Dalla Libia all’Iran, nell’intero Medio Oriente assistiamo a un rimescolamento delle carte geostrategiche. E ciò avrà delle conseguenze sull’Unione europea.
Gilles Kepel, professore dell’Istituto di studi politici di Parigi, specialista dell’islam e del mondo arabo, ha visitato lo scorso anno vari Paesi del Medio Oriente. Al ritorno da quella sua tournée, ha proposto, nell’intervista che pubblichiamo in traduzione italiana, la sua analisi degli sconvolgimenti che hanno scosso – e ancora scuotono – la regione.
Gaza, Iraq, Siria: lo scorso hanno abbiamo assistito ad avvenimenti drammatici in Medio Oriente. Come mai?
In effetti, è in corso una rimessa in discussione del Medio Oriente che era scaturito dall’accordo Sykes-Picot, definito al termine della prima guerra mondiale. Le frontiere tracciate dagli inglesi e dai francesi dopo lo smembramento dell’impero ottomano furono un fattore di stabilità. Queste frontiere, contestate dai nazionalisti arabi, non favorirono la creazione di sistemi equilibrati, bensì il mantenimento delle dittature e la mancanza di democrazia. Tuttavia hanno impedito il caos che regna al giorno d’oggi. La nascita ancora fragile del Kurdistan, esclusa nell’ambito dell’accordo Sykes-Picot, è un segno evidente della rottura dell’equilibrio stabilito allora.
Quale potrebbe essere la nuova potenza emergente da questo caos?
Ciò che sta accadendo in Iraq, a Gaza o in Siria s’iscrive nel processo di reintegrazione dell’Iran nella strategia medio-orientale. L’attacco israeliano dell’estate scorsa contro Gaza come pure l’offensiva dello Stato islamico in Iraq si comprendono a partire da questo contesto. Se l’Iran – una volta portato a termine la negoziazione sul nucleare e quando sarà condotto da una direzione frequentabile -, vorrà reintrodursi nel coro delle nazioni, potrà ridiventare il gendarme della regione, come lo era prima del 1979. Questo paese di 80 milioni d’abitanti dispone della burocrazia statale necessaria e soprattutto della classe media che ha resistito alle tribolazioni del regime. Se dovesse rientrare nei giochi, l’equilibrio regionale verrebbe modificato – in primo luogo la relazione privilegiata che gli Stati del Golfo hanno creato con gli Stati Uniti dopo l’11 settembre. […].
Ma il Medio Oriente avrà la stessa importanza?
No. Bisogna tenere conto della perdita della sua centralità nella produzione energetica mondiale. Ormai gli Stati Uniti sono esportatori di gas di scisto e non hanno più bisogno dell’energia proveniente dal Medio Oriente. Israele è produttore di gas nel Mediterraneo e potrà diventare anch’esso esportatore. Per gli Stati Uniti, in una strategia a lungo termine nella quale la parte del Medio Oriente nella produzione d’energia mondiale andrà scemando, la questione che si pone è se la loro forte presenza militare sia ancora necessaria. Non sarebbe più opportuno ristabilire una politica di subappalto affidato a dei gendarmi? Inoltre, in Iraq come anche a Gaza, la dominazione occidentale è messa male in termini militari. Nemmeno in Israele è stato possibile diminuire in modo significativo l’arsenale di Hamas […].
In che modo l’offensiva dello Stato islamico in Iraq entra nel quadro dell’antagonismo con l’Iran e le altre potenze della regione?
Per gli arabi del Golfo, l’egemonia di Teheran è uno scenario da incubo. Turchi, qatarioti, sauditi hanno visto perciò nello Stato islamico la leva che ha permesso loro di scardinare il potere di Bashar al-Assad, alleato dell’Iran. Ma ora il mostro che hanno messo al mondo gli fa paura. […]
Cosa distingue lo Stato islamico da Al-Qaida?
Al-Qaida funziona con un modello piramidale nel quale gli esecutori sono sacrificati senza scrupoli […]. Lo Stato islamico sostituisce alla piramide – che il nemico può smantellare -, un modello a rete. Gli individui vengono indottrinati e formati militarmente. L’attenzione maggiore è concentrata sull’Europa occidentale, dove l’IS cerca di fomentare delle situazioni di guerra civile. Ma questo terrorismo non strutturato è a rischio manipolazione da parte dei servizi segreti. In pratica da subito lo Stato islamico è stato infiltrato dai servizi segreti siriani, secondo un modello pubblicato sui manuali russi di contro-insurrezione che consiste nell’inoculare la jihad all’interno della ribellione per farla esplodere. Lo Stato islamico ha anche beneficiato della mansuetudine del regime di Damasco, il quale non ha mai preso realmente posizione. Ciò ha permesso a Bashar al-Assad di mostrare che se il bilancio del regime siriano non è brillante, di fronte a lui ci sono però dei mostri. […].
Ma l’IS non si è liberato dai rapporti con i suoi partner “apprendisti stregoni”?
