IL MESTIERE E LA PERSONA

Spesso un po’ tutti siamo portati ad associare le persone al mestiere che fanno o, viceversa, le persone stesse si identificano con il mestiere che fanno.

Dunque quando diciamo che Tizio è un avvocato, quasi automaticamente ci viene di pensare che Tizio sarà dunque una brava persona, una persona ligia, che ci tiene alla legge e alla correttezza e Tizio stesso probabilmente si riterrà una persona corretta.

Se, invece, diciamo che Caio è un medico, allora, penseremo che egli sia uno che, conoscendo cosa serve per il mantenimento dell’integrità fisica e della salute, starà attendo alla propria salute e a quella degli altri (dunque sicuramente non fumerà, non berrà alcolici, non si drogherà o non si darà ad eccessi che potrebbero nuocere alla salute)!

Se poi uno fa il giudice, allora, sarà una persona che non sbaglia mai, uno che sa cos’è giusto e cos’è sbagliato, cos’è corretto e cos’è scorretto e che dovrebbe seguire la via della giustizia; altrimenti, “con che faccia” si metterebbe a giudicare gli altri!

Un/un’insegnante, poi, sarà uno che “sa tutto” o uno che crede a quello che insegna o che pensa che tutto quello che insegna sia la verità (altrimenti perché insegnarlo)?

Un attore comico scherzerà così tanto e così che quando lo si vedrà non si potrà fare a meno di pensare alle sue battute; dunque gli altri o lui stesso si identificheranno con le battute più famose che si studia di tirar fuori nel corso dei suoi spettacoli. E, in effetti, a volte tale identificazione è così forte (e in certi casi assoluta) che non ci si aspetta da un tale soggetto alcuna capacità di essere serio, perché la serietà guasterebbe (e spesso guasta, stona con) la sua reputazione (di comico e, in certi casi, di buffone – che magari è il volto per il quale è amato dalla gente e quello che gli dà il suo successo -).

Un malavitoso (strano mettere tale personaggio in questa classifica di lavoratori, ma pare che certi delinquenti siano convinti di “lavorare” anch’essi mentre derubano gli altri lavoratori) penserà che la via che ha scelto di seguire abbia a che fare con qualcosa come l’“onore” del suo clan; dunque anche lui, forse, si identifica con la gente perbene, con gli onorevoli!

Un negoziante forse sarà un tipo sempre gentile, uno che dice sempre buongiorno e buonasera ai clienti, uno che dice che “il cliente ha sempre ragione” (anche quando sa che così non è, ma per amore – non del cliente, ma del profitto che questi gli porta – lo dice comunque e dunque fa (o “è” ?!) sempre il gentile!

Forse sto forzando la mano? Forse sto mettendo in risalto il fatto che, infondo, non è vero che uno è quello che fa; non è vero che persona coincide ed è con ciò con cui spesso si identifica o viene identificato, ossia col suo mestiere.

Beh, in effetti è proprio questo quello che vorrei fare; vorrei smontare la credenza del fatto che uno sia quello che fa. E, soprattutto, vorrei riflettere (e far riflettere) sul fatto che il mestiere che facciamo, infondo, potrebbe identificarci appieno.

Molte sono e possono essere le ragioni per cui una persona fa un determinato mestiere: convenienza (profitto), prestigio sociale, per “eredità” (perché il padre gli ha appianato la strada).

Allora, sinceramente, impariamo a dissociare la figura delle persone (il loro mestiere) da ciò che realmente (cioè infondo) queste sono veramente.

E, allora, cominciamo a pensare che anche un giudice o un avvocato potrebbero essere degli ingiusti dentro;

Cominciamo a riconoscere che magari un comico di successo (uno di quelli che pensa di far ridere gli altri) potrebbe essere uno da non frequentare nella vita privata, dato che magari a questo personaggio (infondo) degli altri non gli importa nulla (e, dunque, è simile al negoziante, che dice che “il cliente (cioè gli spettatori dei suoi spettacoli comici) ha sempre ragione” per convenienza, ma non perché lo creda e sia realmente così per lui);

Cominciamo a capire che l’insegnate in realtà non solo non è uno che sa tutto, ma che magari quello che insegna non lo pensa veramente.

Oh quante altre contraddizioni potremo trovare se esaminassimo la forma (il mestiere) delle persone e la loro vera realtà e identità personale!

Alle persone, però, sembra piacere questo fatto di identificarsi con l’”abito” che portano, ossia col mestiere che fanno; molti, davvero, sembrano convinti del fatto che la loro identità corrisponda a ciò che fanno. Ecco perché molti aspirano ad avere i posti migliori nella società: perché pensano, costoro, che più alto è il posto che essi occupano, più alta e dignitosa sia la loro persona e personalità.

Mi piace ricordarmi di un concetto che una volta un professore dell’università ci disse. Si trattava del concetto della ‘divisa’. Il professore ci fece riflettere sul perché si chiamasse ‘divisa’ l’abito portato dalle diverse categorie di persone nei vari ambiti lavorativi. Quindi ci disse che tale nome deriva proprio dal fatto che i diversi abiti servono a distinguere e a dividere le persone. La divisa serve a dividere, a distinguere le persone e i loro ruoli.

