Il presidente e gli evangelicali

Cristiani conservatori negli Stati Uniti continuano a sostenere Donald Trump

Malgrado le espressioni sessiste e razziste dell’attuale presidente americano, una parte del pubblico cristiano – comprendente anche i cattolici conservatori e tutto il fronte dei contrari all’aborto e alle unioni omosessuali – è intenzionato a riconfermare Donald Trump alla Casa Bianca. Molti evangelicali – l’ala fondamentalista del protestantesimo – ritengono che l’attuale inquilino della Casa Bianca sia un difensore dei valori cristiani.
Philip Gorski, sociologo delle religioni, americano, docente della prestigiosa università di Yale, è autore di “American BabylonChristianity and Democracy Before and After Trump”.

Professor Gorski, perché molti cristiani evangelicali continuano a sostenere Donald Trump?
Dividerei gli evangelicali americani in due gruppi: da un lato ci sono quelli che definirei socialconservatori, dall’altro i nazionalisti cristiani. I primi sostengono ad esempio la nomina di giudici conservatori della corte suprema e puntano in particolare alla riduzione del numero degli aborti. I secondi, i nazionalisti cristiani bianchi, vedono gli Stati Uniti come una nazione bianca e cristiana, si sentono minacciati e riconoscono in Trump un difensore, il quale non conduce una vita esemplare dal punto di vista cristiano, ma condivide i loro valori. Da ultimo, sebbene ciò possa apparire strano, ci sono alcuni che ritengono Trump un buon cristiano.

Ma quanto è cristiano il presidente Trump?
Secondo me non lo è per nulla. Non appartiene a nessuna chiesa, non conosce nulla della Bibbia, o della teologia cristiana, non ha uno stile di vita cristiano, dunque l’idea che sia un buon cristiano è frutto di fantasia.
Il “Guardian” ha sostenuto che Donald Trump sarebbe il politico più amato dai cristiani americani. Lei è d’accordo?
Nel 2016 era sicuramente vero, oggi le cose sono più sfumate. Ci sono infatti molti evangelicali bianchi che non lo sostengono più, e questo a motivo della sua condotta personale. È interessante notare che c’è chi gli gira le spalle a causa del suo razzismo: in particolare tra i giovani evangelicali è in atto, da questo punto di vista, un cambio di tendenza e una riflessione sul legame tra schiavitù e razzismo nella storia degli Stati Uniti. Non credo perciò che Trump raggiungerà nuovamente una quota dell’80 percento del voto evangelicale, e forse si fermerà al 65-70 percento.

Lei ha scritto recentemente un libro in cui definisce le grandi chiese evangelicali – le famose megachurches – dei pericoli per la democrazia. Ci potrebbe spiegare il perché?
Le chiese protestanti, nel 19.esimo secolo, erano organizzate come piccole repubbliche. Le grandi megachurches del 21.esimo secolo assomigliano piuttosto a grandi imprese. Nel 19.esimo secolo e fino alla metà del 20.esimo, si trattava di comunità cristiane governate in modo democratico, paragonabili alle parrocchie riformate svizzere, in cui i laici avevano un ruolo importante. Il sociologo francese Alexis de Tocqueville le aveva definite “scuole di democrazia”, che formavano cittadini responsabili. Oggi, nelle megachurches, i fedeli sono relegati al ruolo di spettatori passivi, la comunità si stringe intorno al pastore che assume atteggiamenti da star e si comporta da imprenditore che tiene conferenze a pagamento, scrive libri, appare in televisione, si sposta a bordo del suo aereo privato. Si tratta di un modello ecclesiastico molto diverso e che purtroppo si accorda bene con uno stile politico autoritario.

Pastori evangelicali hanno benedetto Trump ritenendolo un uomo mandato da Dio. Siamo di fronte al culto di un nuovo messia?
Già durante la prima campagna elettorale alcuni autoproclamati profeti hanno presentato Trump come un messia, come un liberatore e salvatore dei cristiani negli Stati Uniti. L’interpretazione più interessante è però quella che vede in Trump un nuovo imperatore Ciro – che viene citato nell’Antico Testamento -, il quale libera il popolo d’Israele dall’esilio in Babilonia. Oggi c’è chi ritiene che Trump libererà i cristiani americani dalla loro prigionia babilonese, e restituirà loro il loro Paese, e la loro capitale.

