Il secondo stato più grande dell’Africa è anche la più grande miniera del mondo, una ricchezza che è al tempo stesso una condanna.
Le ultime settimane hanno portato con sé pessime notizie dalla Repubblica Democratica del Congo. In particolare, lo scorso 24 marzo nella provincia del Kasaï, nel centro-sud del Paese, gli uomini della milizia Kamuina Nsapu hanno attaccato alcuni agenti di polizia mentre percorrevano la strada che collega il villaggio di Tshikapa a quello di Kananga, uccidendo 40 persone. Pochi giorni dopo, invece, nella stessa regione sono stati ritrovati i corpi di due investigatori delle Nazioni unite e del loro interprete, scomparsi da alcune settimane. I due facevano parte di un gruppo di esperti che l’Onu aveva inviato nella Repubblica Democratica del Congo per verificare l’applicazione delle sanzioni inflitte dal Consiglio di sicurezza al regime guidato da Joseph Kabila.
La Cenco, Conferenza episcopale del Congo, ha denunciato questi massacri affermando che non ci sia giorno senza che venga sparso del sangue e che vengano messi sotto attacco gli edifici religiosi e quelli statali. «Il Kasaï – si legge in una nota – paga uno sporco tributo alle tensioni politiche».
Mentre fino a qualche anno fa i conflitti erano concentrati nell’est del Paese, in particolare nella provincia del Kivu Nord, al confine con il Rwanda e l’Uganda, oggi l’impressione è che i massacri possano avvenire ovunque, senza che il presidente Kabila paghi le conseguenze di una situazione causata anche dalla sua volontà di rimanere al potere, oltre che ai conflitti portati dall’enorme disponibilità di minerali nel Paese. «Kabila – spiega John Mpaliza, ingegnere informatico e attivista che da anni marcia per la pace – è riuscito a giocare tragicamente su più tavoli. Adesso si sta parlando anche di tantissime fosse comuni, 23 soltanto nel Kasaï, e sembra che i due inviati dell’Onu che sono stati rapiti e uccisi stessero proprio indagando su questo».
Perché il Congo ci interessa?
«È semplice: il Congo ci interessa perché è un Paese ricchissimo e da cui proviene la gran parte dei minerali che servono per la nostra tecnologia. Senza questi minerali, come per esempio il coltan, che serve per i telefonini, o il cobalto, che serve per le batterie delle auto elettriche, non potremmo andare avanti. Il Congo è molto vicino a noi perché ce l’abbiamo nelle nostre case, nelle nostre tasche e nei nostri cuori. Ecco, per esempio basta avere una protesi al cuore o una protesi per l’udito ed ecco che abbiamo già dentro di noi un pezzo di Congo. Dobbiamo smettere di pensare che quello che succede a 8.000 km da noi non ci riguardi, perché siamo tutti figli e figlie dello stesso Dio e tutti parte della stessa umanità, e proprio per questo dobbiamo smetterla anche con l’ipocrisia del dire o sentire spesso dire “aiutiamoli a casa loro”: sarebbe bellissimo se fosse possibile, ma questi Paesi, non solo il Congo, offrono sangue dei propri figli e delle proprie figlie per far andare avanti questo mondo così cieco che non guarda altro che il denaro».
Il 16 marzo il Parlamento europeo ha legiferato sul tema della tracciabilità dei minerali. Questo voto rappresenta un passo in avanti?
«Secondo il Parlamento europeo queste norme sulla tracciabilità dei minerali coprono la questione al 90-95%, ma la realtà è molto diversa. All’inizio avevamo chiesto un meccanismo di tracciabilità obbligatoria, ma stiamo scoprendo che le istituzioni non sono veramente così interessate. Certo, sono stati fatti molti passi avanti, perché già solo il fatto di riconoscere questo legame tra i minerali di conflitto e il conflitto stesso, quindi tra l’estrazione di minerali e i massacri, è molto importante ed è proprio legame che si vorrebbe andare a rompere».
Che cosa in particolare non funziona in questo regolamento?
«Rispetto a una legge votata nel mese di maggio del 2015, quando si era stabilito di estendere questo regolamento a tutta la filiera, dal Congo oppure dalla Colombia fino alle tasche dei cittadini, il voto del 16 marzo 2017 ha di fatto azzoppato il provvedimento, perché si è deciso di tracciare soltanto il percorso che va dall’estrazione fino ai primi grandi importatori europei lasciando alla volontarietà una parte del sistema. Questo significa che chi vuole può anche andare ad acquistare minerali in altri luoghi, come la Cina, dove questa tracciabilità non si estende, aggirando le norme. In più sono stati lasciati fuori diversi minerali importantissimi, in particolare il cobalto, che è un minerale “di oggi”, considerando che stiamo andando verso le auto elettriche, che non fanno male e non inquinano ma che utilizzano prodotti dell’estrazione che provengono sempre dal Congo».
