Le organizzazioni non governative hanno dovuto pagare al Shabaab, il gruppo terroristico somalo legato ad al Qaeda, per soccorrere nei territori controllati dai jihadisti le popolazioni minacciate dalla carestia che nel 2011 ha colpito l’Africa orientale provocando 250.000 vittime. È quanto rivela un rapporto pubblicato pochi giorni or sono da due think tank, il britannico Overseas Development Institute e il somalo Heritage Institute for Policy Studies.
Al Shabaab aveva costituito un Ufficio per il coordinamento umanitario che gestiva i rapporti con le ONG e l’amministrazione degli aiuti. Per consentire alle organizzazioni umanitarie di operare pretendeva una sorta di “tassa di registrazione”, il cui valore poteva raggiungere i 10.000 dollari, e un impegno scritto a evitare determinate attività sociali e religiose. Quanto agli aiuti, secondo il rapporto soltanto una parte veniva distribuita alla popolazione, gli al Shabaab si tenevano il resto. Nella città di Baidoa, ad esempio, da metà a due terzi degli aiuti alimentari serviva a rifocillare i terroristi e le loro famiglie. Chi era disposto a spiare le ONG, in cambio riceveva razioni extra di cibo. Molte furono le ONG espulse, accusate di proselitismo o semplicemente perché di matrice cristiana, mentre altre decisero di andarsene proprio per non acconsentire alle richieste di al Shabaab.
La notizia ha fatto il giro del mondo creando sconcerto: come se non si sapesse che è così che funzionano gli aiuti umanitari. Nel gergo degli addetti ai lavori si dicono “shaking hands with the devil”, patti con il diavolo. Sono le trattative che, per ottenere il permesso di intervenire, gli organismi internazionali intavolano con i responsabili delle crisi umanitarie, siano essi gruppi armati, milizie antigovernative, governi, nelle cui mani passa così una parte del denaro e dei beni destinati alle popolazioni bisognose: sotto forma di dazi per il transito dei convogli, di percentuali consegnate alle autorità politiche e militari in cambio dell’autorizzazione a operare in un dato territorio, di pure e semplici estorsioni e altro ancora.
Si tratta di risorse ingenti, talvolta fondamentali per consentire alle milizie armate di continuare a combattere e a infierire sulle popolazioni inermi perpetuando uno stato di pericolo e di bisogno a cui le ONG cercano di rimediare: un circolo vizioso, in altre parole, ben descritto e documentato in un libro del 2008 di Linda Polman, una giornalista olandese considerata tra i migliori esempi contemporanei di giornalismo d’inchiesta, e pubblicato in Italia nel 2009 da Bruno Mondadori con il titolo “L’industria della solidarietà”.
“Grazie ai proventi delle trattative con le organizzazioni internazionali – sostiene Polman – i gruppi in lotta mangiano e si armano, oltre a pagare i loro seguaci” e questo influisce in maniera decisiva sull’intensità e sulla durata delle guerre. Seppure meno essenziali, tuttavia il denaro e i beni estorti agli operatori umanitari aiutano allo stesso modo i leader politici al potere.
Gli esempi portati da Polman sono quasi tutti africani. Tra i più drammatici, quelli dell’Etiopia, nel 1984, all’epoca della peggiore carestia sofferta dal paese, causata in parte da condizioni climatiche avverse e in misura maggiore dai metodi di repressione della ribellione armata attuati dal dittatore Menghistu; e quello del Sudan negli anni 80, periodo in cui la guerra del governo arabo-islamico contro le etnie del sud, di origine africana e di religione cristiana, entrò nella sua fase più devastante che sarebbe durata fino al 2005, quando fu firmato l’Accordo globale di pace grazie al quale dal luglio del 2011 il Sud Sudan è diventato uno stato autonomo.
In Etiopia gli aiuti alimentari delle ONG internazionali divennero anche l’esca con cui gli affamati abitanti dei villaggi “ribelli” venivano attratti nei campi profughi per essere poi deportati nelle aziende agricole statali del Sud del paese. Lì li aspettava una vita di lavori forzati. L’esercito governativo che sorvegliava i campi attingeva agli aiuti alimentari e confiscava i camion delle organizzazioni umanitarie per utilizzarli nelle deportazioni. In Sudan gli operatori umanitari dovevano rispettare le restrizioni imposte dal governo. Che fine facesse il cibo lanciato dagli aerei, non potevano saperlo. A volte giungeva notizia di bombardamenti proprio nelle zone in cui si stava distribuendo il cibo. In questo caso gli aiuti erano evidentemente un’esca per concentrare la popolazione e sterminarla. Altre volte i villaggi appena riforniti venivano invece attaccati dall’esercito e dalle milizie filogovernative che saccheggiavano gli aiuti. Alex de Waal, all’epoca consulente dell’associazione African Rights, giunse alla conclusione che l’esercito era riuscito a resistere in alcune città strategiche importanti anche grazie agli approvvigionamenti da parte delle organizzazioni umanitarie.
Tornando alla Somalia, dall’inizio della guerra tra clan per il potere, dopo la caduta del dittatore Siad Barre nel 1991, i capi clan hanno preteso fino all’80% del valore degli aiuti per consentire alla cooperazione internazionale di soccorre la popolazione ridotta alla fame; e in Liberia Charles Taylor, al potere dal 1997 al 2003, anno in cui ebbe fine la guerra civile durata più di 10 anni, pretendeva dalle ONG internazionali il 15% del valore degli aiuti, versato in contanti a lui personalmente e in parte utilizzato per mantenere le sue truppe.
Quel che Linda Polman racconta può confermarlo qualunque addetto ai lavori: gli aiuti salvano sì vite umane, ma al tempo stesso moltiplicano il bisogno e le sofferenze, prolungano le guerre, danno a regimi e milizie spietati ossigeno vitale per sopravvivere e continuare a far del male: “I disastri umanitari – ha scritto Linda Polman – non succedono mai nelle democrazie, ma in posti orribili con pessimi governi o dove i governi sono sostituiti da una banda di ribelli o guerriglieri. È uno scandalo tremendo che gli aiuti servano a questa gente a mantenere il potere”.
Fonte: http://www.lanuovabq.it/
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