I pericoli più gravi per la laicità non vengono dalla religione, ma dall’affermarsi di discorsi e di pratiche di esclusione.(Gérard Delteil) Ogni religione porta in sé la propensione all’intolleranza perché tende alla ricerca dell’assoluto e si espone perciò al pericolo di assolutizzare le proprie convinzioni. E in genere fatica ad accettare che queste siano messe in discussione. “Il pericolo della violenza”, ha detto il filosofo protestante francese Paul Ricoeur, “deriva dal fondo stesso di una convinzione forte”.
E qui scopriamo l’ambiguità fondamentale del religioso. La religione è il legame con l’Altro, il patto, l’alleanza. È così anche nella tradizione biblica, legata a una Parola che precede e chiama, fondata sulla relazione con l’Altro, creatrice di legami con gli altri e portatrice di una dinamica di apertura. Tuttavia – e in questo risiede l’ambiguità – tale apertura corre sempre il pericolo di trasformarsi in chiusura. Il linguaggio che collega e mette in relazione può diventare un linguaggio che esclude “l’altro”. Il linguaggio che permette di radicarsi in una storia, in una tradizione, in una genealogia può diventare un linguaggio che rinchiude o che genera un’adesione acritica.
La figura del profeta
Il profeta è la persona che alza la propria voce in nome di Dio per denunciare l’uso perverso della fede. Quando la violenza prende il sopravvento, il diritto dei deboli è calpestato, la religione e le sue cerimonie coprono l’ingiustizia, il profeta esce dai ranghi per ribadire il messaggio originario. Il profeta è portatore di un discorso critico e polemico, che mette in questione ogni certezza e può spingersi fino ad annunciare la fine del Tempio. La tradizione biblica porta dunque in sé il germe della propria contestazione, il principio della permanente autocritica.
Il messaggio religioso porta in sé un appello a camminare controcorrente, anche rispetto a se stessi. Ci può essere religione, dice Ricoeur, “ogni volta che qualcosa mi viene detto a partire da un luogo che io non occupo”. Detto altrimenti: “Il messaggio mi supera e nel contempo mi disarma”. Esso mi spinge ad oppormi alla componente violenta che si nasconde in ogni religione.
È possibile concepire il rapporto tra religione e laicità in modo tale che la visione religiosa stessa richieda la laicità? Ritengo che questo paradosso costituisca precisamente una delle caratteristiche della narrazione cristiana.
Gesù è un laico
Egli non è un prete e non fa parte di nessuno dei partiti religiosi della sua epoca. Sfugge a ogni classificazione e categoria religiosa. Il suo discorso ha spesso un tono laico. Parla in parabole, e le parabole non sono altro che delle piccole narrazioni di vicende quotidiane. Più ancora, egli entra in conflitto con i religiosi di tutte le tendenze, ad esempio sulla questione del puro e dell’impuro, di ciò che è permesso fare e di ciò che non sarebbe lecito fare, o ancora sulla questione dello straniero (il buon samaritano). Fin dalla sua prima apparizione il conflitto con i religiosi si acuisce fino al punto da lasciar intendere l’esito finale dello scontro. Gesù è stato condannato dall’istanza religiosa legittima, depositaria del sacro, per oltraggio alla religione.
Gesù laicizza la relazione con Dio
Egli rovescia la visione religiosa del mondo determinata in profondità dalla separazione tra sacro e profano. Per Gesù, il rapporto con Dio e con il prossimo sono inseparabili. L’uno rinvia all’altro, l’uno dipende dall’altro. Il rapporto con Dio passa attraverso il rapporto con l’altro, con il prossimo, in modo particolare con lo straniero e l’escluso. Gesù è portatore di una umanizzazione radicale di ogni atto religioso. Egli mette in atto un modello di integrazione che trasgredisce e supera ogni forma di discriminazione, che riunisce i diversi e viola i tabù religiosi per mostrare a ciascuno la dignità inalienabile che egli riconosce nella persona che gli sta di fronte.
Gesù è un Messia al contrario
Chi è il Messia? È il grande eroe, il liberatore la cui venuta e il cui trionfo inaugurano la rigenerazione dell’universo. Ma Gesù è diverso. Sostituisce questa figura con la figura di un crocifisso, cioè con la figura di uno che non ha nessun potere. È il contrario del Messia. Ed è anche il contrario della figura dell’imperatore. L’imperatore, venerato come un Dio, seduto in cima alla piramide dell’autorità umana, simboleggia la divinizzazione del potere. A questa figura si contrappone, laggiù in basso, il volto di un uomo portato al supplizio, uno tra i tanti condannati dell’impero romano. La narrazione cristiana opera qui una radicale laicizzazione della figura di Dio: siamo di fronte a un rovesciamento completo di tutte le nostre raffigurazioni di Dio. Non è da un luogo di onnipotenza, ma da questo luogo di non-potenza che giunge la parola di Gesù, come una parola vulnerabile e contestata. E questa parola chiede una libera risposta di fede. Il modo scelto da Dio per mostrarsi, nella figura del crocifisso, qualifica il mondo come uno spazio laico, lo definisce come casa comune degli esseri umani.
La comunità di Gesù, che vive di questa parola, non è chiamata né a regnare né a spadroneggiare. Non è chiamata a esercitare nessun magistero – e fosse anche solo morale – sulla società umana. Non è chiamata a presentarsi come “esperta d’umanità”. Non è incaricata di definire le regole comuni, né le norme universali, e non ha ricevuto l’incarico di stabilire permessi e divieti. Essa ha, in virtù del messaggio di cui è portatrice, il compito di interpellare i poteri – quando i diritti umani sono calpestati, i diritti degli stranieri non sono rispettati – ma senza dimenticare che anche altre associazioni svolgono questa funzione.
La comunità di Gesù non è chiamata ad altro che a ripetere, con la propria esistenza, questo paradosso di un Dio laico, un Dio che rompe con ogni posizione di supremazia e decide di aprire lo spazio della responsabilità umana.
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