Perché un tema come quello dell’aborto è importante per gli evangelicali nella campagna che precede il voto?
È interessante vedere il modo in cui per gli evangelicali il tema della lotta contro l’aborto è diventato centrale. Cinquant’anni fa non era così, l’opinione della maggioranza degli evangelicali su questo tema non si distingueva da quella della maggioranza della popolazione americana. Il cambiamento è avvenuto per due motivi. Il primo, l’influsso di cattolici conservatori, i quali combattevano già da tempo contro l’aborto, che all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso hanno stretto un patto politico con gli evangelicali sostenendo candidati repubblicani. Il secondo – speculare a questo -, la decisione del partito repubblicano di fare breccia nell’elettorato evangelicale trascinandolo su posizioni antiabortiste care a una parte dei cattolici. Si è trattato di una mossa che ha spiazzato anche molti cattolici bianchi, i quali tradizionalmente votavano democratico, sostenevano lo stato sociale, si battevano per la giustizia sociale, erano contrari al razzismo. I repubblicani sono riusciti a dividere l’elettorato cattolico e hanno costituito un’alleanza politica tra cattolici ed evangelicali.

Negli Stati Uniti vige una rigida separazione tra stato e chiese. Come mai allora religione e politica sono così legate nel dibattito pubblico americano?
La separazione tra stato e chiesa non è da equiparare, negli Stati Uniti, alla separazione tra fede e politica e tra identità religiosa e identità politica. Tutto questo ha radici molto profonde e risale ai puritani che sbarcarono nel Nuovo Mondo, i quali pensavano di essere in qualche modo i discendenti dell’antico Israele, una sorta di nuovo popolo eletto di Dio, e vedevano l’America come una nuova terra promessa. Tra i loro compiti c’era ovviamente anche quello di scacciare da quella terra i cananei, cioè le popolazioni pellerossa. Questo modello ha accompagnato sostanzialmente tutta la storia degli Stati Uniti, fino a oggi: l’idea di essere un popolo speciale, eletto, lo strumento di Dio che porta ordine nel mondo, che lotta per il bene contro il male.

Fin qui ci siamo concentrati sul segmento fondamentalista evangelicale della società americana. Ma sappiamo che anche negli Stati Uniti cresce la percentuale di chi non si riconosce più in nessuna chiesa…
Oggi gli americani che non appartengono a nessuna chiesa costituiscono circa un quarto della popolazione e sono perciò numericamente alla pari con gli evangelicali. Questo ha molte conseguenze, tra cui ad esempio il senso di minaccia che grava sugli evangelicali. Può sembrare incomprensibile, eppure stando a molte indagini gli evangelicali bianchi americani ritengono che i cristiani siano il gruppo più oppresso e discriminato tra tutti negli Stati Uniti – più degli atei, più dei musulmani, più dei neri. E questo è legato alla costante crescita dei non appartenenti a nessuna chiesa, i quali spesso hanno preso il controllo di istituzioni importanti – come la Yale University – che erano nate con una forte impronta cristiana.

Una domanda, per concludere. Finora i presidenti americani sono stati quasi tutti protestanti, con qualche rara eccezione – basti pensare al cattolico John Fitzgeraéld Kennedy. Lei pensa che prossimamente potrà esserci un presidente o una presidente che non sia di fede cristiana?
Credo di sì. Non capiterà questa volta, e forse nemmeno la prossima. Ma tra una ventina d’anni al massimo succederà certamente. Basti pensare alla candidata democratica alla vicepresidenza, Kamala Harris, cresciuta in ambiente cristiano, ma le cui origini non sono certo quelle di George Bush o di Barack Obama. Dunque sì, è probabile. (fonte Sternstunde Religion SRF; trad. e adat. P. Tognina)


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