Perché facciamo fatica a rifiutare le sollecitazioni
(Anne-Marie Saunal) La più grande difficoltà dell’essere umano è di non riuscire a dire no a sollecitazioni che pure non desidera accettare. Le ragioni di questo paradosso sono molteplici. La prima va ricercata nell’infanzia.L’educazione
I nostri genitori, la scuola, la chiesa ci hanno insegnato a ubbidire, a dire sì “per il nostro bene”. Questo bene è equiparato a quello della famiglia, della società o della comunità. Dire sì alle sollecitazioni che da lì provengono è manifestare che si appartiene a quella entità, essere tutt’uno con essa e perfino sacrificarsi per essa. Dire no è prendere le distanze, trasgredire la legge simbolica trasmessa dal padre per correre il rischio di essere tagliati fuori, respinti e non essere più amati. È così che a cinquant’anni molti sono ancora incapaci di dire no a una richiesta dei propri genitori.
L’immagine di sé
La seconda ragione della nostra difficoltà a dire no è legata all’immagine che si vuole dare di sé. Opporre un rifiuto a una richiesta significa che non siamo onnipotenti, che abbiamo dei limiti, in termini di tempo e di energia. A volte, quando credono a un ideale, religioso o no, donne e uomini si costruiscono personaggi sempre disponibili per gli altri, al punto di dimenticare di prendersi cura di sé. Dire no a una richiesta che serve la causa equivale allora a cadere dal proprio piedistallo di militante. A volte questa totale disponibilità per degli impegni pubblici maschera anche un rifiuto nei confronti delle sollecitazioni dei parenti stretti, del coniuge o dei figli, necessariamente più discrete. Non saper dire no dissimula quindi a volte un’incapacità di dire sì.
Io e l’altro
Eppure la maggior parte delle persone si rammarica di non poter dire no. “Il trauma del primato dell’altro” è una delle molle che glielo impediscono. Esso consiste, nella cultura giudaico-cristiana, nell’accordare la priorità all’altro senza rispettare sé stessi. Dire sì controvoglia e a costo di un certo sforzo genera risentimento nei confronti della persona che ci sollecita e altera di conseguenza la relazione. Il principio di fraternità perde allora il suo significato. La seconda parte del comandamento biblico viene dimenticata: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”. La cura di sé viene meno a scapito del sacrificio di sé. E lo sfinimento incombe.
Conoscere il limite
Aver fatto questa esperienza può insegnare a non essere più un oggetto a disposizione degli altri. A che serve dire sì, arrivare spossati a una riunione e uscire da quell’incontro completamente svuotati? Imparare a chiedere aiuto può anche permettere di dire più facilmente no. Cessiamo di renderci indispensabili. Condividiamo il tempo e le responsabilità. Sperimentiamo che gli uni hanno bisogno degli altri.
Questa esortazione ad avere cura di sé non è un elogio dell’egoismo che è la chiusura in sé. Certe persone, a causa della loro patologia, sono del tutto impermeabili a ogni sollecitazione. Dopodiché, capita fortunatamente che la richiesta dell’altro sfoci in lieti imprevisti anche quando avevamo già deciso di declinarla. La tensione tra il sì e il no, tra la cura di sé e la cura dell’altro non scompare mai, l’essenziale è riuscire a rendere fecondo questo conflitto, scegliendo, in parole e in atti, “che il vostro sì sia sì, che il vostro no sia no” (Matteo 5,37).
Anne-Marie Saunal, psicologa e psicanalista, è autrice di Psy, délivrez-nous du mal! edito dalle Editions de l’Atelier (da Vie Protestante; trad. it. G. M. Schmitt).
Tratto da: http://www.voceevangelica.ch/
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