Nella Bibbia non è il lavoro a essere una maledizione, ma la sua gravosità.
(Antoine Nouis) Ogni mestiere, ogni impiego può diventare una vocazione dal momento in cui viene concepito come una partecipazione alla creazione di Dio.
In ebraico sono due le parole usate per evocare il lavoro. Melakha, che considera il lavoro come vocazione, come partecipazione all’opera della creazione; e avodah, che rimanda alla schiavitù, al lavoro come peso.
Il lavoro gravoso
Al capitolo 2 della Genesi Dio pone Adamo nel giardino per custodirlo e coltivarlo. La cultura in tutti i sensi della parola e la protezione alla quale possiamo associare la cura rientrano in questa vocazione fondamentale. È il lavoro come creazione.
Ogni mestiere, ogni impiego può diventare una vocazione
Al capitolo 3, quando l’umano rompe la relazione armoniosa con il suo creatore, incontra l’avarizia della terra, le spine dei cardi e il sudore necessario per far crescere il grano. La vocazione si trasforma in schiavitù.
Collaboratori di Dio
Questa opposizione valorizza la prima comprensione del lavoro come partecipazione all’opera di Dio. La Bibbia gli accorda una grande dignità, a differenza del mondo greco in cui un cittadino che si rispettasse non doveva lavorare. Nel Gorgia di Platone, quando Socrate domanda a Callicle se autorizzerebbe sua figlia a sposare il figlio di un ingegnere, possiamo attualizzare la riflessione sostituendo il termine ingegnere con lavoratore immigrato. Se Aristotele ammette che una società ha bisogno di lavoratori agricoli, di artigiani e di ingegneri, è per precisare che tali compiti sono riservati ai servi e agli schiavi e non ai cittadini liberi.
Ebrei e greci
Contrariamente al mondo greco-romano, il mondo ebraico considera il lavoro come un dovere. Il Talmud afferma che anche se un uomo può dare a sua moglie cento domestiche, bisogna nondimeno che lei faccia da sé una parte dei lavori di casa. A chi dice: “Sono di famiglia nobile, non posso abbassarmi a lavorare”, i commentari rispondono: “Eppure qualcuno che è ben più in alto di te non si è vergognato di lavorare: Dio stesso. La prova è che dopo la creazione si riposò da tutta l’opera che aveva fatto [Genesi 2,3]”. Nell’Antico Testamento la benedizione dell’uomo felice è di poter gioire del lavoro delle sue mani (Salmo 128,2).
Il comandamento essenziale concernente il lavoro è quello che afferma: “Lavorerai sei giorni… e il settimo giorno non farai alcun lavoro” (Esodo 20,9-10). Questa parola non sottolinea soltanto il comandamento del riposo, ma presenta l’importanza dell’alternanza lavoro-riposo. È la coppia lavoro-riposo che opera una santificazione del tempo. L’opposizione della Bibbia non si situa tra il lavoro e il non lavoro, ma tra la coppia lavoro come vocazione-riposo sabbatico da un lato e la coppia lavoro come schiavitù-riposo come inoperosità dall’altro.
È la coppia lavoro-riposo che opera una santificazione del tempo
Etica protestante del lavoro
In questa prospettiva i Riformatori hanno sviluppato un’etica del lavoro a partire dalla nozione di vocazione. In un mondo in cui il termine si applicava al religioso, Lutero l’ha democratizzato affermando che la vocazione concerneva anche il mondo profano. Il calzolaio che ripara scarpe e la madre di famiglia che fascia il figlio, essendo abitati dalla convinzione di glorificare Dio sono portatori di una vocazione proprio come il sacerdote. Lutero è andato persino oltre, criticando l’ozio dei monaci della sua epoca: “Bisogna detestare il loro sonno pesante e i loro sbadigli, la loro vergognosa pigrizia o la loro indolente sicurezza”.
L’apologo degli scalpellini
Sulla scia di Lutero, Calvino lottò contro l’accattonaggio a Ginevra. Il povero non è più un’immagine di Cristo che bisogna onorare, ma diviene qualcuno a cui bisogna dare un lavoro affinché ritrovi la sua dignità e cessi di essere povero.
Calvino insisteva affinché ognuno discernesse il mestiere a cui Dio lo aveva destinato. Con il suo lavoro l’umano diventa un “collaboratore di Dio”. Possiamo illustrare il suo approccio con l’apologo dei tre scalpellini. A ciascuno di essi fu chiesto che cosa facesse. Il primo rispose che spaccava pietre, il secondo che lavorava per mantenere la sua famiglia e il terzo che costruiva una cattedrale. Qual è la nostra cattedrale?
Martin Luther King scrisse: “Chi è chiamato a fare lo spazzino deve spazzare le strade come Michelangelo dipingeva o come Beethoven componeva o come Shakespeare scriveva. Deve spazzare le strade così bene che tutti gli ospiti del cielo e della terra si fermeranno per dire: ‘Qui ha vissuto un grande spazzino che fece bene il suo lavoro’”.
In tutti i mestieri si possono trovare uomini e donne raggianti. Conservo il ricordo del viso di un custode d’immobile, di una venditrice di giornali, di un agricoltore e di un imprenditore che sono stati per me testimonianze di fede nel loro mestiere.
Qualità del lavoro
Da tre decenni il dialogo sociale tra sindacati e padronato ruota regolarmente intorno alla durata del lavoro, che sia la durata della settimana lavorativa o l’età del pensionamento. Il punto in comune di tutte le trattative è che poggiano su un postulato di base: il lavoro è male e lavorare il meno possibile o andare in pensione è la felicità.
È permesso mettere in dubbio questo postulato? Se il sogno è di non lavorare, perché la disoccupazione è una maledizione? Perché i primi anni di pensione sono talvolta difficili da negoziare? Perché così tanti uomini politici proseguono la loro attività dopo l’età del pensionamento? Un amico mi diceva che la prospettiva che gli si apriva per il prossimo decennio era di avere un carico di lavoro ponderoso per cinque anni e poi di essere in pensione i cinque anni successivi. Aggiungeva che se avesse potuto scegliere avrebbe preferito di gran lunga lavorare a metà tempo per i prossimi dieci anni.
La Bibbia ci invita non tanto a lottare contro la durata del lavoro quanto contro la sua gravosità
La vera riforma consisterebbe nell’aumentare la qualità del lavoro piuttosto che nel ridurne la quantità. (da Réforme; trad. it. G. M. Schmitt)
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