Pubblichiamo un’intervista rilasciata dal professor Giuseppe Noia che parla della professione del medico e della cura dei bambini che ricevono diagnosi infauste sin nel grembo materno e delle loro famiglie. Se per caso qualcuno dei nostri Lettori ancora non conoscesse il nostro caro Amico, è docente di Medicina prenatale all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, direttore dell’Hospice Perinatale – Centro per le cure palliative prenatali e postnatali S. Madre Teresa di Calcutta del Policlinico Gemelli e presidente della fondazione Il Cuore in una Goccia. Quest’ulima è inoltre l’associazione che, insieme a Pro Vita & Famiglia onlus, ha dato vita lo scorso maggio alla “Casa di Chiara”, il progetto che mette a disposizione un appartamento sito a Roma, in Via Angelina Marsciano, 20, predisposto per accogliere e assistere gratuitamente famiglie che in gravidanza, a causa di condizioni patologiche prenatali che compromettono la salute del nascituro e/o della madre, si trovano a dover soggiornare a Roma, anche per lunghi periodi, per usufruire di cure altamente specialistiche.
Professor Noia, che cosa l’ha appassionata nella sua missione di prendersi cura di chi non ha voce?
«Come medico mi sono chiesto quale fosse il cuore di questa mia scelta e avendo avuto una scuola personale di esempi tutti dediti al servizio, mi sono reso conto del “dono” che potevo essere per gli altri. Il dono è quello di fare qualcosa di vero, di sentirsi utile, di essere mezzo per lenire la sofferenza, di dare sollievo a chi vive la “condizione” del dolore fisico, psicologico, in definitiva di mettere a disposizione degli altri i migliori anni e le migliori risorse della mia vita, il “meglio di me”. C’era anche la segreta ambizione di tutti i giovani sognatori di diventare “grande” in qualche cosa e quindi ho cominciato a lavorare per poter fare ricerca scientifica. Ma quando incominciai la specializzazione in Ginecologia mi resi conto che, per il mio tempo, la risposta a diventare “grande” in qualche cosa mi spingeva più verso le persone che verso un laboratorio, più verso la clinica che verso la ricerca di base.In quegli anni il valore della vita umana, ai suoi albori, veniva legalmente e scientificamente attaccata (la legge sull’aborto è del maggio 1978 e la prima nata da fecondazione extracorporea è del luglio dello stesso anno). Capii molto bene che il nucleo del problema non solo scientifico ma anche giuridico, etico e sociopolitico era l’embrione e tutto ciò che intorno a lui ruotava: la coppia, la famiglia, l’affettività, la sessualità umana. Era lui il segno di contraddizione, era il valore della vita e quella più debole il campo di battaglia, era la verità sulla persona umana la posta in gioco!»
Quali sono i consigli per chi ci legge? Il pubblico è vasto: padri, madri, nonni, cristiani e miscredenti. C’è un trait d’union che può tracciare tra tutte queste esperienze?
«I consigli per chi ci legge devono partire da una realtà antropologica e psicosociale che è la povertà delle relazioni, come afferma il grande sociologo Pierpaolo Donati. E, se sul piano antropologico è profondamente vero che la povertà più grande del nostro tempo è quella delle relazioni, è ancora più vero per un medico perché, più che mai, oggi il medico ha bisogno di imparare “l’arte del relazionarsi” e deve impararla guardandosi dentro, non solo con gli occhi della mente e del corpo, ma soprattutto con gli occhi del cuore. Oggi più che mai il medico deve educare gli occhi del cuore perché essi possano vedere cose che gli occhi del corpo non vedono. Un cuore educato, allenato “a darsi” acuisce l’intuizione clinica del sintomo e fa guardare a tutta la persona, alla sua storia personale e al contesto in cui vive, e non solo a una parte del suo corpo cosicché, la persona malata, sofferente, avverte le “vibrazioni” umane del medico che si interessa di lei. Il rapporto di transfert fiduciale nasce e aumenta se c’è un vero interesse per quella persona da parte del medico. Il malato lo “sente” dai modi con cui è trattato e dal tempo che gli si dà. Così inizia una precoce “predisposizione terapeutica” del paziente che si traduce anche in nuove energie, speranze, buon umore e lo fa uscire dall’hangar della solitudine in cui spesso viene parcheggiato o si auto parcheggia dinanzi al problema medico “perché non c’è tempo per ascoltarlo e si devono fare tante altre cose!”. Nella moderna medicina, lavorando in équipe multidisciplinare, l’approccio è spesso sbilanciato: molta tecnologia, molte riunioni e discussioni, molta onestà nella ricerca scientifica, ma poca relazionalità verso il paziente, i suoi parenti, il suo contesto esistenziale. Apparentemente tutto ciò sembra poco rilevante, ma quante volte il percorso diagnostico, con la complessità delle metodologie e delle tecnologie, ci toglie relazione clinica con il paziente? Questo modo di fare, questa povertà di metodologia relazionale è un grave danno alla professionalità, e spiego perché: il medico è la figura che scientificamente, giuridicamente, socialmente e umanamente dovrebbe saper gestire il dolore, la sofferenza fisica e psicologica dei suoi pazienti. Mi sembra di assistere però sempre più alla “fuga” del medico dinanzi alla gestione del dolore e della sofferenza. Abbiamo esempi recentissimi e meno recenti di tentativi di fuga o comunque di approcci sbagliati alla gestione del dolore e della sofferenza».
