Forse la benna d’una ruspa, forse un cellulare che suona, forse una unità cinofila, forse una torcia, una piccozza o una pala; probabilmente una coperta, una borraccia, una scorta di bende e cerotti, o magari una flebo; forse una fune, una maschera od un paio di robusti stivali; forse qualcosa, forse tutto o forse niente di tutto questo, per ciò che il più delle volte può sembrare un puro caso; come, insomma, si possa salvare la vita in una situazione catastrofica come quella abruzzese, nessuno effettivamente lo sa.
E tanto più s’accende il dilemma, prescindendo dalla sua eventuale risolvibilità, se si possa, ora o in un domani più prossimo, prevedere o meno un terremoto, quanto più s’accentuano da un lato la evidenza della concreta natura della scienza, e dall’altro la diarchia della realtà umana costituita dalla irrinunciabile dicotomia del binomio certezza-incertezza.
Sul primo versante una rapida considerazione s’impone: la triste vicenda del terremoto dimostra che la scienza non solo non è qualcosa di assoluto, ma ogni qualvolta essa venga assolutizzata si tradisce il suo statuto gnoseologico fondato in modo inderogabile sulla logica dell’ipotesi, cioè non tanto su una razionalità presuntuosamente teorizzatrice (come ravvisa la gran parte dell’attuale mondo scientifico contemporaneo), quanto piuttosto su una ragionevolezza umilmente postulatrice (come ricordano la Chiesa cattolica e l’intera tradizione filosofica occidentale).
Insomma, sia che un giorno la prevedibilità dei terremoti diventi possibile, sia che se ne suggelli la irrealizzabilità, un dato resta autenticamente certo: la conoscenza della natura da parte dell’uomo non è sufficiente per considerare compiuta la sua esistenza, così come non lo è il controllo che l’uomo può o potrebbe esercitare sulla natura medesima; in altre parole, vi sono dei limiti naturali insormontabili che pur determinando i confini delle potenzialità dell’umanità, ne delineano all’un tempo la natura, cioè una natura fallibile.
Proprio per questo, una scienza di un essere naturalmente limitato quale l’uomo è, non può auto-pretendersi né essere interpretata come svincolata da qualunque limite o senso dello stesso, poiché ne sarebbe fraintesa la più intima struttura epistemologica, l’essenza, il significato e perfino la funzione, cioè quella legittima di scoprire ed indagare il mondo, pur nella consapevolezza dell’impossibilità di ricomprendere l’interezza di quest’ultimo esclusivamente all’interno della metodologia scientifica medesima.
E questo introduce la seconda, e pur tuttavia principale, considerazione.
Nel momento in cui si è scoperto che non tutto può essere scoperto, quando tutto ciò che si è costruito in una vita viene perduto in un attimo, quando il cuore si piega sotto il dolore della perdita totale come l’acciaio si strazia per la violenza della terra che tuona, quando la casa che accudisce la propria vita si sfarina diventando la culla di una inesorabile morte, cosa resta se non la certezza dell’incertezza dell’esistenza? Anzi: non è proprio in un tale momento che la precarietà del mondo sollecita un ardente desiderio di stabilità? E non è forse questo stridente paradosso che lega precarietà e stabilità, certezza ed incertezza, fragilità e forza, a suggerire a voce alta che anche temporaneità ed eternità sono legate dallo stesso rapporto?
Ancora di più: non è forse l’immanenza effimera di questo mondo a rendere possibile che ci si rivolga alla trascendenza?
E mettendo da parte ogni logica ingenuamente materialista per cui sarebbe questo senso di bisogno a far creare alla fantasia dell’uomo la dimensione della divinità, come ricorda Karl Jaspers a proposito delle affermazioni secondo cui “Dio è creato dall’uomo”, trattandosi cioè «di espressioni dette con leggerezza che non corrispondono a verità, come si constata qualora si approfondisca il loro senso», non si può non notare che è proprio nei momenti sopra descritti che maggiormente si è portati a considerare ciò che normalmente si trascura, si ignora, si dà per scontato, cioè Dio.
A questo punto risulta evidente che non è tanto vero che vi sia l’assenza di Dio davanti ad un bambino che muore schiacciato dalle macerie di un intero palazzo, quanto piuttosto che vi sia la sua presenza nel caso in cui sia la madre a fare da scudo salvandolo. Similmente si può dire per un marito che protegge la moglie, di un nipote ritrovato abbracciato alla nonna (entrambi deceduti) dopo essersi da lei recato per darle conforto in seguito alle prime scosse, o di chi che ha tenuto compagnia, tramite cellulare, all’amico morente per più di otto ore in attesa del tardivo recupero.
La presenza di Dio, insomma, si ritrova in questa “passione-per-l’altro”, in questa compassione, proprio nel senso etimologico di “soffrire-con”, compatire appunto. E dove se non nell’impianto culturale ed etico del Cristianesimo si può ritrovare questa passione? Non è forse la passione di Cristo la testimonianza più brillante della logica di sacrificarsi per l’altro? Non ha forse Cristo nella sua passione e morte celebrato il sacrificio di sé, figlio di Dio, Dio Egli stesso, per salvare, per fare da scudo, contro le macerie della vita, all’intera umanità donandole la possibilità della vita eterna?
E la voglia di partecipare ai soccorsi, il testimoniare la vicinanza alle popolazioni, il chiedersi come, con cosa, quando portare aiuto ai superstiti, non è il più palese sintomo di questa insopprimibile passione cristiana per l’altro?
Ed ecco allora che nell’istante in cui molti si barcamenano tra lo sgomento e la compassione, interrogandosi su quale possa essere lo strumento più adatto per salvare i superstiti, ci si rende conto, ancora una volta, abbandonando le braccia sconsolate lungo i fianchi, della propria impotenza di uomini.
Ma è in questo preciso momento che, quasi l’avesse deciso da sola sotto lo sguardo stupito di occhi sbarrati, la mano destra lascia il fianco, si dirige verso la fronte, poi verso il petto, quindi verso la spalla sinistra e poi verso quella destra, e così, obbedendo al cuore, tramite l’unico vero kit di sopravvivenza a disposizione, invoca per tutti, colpevoli e innocenti, cattivi amministratori e cattivi amministrati, defunti e superstiti, la misericordia di Dio.
Foto Ansa
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