E così avviene nella società, nella vita sociale: le persone indossano divise e vivono divise, pensando che gli abiti che portano costituiscano le loro vere identità.

Così le persone si presentano con l’abito che portano e credono di essere quello che le loro divise dicono di loro!

La riflessione qui presente vuole sottolineare, invece, la non coincidenza tra gli abiti portati dalle persone e le persone stesse e, dunque, l’inconsistenza di quella falsa identificazione che porta molti a credere di essere quello che la loro divisa dice di loro, ossia il mestiere che fanno.

Per costruire una vera identità ci vuole ben più di un abito. E la nostra vera identità è ben più (o ben meno) del mestiere che facciamo.

Identificarsi col proprio mestiere è come nascondersi, per paura di non sapere chi si è veramente.

La toga del giudice non farà di lui un giusto; la veste di un insegnante non farà di lui (o meglio di lei – visto che ormai il ruolo di insegnante e maestra pare possano farlo solo le donne, perché più idonee!! -) una persona che sa davvero rispondere a tutti i quesiti e i bisogni dei bambini o dei ragazzi; il medico non sarà per forza una persona che metta al primo posto la salute del paziente, il quale è tale (paziente) proprio perché spesso deve subire dei consigli sbagliati o interessati di un medico impreparato o incosciente.

Al ‘delinquente nato’, poi (cioè a colui che è “figlio di papà” e al quale suo padre ha spianato la strada… per entrare nella mala – vita), vorrei chiedere se anch’egli pensa che fare il malavitoso sia davvero il suo destino o, se, invece, egli – se si risvegliasse nella coscienza – non potrebbe pensare e decidere di cambiare e di intraprendere magari la via dell’onestà e della vera dignità!

Insomma le considerazioni a cui questa riflessione dovrebbe portarci sono quelle per cui:

  • Infondo gli uomini e le donne (ossia il genere umano) sono simili e non divisi: tutti interiormente siamo uguali (avendo dentro simili sentimenti e simili contrasti tra questi (il contrasto tra il bene e il male, tra il vero e il falso, tra il giusto e l’ingiusto);
  • Il mestiere che facciamo non ci identifica infondo e a fondo veramente (a dirci chi siamo non deve essere la divisa che indossiamo, ma ciò che siamo interiormente – nel cuore – e ciò che facciamo (non solo in pubblico, nelle vesti pubbliche che indossiamo, ma “anche” in privato).

Ho sentito di scrivere questa semplice riflessione vedendo un personaggio che pensa di essere quello che fa; un comico che di fronte a una situazione che richiedeva serietà si è sentito impacciato e a disagio.

Beh, io non vorrei sentirmi a disagio quando serve essere seri. Probabilmente i momenti di serietà sono utili: utili a farci capire chi siamo veramente e onestamente.

Spero che queste considerazioni possano essere d’aiuto a coloro che a volte vivono questa ambiguità (nella loro coscienza): cioè quella di pensare di essere quello che gli altri vedono fargli, a seconda del mestiere o della carica o dell’incarico che questi ricoprono nella società.

Onestamente noi non siamo (per forza) quello che sembriamo, quella che la nostra divisa sembra dire che siamo.

Togliamoci le divise di dosso e cerchiamo di capire e di scoprire chi siamo veramente.

Mi viene in mente a proposito la scena della crocifissione di Gesù:

Ad assistere alla sua crocifissione ci furono molte persone, molti personaggi:

Capi sacerdoti, religiosi, magistrati, soldati, e gente comune.

Ma le loro “diversità” infondo erano accomunate dal fatto che tutti, tutti erano ciechi, al punto da non capire che stavano chiedendo e plaudendo alla morte del Salvatore. Tutti, colti e ignoranti, erano accomunati dal fatto di non capire l’ingiustizia che stavano commettendo chiedendo che Gesù morisse. La loro comune intenzione era frutto di una loro comune identità: quella di esser dei peccatori che non capivano quello che stavano chiedendo e facendo.

Già alla croce c’erano tutti e, purtroppo, tutti (o quasi) erano ciechi.

Penso che se vogliamo capire chi siamo (fondamentalmente – dei giusti o degli ingiusti -) andare davanti alla croce (ossia metterci a confronto con la morte (fisica) del Signore – e coi motivi di tale morte (il desiderio dell’uomo di uccidere la verità e la giustizia, il desiderio dell’uomo di non sentirsi dire chi egli è, il desiderio dell’uomo di non avere un Signore e un Giudice che lo osservi, per vedere se egli cammina secondo il bene o il male) ci aiuterebbe davvero a capire la nostra vera identità. Lì, alla croce, scopriremmo e scopriremo chi siamo. Lì, infatti, il Signore si spogliò della sua gloria per ricoprire noi stessi di grazia. Andiamo lì e mettiamoci a nudo, finendola di fingere di essere quello che infondo non siamo.

Enzo Maniaci | Notiziecristiane.com

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