Le cifre sugli aborti eugenetici sono allarmanti: in Italia addirittura più del 6% (circa 5.000 aborti eugenetici ogni anno). Secondo Lei, ciò è dovuto più a paura, disinformazione, o ad altri fattori culturali?
«La risposta è un insieme di tutte e tre le componenti: la paura del proprio futuro e di quello del proprio bambino; la constatazione di una società che emargina sempre più il disabile o comunque il portatore di un handicap; la perdita del senso di solidarietà in una società sempre più centrata sull’individuo, su sé stessi, sulla mancanza di speranza nel futuro. In tutte queste tre condizioni, il fattore culturale della mancanza di conoscenza è fondamentale. La conoscenza sviluppa la consapevolezza di quella che è la realtà del dono del figlio e questo passaggio dall’informazione alla conoscenza deve essere fatto da un approccio multidisciplinare che personalizza il caso clinico in relazione al tipo di patologia e al tipo di terapie pre e postnatali che possono essere effettuate, come ho scritto sul sito della fondazione Il Cuore in una Goccia l’11 giugno del 2021 (Diagnosi prenatale: strumento di selezione eugenetica o aiuto alla scienza prenatale?). Un altro aspetto molto importante è il counselling dopo la diagnosi. Non è, infatti, pensabile lasciare in mano ai futuri genitori una diagnosi di patologia senza metterli in condizione di comprenderla in tutti i suoi aspetti. È necessaria una consulenza professionale che consenta di confrontarsi con i genitori fornendo loro un’informazione medica accurata e completa, valutando insieme a loro le procedure terapeutiche necessarie, il rapporto rischio/beneficio e l’accettabilità etica. Tre sono gli obiettivi che il ginecologo deve sempre seguire nella sua attività clinica finalizzata sia alla difesa della vita nascente che all’impedimento di un accanimento terapeutico esecrabile: informare correttamente, ottenere una valutazione globale del benessere fetale e supportare il principio di dignità e sacralità della vita umana. Ma cosa succede se il risultato di una diagnosi prenatale indica una condizione di terminalità del nascituro? Se non c’è spazio per alcuna possibilità terapeutica si può continuare a dare un indirizzamento rispettoso della dignità e della sacralità della vita nascente alla procedura diagnostica? La risposta è sì. In tali casi la proposta ai genitori è quella dell’“accompagnamento” del bambino fino all’esito naturale. L’accompagnamento è definito dal punto di vista medico come un atto terapeutico a tutti gli effetti e dal punto di vista genitoriale come naturale prosecuzione della maternità e paternità. Un percorso che, seppur considerato da alcuni improponibile, un’ormai ampia esperienza scientifica e testimoniale ha validato come fortemente consono e in linea con un’evoluzione naturale del percorso genitoriale; anche il Cdc di Atlanta ha rilevato che ci sono sempre più genitori che desiderano accompagnare i loro figli gravemente malati fino all’ultimo momento».
Reputa che il Legislatore debba intervenire con una riforma strutturale?
«Sicuramente il Legislatore deve intervenire quando vi sono condizioni per dare pari opportunità alle famiglie dinanzi alla vita nascente: in caso di una malformazione fetale, l’offerta che viene sempre fatta è quella dell’interruzione di gravidanza, configurando nel panorama sociale un eugenismo di sostanza salvando la forma. Tuttavia, la legge 194 permette di fare una scelta in senso di interruzione, ma l’art. 5 propone alla coppia un’alternativa all’interruzione. Quindi, ci dovrebbero essere due percorsi uno alternativo all’altro. Tuttavia, per quelle famiglie che, come riporta anche il Cdc di Atlanta, desiderano accompagnare i loro figli gravemente malati fino all’ultimo momento, non c’è nessun servizio né aiuto, da parte dello Stato, che possa sostenere questa scelta. Come si vede non esistono condizioni di pari opportunità sociali perché per le prime lo Stato offre una serie di sostegni e facilitazioni per l’interruzione, mentre per le seconde non offre nulla. Nell’esperienza dell’Hospice perinatale, ufficializzato al Policlinico Gemelli nel 2015 (1° Hospice perinatale in Italia ufficializzato in una struttura universitaria), l’accompagnamento fa parte di una quadruplice alternativa che dopo una diagnosi infausta viene proposta alla coppia. Il primo momento è la precisazione diagnostica, dopo l’accoglienza e l’ascolto della vicenda clinica, e questo è importante perché, da studi pubblicati, c’è una discrepanza che arriva fino al 40% tra le diagnosi prenatali ecografiche e la conferma al reperto autoptico dopo l’interruzione. Il secondo momento è quello di offrire terapie e interventi prenatali, invasivi e non invasivi, ecoguidati, in quelle condizioni in cui è possibile curare e prendersi cura. Una terza possibilità è quella di fare anche trattamenti palliativi analgesici e clinici, invasivi e non invasivi, per impedire che il feto senta dolore. E quando non è possibile fare terapie prenatali e/o trattamenti palliativi, si propone l’accompagnamento che – ripeto – da un punto di vista medico è un atto terapeutico a tutti gli effetti, e da un punto di vista genitoriale una naturale prosecuzione del progetto di maternità e paternità che la coppia ha da sempre sognato e vuole continuare a esprimere».
