pubblica del film, “The Last Jews of Baghdad,” mentre parlavo della mia fuga, un membro della mia sinagoga che conoscevo da molti anni si fece avanti e disse, “Ero con te su quella barca quando rimanemmo bloccati.” Si chiama Haskel Abrahami. Era il ragazzo di 13 anni di quel giorno lontano.
Da Times of Israel


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