Quando il 19 agosto gli analisti del Security Service britannico hanno visto il video in cui un uomo vestito di nero lanciava “un messaggio all’America” uccidendo il giornalista statunitense James Foley, non sono stati colpiti soltanto dalla violenza, dallo stile cinematografico del filmato o dalla location scelta. No, ciò che hanno notato con sgomento è stato il suo accento, che non lasciava dubbi: “John” è un cittadino britannico, e le indagini successive hanno confermato questa sensazione, permettendo di identificare l’uomo in nero con il londinese Abdel-Majed Abdel Bary.
Non è la prima volta che combattenti europei partecipano a conflitti tra le file jihadiste, ma non ci sono mai stati numeri simili a questi: sono più di tremila i musulmani europei andati a combattere in Siria e Iraq in nome della guerra contro l’Occidente. Hanno attraversato un processo di radicalizzazione che affonda le sue radici negli anni Ottanta e Novanta, a partire insomma dai primi conflitti mediorientali come quello in Libano, e che ha saputo cambiare pelle adattandosi ai tempi. Se nel secolo scorso erano i reclutatori a cogliere le debolezze dei ragazzi che affrontavano il difficile percorso di integrazione in Europa, oggi l’estremizzazione procede per via individuale o in piccoli gruppi a matrice familiare, e trova in Internet uno strumento fondamentale per “entrare nel giro”. Secondo il sociologo dell’Islam Renzo Guolo, il web fornisce «straordinarie possibilità, contatti e influenze, annulla e comprime le distanze spaziotemporali, e rende possibile il fatto che una persona che vive a Londra, in Germania o in Italia possa decidere di andare a combattere il jihad come esperienza missionaria e militare insieme».
«È un fenomeno della società globale – continua Guolo – perché si radica soprattutto tra immigrati, oppure tra cittadini di seconda generazione o ancora tra convertiti. Qualunque sia il nostro giudizio politico, parliamo di un fenomeno collettivo importante, che ci dice che l’Islam radicale come ultima grande ideologia totalizzante è andato più avanti del progetto politico che gli stessi gruppi radicali sostengono, nel senso che l’ideologia dello scontro globale con l’Occidente ha fatto proseliti proprio nell’Occidente stesso».
Lo stesso discorso, anche se su scala minore, vale per l’Italia, un paese che ha contribuito finora al jihad con una decina di giovani, che hanno deciso di partire per combattere in Siria e Iraq. Il nostro paese si trova nelle retrovie del radicalismo islamico rispetto a realtà come quella del Regno Unito o dell’Olanda, anche per la sua storia di immigrazione, più breve e meno strutturata rispetto a quella di paesi che hanno attraversato un’esperienza coloniale.
Ponendo l’accento su questa situazione, alcuni partiti politici contrari al multiculturalismo, tra cui la Lega Nord, hanno a più riprese lanciato appelli per la chiusura delle moschee e dei centri culturali islamici nel territorio europeo. Ma risolverebbe qualcosa? No, secondo il ricercatore del Center for Security Studies Lorenzo Vidino: «Molti dei network jihadisti autoctoni osservati in Europa negli ultimi dieci anni dimostrano scarsi legami con le grosse moschee, e non hanno, perlomeno all’inizio delle loro attività, alcuna connessione con gruppi jihadisti strutturati». Il vero problema sembrerebbe piuttosto capire cosa potrà diventare l’Islam in Europa, e in particolare in Italia, nei prossimi anni, perché è vero che, secondo Guolo, «il fatto che esistano questi centri di cultura islamica permette un maggiore controllo dal punto di vista della sicurezza», ma nel nostro paese ci sono circa 1.600.000 musulmani, che compongono la seconda fede per numero di credenti, e stiamo parlando dell’unica religione monoteista storica priva di un’Intesa con lo Stato, in quanto fino ad oggi ritenuta prevalentemente straniera. La situazione sta cambiando, e non si possono dimenticare le seconde generazioni, ovvero italiani a tutti gli effetti, e i circa 50.000 convertiti, per cui non sarà possibile continuare a considerare l’Islam in Italia una fede di “secondo piano”, anche per il rischio della radicalizzazione.
Ma come prevenire la comparsa di nuovi “John”, magari italiani? «Deve nascere all’interno dell’Islam italiano una discussione chiara su come affrontare queste questioni – racconta Ludovico Carlino, ricercatore del Cisip, il Centro Italiano di Studi sull’Islam Politico – non è così semplice, perché stiamo ancora affrontando questi temi con uno sguardo che, dalla questione siriana e irachena al conflitto israelo–palestinese, è ancora molto diverso da quello di chi proviene dalla realtà mediorientale. Si fa fatica a volte a mediare, ma solo un contrasto culturale e che proviene dall’interno della comunità islamica potrà mettere un argine a tutte le derive jihadiste».
Tratto da: http://www.riforma.it/
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