Il regolamento è già effettivo?
«Non ancora. Dobbiamo sperare che i singoli stati europei lo recepiscano, perché finora è stato adottato soltanto dal Parlamento europeo. Vedremo se gli stati confermeranno questa impostazione e poi come la metteranno in atto. È possibile che a quel punto si ottengano comunque gli stessi effetti che ci si aspetta, a patto che l’attuazione di questa legge avvenga nel modo più corretto e che pian piano si inseriscano degli elementi correttivi che potrebbero migliorarla».
Per avere una filiera completamente ripulita e libera da conflitti bisognerebbe poter intervenire direttamente sulla situazione congolese. In questi giorni è fallito uno dei tentativi di risolvere la situazione di Joseph Kabila, il presidente, che in sostanza sta riuscendo a prolungare il suo mandato in modo indefinito. Oggi ci sono speranze di veder superare la presidenza Kabila?
«Le speranze sono veramente poche, dopo tanti anni di battaglie portate avanti comincio a essere molto scoraggiato. A metà dello scorso dicembre eravamo tutti convinti che ci fossero spiragli di cambiamento, perché i segnali di un superamento di Kabila c’erano e sembrava che la comunità internazionale fosse ormai determinata. Diciamo la verità, però: si sa che Kabila governa uno dei paesi più ricchi del mondo, e alla scadenza del suo ultimo mandato legittimo tutti sapevano quello che stava per succedere, ma nessuno è intervenuto. Ci sono state risoluzioni del Parlamento europeo e delle Nazioni unite, ma non si è arrivati da nessuna parte, e anche l’ultimo tentativo di risolvere questa crisi, che è stato quello della Conferenza episcopale congolese, è miseramente fallito».
Rimane qualche elemento di speranza a cui aggrapparsi?
«L’unica speranza rimangono i giovani, che però purtroppo sono i più strumentalizzati, usati nel momento giusto e massacrati come delle mosche quando non servono più. Chiunque tenti di fare qualcosa, che siano giovani o altre persone della società civile, viene arrestato con l’accusa di fare parte di qualche milizia. Si è parlato di uccisioni da parte di qualche gruppo paramilitare, ma in realtà ci sono prove che ci siano anche militari governativi che stanno iniziando ad arrestare e massacrare. Quello che succedeva a Beni, i massacri che abbiamo denunciato più di due anni fa e per cui abbiamo fatto una marcia, si è globalizzato e generalizzato, fino a portarci a dire che non c’è più un posto in Congo dove non si stia in qualche modo uccidendo e massacrando. Basta che qualcuno non sia d’accordo, sia i politici dalla maggioranza presidenziale, sia quelli dell’opposizione, non parlano, non fanno niente, ormai la gente è scoraggiata. Tuttavia, come dicevo all’inizio, la speranza nei giovani rimane ed è su questo che in qualche modo bisognerebbe lavorare».
A parte le trattative fallite, si sta facendo qualcosa?
«Il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha emesso un’altra risoluzione, ma ormai siamo stanchi di leggere documenti che non vengono mai applicati. Certo, vengono imposte delle sanzioni a questo regime, ma sono sempre e soltanto dirette verso i militari, lasciando in sostanza Kabila e la sua famiglia al loro posto. Eppure i Panama Papers hanno dimostrato che questa gente, Kabila e tutta la famiglia, continuano a spostare soldi verso paradisi fiscali, si sa anche dove, ma evidentemente non li si vuole colpire per davvero. Sembra che ci sia un piano chiaro e le Nazioni unite non collaborano».
Che cosa intende?
«Ogni volta che viene rinnovata la Monusco, la missione delle Nazioni unite per la stabilizzazione del Congo, che è una macchina gigante che conta 20.000 caschi blu, ci sono dei massacri. L’impressione è che anche questo sia collegato, perché sembra che non se ne vogliano andare per nessun motivo. Anche questo è un grande problema, e dopo tanti anni, dal 1999 sino ad oggi, si è arrivati al punto che l’ambasciatrice statunitense all’Onu, Nikki Haley, ha dichiarato che le Nazioni unite stanno aiutando un governo corrotto e illegittimo che sta massacrando il proprio popolo. Sarebbe veramente ora di decidere qualcosa per il bene di questo paese e di questo popolo, ma anche del mondo intero, perché ormai siamo abituati a non intervenire, e quello che succede in Congo si può riprodurre in altri posti. Il mondo deve capire che non si può più andare avanti così».
Immagine: via Flickr – Responsible Sourcing Network
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