Professore, per Lei è importante un protocollo etico per le situazioni di criticità prenatale, quindi auspicherebbe che l’Ordine dei Medici inserisca questo in una clausola della deontologia professionale?
«Sicuramente il “protocollo etico” è una risposta al dare dignità a una vita fragile della quale, in tutti i Paesi civili, ci si impegna a prendersi cura. Ma questa domanda mi è particolarmente cara perché, proprio il 25 marzo 2022, è stato ufficializzato al Policlinico Gemelli il Percorso Clinico Assistenziale per maternità con patologie fetali ad alto rischio e/o terminali (Hospice perinatale – Centro per le cure palliative prenatali e postnatali – S. Madre Teresa di Calcutta – Policlinico Gemelli – Roma). I tre criteri cardine sono: la richiesta di presa in carico della famiglia che viene informata dell’esistenza di un percorso assistenziale dedicato; la necessità di favorire i processi decisionali, i tempi e le modalità di presa in carico assistenziale in essere, in linea con i principi etici alla base della fondazione Policlinico Gemelli Irccs e della Chiesa cattolica; la volontà di evitare qualsiasi forma di accanimento terapeutico così come di abbandono terapeutico. In questo percorso clinico-assistenziale il momento fondamentale è la consulenza in Hospice: in questa fase vengono distinte le forme di terminalità reale dove purtroppo la storia naturale non può essere cambiata (per es. anencefalia, acrania, agenesia renale bilaterale, trisomia 13, ecc.) dalle forme di terminalità indotta da una forma di medicina difensiva o da una mancata conoscenza della storia naturale di quelle patologie o spesso da una forma di accidia intellettuale, intesa come forma di resa scientifica, pensando che dinanzi ad alcune situazioni cliniche non si possa più fare nulla (e invece si può fare molto). Infatti, in queste ultime forme di terminalità indotta, al Policlinico Gemelli abbiamo sviluppato da più di 30 anni diversi approcci di terapie fetali, invasive e non invasive, trattamenti palliativi prenatali analgesici e clinici per mitigare il dolore del piccolo paziente, con risultati in termini di sopravvivenza e di follow up assolutamente accettabili. Mi riferisco a patologie come anemie gravissime del feto, di gozzo fetale ad alto rischio di ritardo mentale, di patologie ostruttive del distretto urinario, di versamenti in cavità toraciche e addominali con grosso rischio di scompenso cardiaco e morte fetale, e diverse altre forme di interventi prenatali con percentuali di bimbi in braccio e in buona salute tra il 60 e il 70%. È ovvio che sia auspicabile che l’Ordine dei Medici inserisca tutto questo patrimonio di conoscenze e di risultati clinici in una clausola di deontologia professionale. Le preclusioni ideologiche non possono silenziare il patrimonio che la scienza prenatale ha acquisito negli ultimi 30 anni della medicina fetale, soprattutto perché, al di là delle appartenenze politiche o religiose, questo impegno verso le fragilità prenatali fa parte di un approccio alla realtà umana e alla sua sofferenza. La cultura dell’Hospice perinatale, infatti, è una risposta al dolore totale, fisico (pain) e psicologico (sufference) del feto, della coppia e dell’intera famiglia. Questo approccio multidisciplinare e interdisciplinare è come se fosse un “abbraccio” perché: unisce competenza e accoglienza, unisce evidenza clinica ed empatia relazionale, unisce servizio e compassione e, in definitiva, unisce Scienza e Coscienza. Infatti, essa avvicina sempre più la scienza alla sofferenza dilatando il concetto di Medicina condivisa, condivisa tra i medici delle varie discipline e condivisa tra i medici e le famiglie con l’unico obiettivo per un servizio autentico alla persona umana».
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