Non si conosce bene il funzionamento dello Stato islamico. Talvolta le considerazioni ideologiche sembrano avere la meglio, come nel caso delle persecuzioni nei confronti dei cristiani e degli yazidi – […] minoranze che non rappresentano alcun pericolo serio. Ciò ha obbligato in tutti i casi i qatarioti e i sauditi a dissociarsi – con una mossa poco credibile -, dallo Stato islamico.
Quali sono le ripercussioni che questa ricomposizione caotica può avere in Europa?
Mi sembra impossibile pensare ai problemi sociali che agitano la società francese, senza abbinarli a questi sconvolgimenti. Bisogna prendere atto del nuovo fenomeno inquietante che coinvolge alcuni giovani francesi che decidono di partire per la jihad sul fronte iracheno e siriano, per poi tornare indietro. Mohamed Merah e Mehdi Nemmouche erano degli illustratori francesi. Il giovane rapper inglese che avrebbe decapitato il giornalista James Foley è stato anche una visione spaventosa [impossibile non pensare agli avvenimenti più recenti che hanno visto estremisti islamici attaccare a Parigi la redazione della rivista “Charlie Hebdo” e un supermercato kosher dove hanno ucciso degli ebrei, ndr.]. La storia del colonialismo fa parte della nostra cultura come quella del Maghreb. L’élite maghrebina che ha preso il potere dopo l’indipendenza, ha vissuto nell’illusione che ciascuno potesse vivere dalla sua parte. Ma noi continuiamo ad essere interpenetrabili. […].
Nel suo libro “Passion arabe” e poi anche in “Passion française” lei si è occupato – in quanto orientalista – della popolazione originaria dei paesi arabi […]. Cosa pensa delle manifestazioni di quelli che hanno mostrato solidarietà nei confronti di Gaza e degli eccessi che ci sono stati?
Tali manifestazioni sono state caratterizzate dalla confusione. Tradizionalmente, simili manifestazioni erano appannaggio dell’estrema sinistra. Per la prima volta, esse sono state inscenate da gruppi islamisti […]. C’è il rischio che questa evoluzione assuma una dimensione sociale. L’espressione di solidarietà con i palestinesi è legittima – come è legittimo che altri nella democrazia esprimano la loro solidarietà con Israele. Ma ciò che è nuovo è che abbiamo visto delle associazioni islamiche locali marciare accanto a dei gruppi che fanno parte dell’estrema destra […] mescolando l’antisemitismo tradizionale e una fobia per gli ebrei con una visione salafista del mondo. Questa confusione populista – espressione di una sofferenza sociale -, costituisce al giorno d’oggi un problema importante […].
Come fare per diminuire il miscuglio esplosivo da lei descritto?
Si può cercare quantomeno di evitare la balcanizzazione della società francese. Quando ci sono degli incidenti, di solito vengono convocati dei rappresentati dei culti musulmani ed ebraici. Ma ciò è sbagliato, poiché disponiamo – nelle assemblee della Repubblica francese – di migliaia di eletti di confessione musulmana. Sono deputati che certamente hanno un rapporto molto variegato con la loro fede – dal rigorismo più severo all’indifferenza. Allo stesso modo ci sono degli eletti di origine ebraica. […] Perché non facciamo ricorso a loro? Tutti i consigli comunali delle città più popolose comprendono personalità rappresentative della diversità, in alcuni casi molto legate alle aspirazioni degli ambienti da cui provengono, ma legate anche al patto repubblicano e alla macchina politica francese. Certo, il culto ha diritto di esprimersi. Ma la rappresentanza nazionale dà un’immagine più fedele del “paese reale”.
Non ci sono anche dei modelli alternativi al salafismo all’interno del mondo arabo stesso?
La posta in gioco più grande per la Francia si trova in Maghreb. Un decimo della popolazione tunisina vive in Francia (tra 600’000 e 1 milione di persone, clandestini compresi). Nel parlamento tunisino ci sono dieci deputati eletti dai tunisini di Francia. Ora, per la prima volta in un paese del Maghreb, un governo non ha costruito la sua legittimità sulla lotta contro il colonialismo francese, ma sulla lotta contro un dittatore sorto dall’indipendenza. Ciò permette alla Tunisia di avere una relazione molto più rilassata con la Francia, poiché essa prende meglio in conto la realtà dei flussi economici e migratori. […] Ciò spiega anche il motivo per cui tra i Paesi scossi dalla rivoluzione araba, la Tunisia sia l’unico a non trovarsi in uno stato catastrofico. Una classe media a cavallo delle due rive del Mediterraneo è riuscita a prendere in mano il destino del Paese, compreso il gruppo islamico Ennahda. Visto che c’è una carenza di modelli antagonisti, l’evoluzione della Tunisia, valutando le dovute proporzioni, è sufficientemente rara e positiva, affinché la si incoraggi (in chretiensdelamediterranee.com, intervista a cura di Gaïdz Minassian e Nicolas Weill; trad. it. Elia Lagattolla).
Tratto da: http://voceevangelica.ch/
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