La “marcia del ritorno” iniziata da Hamas per denunciare il blocco di Gaza si è trasformata in un bagno di sangue.
(Stephane Amar) In Israele la festa di Pesach (Pasqua) si è conclusa la sera di sabato 6 aprile. Come di consuetudine, i leader politici del paese si sono recati nelle case di famiglie ebraiche di origine marocchina per festeggiare la “Mimouna”, la tradizionale festa a base di cibi dolci mediorientali. Agghindato con un fez per l’occasione, il ministro della Difesa Avigdor Lieberman ne ha approfittato per rispondere ai giornalisti dopo il nuovo bagno di sangue al confine di Gaza: nove morti tra cui un giornalista. “Non possiamo sapere chi è giornalista e chi non lo è. Pilotava un drone e perciò si era messo in pericolo da solo. In passato abbiamo visto spesso la gente di Hamas travestirsi per compiere attentati. Si spingono al punto di farsi passare per paramedici”. Nessuna empatia, nessun rimorso.
Nessuna controversia
Brusche e sbrigative, le parole di Lieberman sono espressione della politica di fermezza adottata dal governo. A parte alcune riserve espresse dal moribondo partito laburista e le condanne del partito di estrema sinistra Meretz, la reazione dei soldati di Tsahal alle manifestazioni palestinesi non suscita praticamente controversie. Persino il quotidiano “Haaretz”, di norma assai critico nei confronti del governo, sembra approvare la strategia adottata. “Israele sarà in ogni caso oggetto delle solite condanne, a prescindere dal modo in cui reagisce a queste manifestazioni”, scriveva infatti il 7 aprile l’analista militare Amos Harel.
All’unisono con la classe politica e i media, l’opinione pubblica israeliana sostiene l’esercito e imputa a Hamas ogni responsabilità per i morti e i feriti di Gaza. Sulle reti sociali circolano immagini che dovrebbero illustrare l’inganno del movimento islamista. Una di esse mostra alcuni manifestanti palestinesi che sventolano una bandiera ornata di svastica. Un’altra denuncia l’inquinamento provocato dal fumo nero di centinaia di pneumatici bruciati. Una terza, il modo in cui i palestinesi espongono al pericolo i propri figli.
Propaganda elettronica
Il governo alimenta attivamente la propaganda elettronica. A questo fronte mediatico è persino dedicata una unità di Tsahal, la quale ha pubblicato le foto di una decina di militanti di Hamas uccisi nel corso del primo venerdì di scontri, lo scorso 23 marzo, affermando che erano dissimulati nella folla dei manifestanti. Hamas ha riconosciuto quel giorno la perdita di sei suoi combattenti.
Alcune note stonate hanno tuttavia turbato questa unanimità. Una manifestazione ha riunito a Tel Aviv, due settimane fa, alcune centinaia di persone scandalizzate dalla brutalità della repressione. “Quelle persone non sono terroristi, cercano soltanto di difendere i propri diritti”, s’indignava una cinquantenne davanti alle telecamere. Dal canto suo B’Tselem, ONG israeliana di difesa dei palestinesi, ha rivolto un appello ai soldati a disobbedire agli ordini per denunciare l’impiego di proiettili veri e il fatto che le vittime siano state colpite alle spalle. “La maggior parte dei feriti ha subito lesioni alle gambe, prova che sappiamo mirare”, ha liquidato prontamente la questione Lieberman, prima di prendere in considerazione azioni legali contro l’ONG.
Le due facce di Israele (video Segni dei Tempi RSI La1)
Il nodo di Gaza
L’indifferenza degli israeliani nei confronti dei morti di Gaza fa eco alla crudele disillusione che fece seguito al ritiro dalla striscia di Gaza nell’estate del 2005. Alla traumatica evacuazione di 7.000 coloni ebrei da una ventina di insediamenti si aggiunse l’umiliazione del ritiro di migliaia di soldati dietro il confine riconosciuto a livello internazionale. Gli israeliani pensavano allora di aver pagato un caro prezzo per farla finita con quel territorio fondamentalmente ostile. Ma non appena l’esercito israeliano ebbe lasciato la striscia, Hamas intensificò il lancio di missili verso le città israeliane di frontiera. Per rappresaglia Israele impose un rigido controllo delle importazioni e vietò di fatto ai palestinesi di Gaza di accedere al suo territorio o anche alla Cisgiordania, salvo rari casi umanitari. A sud della striscia l’Egitto impose lo stesso tipo di blocco.
A giugno 2017 gli islamisti cacciarono via manu militari i loro oppositori laici. Negli anni 2008, 2012 e 2014 non esitarono a intraprendere operazioni militari su vasta scala contro il potente esercito israeliano al prezzo di migliaia di morti. È stata inoltre costruita un’immensa rete di tunnel, dal costo stimato in svariate centinaia di milioni di dollari, al solo scopo di infiltrare commando terroristici in territorio israeliano.
Gaza e la Cisgiordania
“Israele è uscito da Gaza, ma Gaza non è uscita da Israele”, riassume il politologo Emmanuel Navon giustificando l’esasperazione della popolazione israeliana nei confronti di un movimento islamista che secondo il suo statuto, apertamente antisemita, ambisce ancora a cancellare Israele dalla carta geografica. I portavoce di Tsahal non smettono di ripetere che la minima violazione della barriera e l’intrusione in Israele di centinaia di palestinesi di Gaza potrebbero avere conseguenze gravi. Gaza dista meno di settanta chilometri da Tel Aviv. Ma i cecchini dell’esercito israeliano e la barriera ultrasofisticata che circonda Gaza rendono questa ipotesi quantomeno improbabile.
In compenso lo è molto meno quella di un contagio della Cisgiordania. Il governo israeliano tiene d’occhio le otto città palestinesi autonome e i punti di passaggio verso il suo territorio. Ma per il momento in Cisgiordania regna la calma.
Possibile escalation
La guerra fratricida del 2007 ha lasciato tracce e la solidarietà tra i due territori si è affievolita. “Non è che i palestinesi della Cisgiordania siano indifferenti a ciò che accade a Gaza. Il fatto è che la separazione fisica ha determinato a poco a poco una separazione emotiva”, nota in proposito Khaled Abou Toameh, conoscitore della società palestinese.
Resta da vedere per quanto tempo Hamas potrà sostenere il confronto. Le manifestazioni dovrebbero proseguire almeno fino a metà maggio, quando ricorreranno i 70 anni della creazione dello Stato di Israele. Secondo la stampa israeliana, se il confronto dovesse farsi più intenso, lo stato maggiore di Tsahal potrebbe colpire direttamente i leader di Hamas. Il conflitto, a quel punto, potrebbe diventare molto più aspro. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt)
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