Il Pastore Walter Meier, dell’ufficio pastorale dell’aeroporto di Zurigo, sa bene che cosa stanno passando i suoi colleghi a Düsseldorf dopo l’incidente dell’aereo della Germanwings.
(ve/ref.ch) Intervistato da Oliver Demont, il cappellano riformato Walter Meier (nella foto) ci dice come ha affrontato analoghi interventi in qualità di pastore dell’aeroporto di Zurigo Kloten e come a tutt’oggi non sappia dare alcuna risposta all’atroce interrogativo del perché accadano queste tragedie.
Signor Meier, qual è stato il primo pensiero che ha avuto quando ha appreso della caduta dell’aereo della Germanwings con 150 morti?
Ero sbigottito e ho provato dolore, come credo la maggior parte della gente. Poi ho pensato ai miei colleghi dell’aeroporto di Düsseldorf, al pastore Detlev Toonen. So per esperienza personale di quali forze lui e la sua squadra abbiano bisogno per affrontare i prossimi giorni.
Lei è cappellano riformato presso l’aeroporto di Zurigo ormai da molti anni e avrà già assistito a parecchie tragedie di questo genere. Per esempio quando nel 1998 un aereo della Swissair con a bordo 229 persone precipitò al largo della costa del Canada. Che cosa accade dal momento in cui le arriva la notizia di un’emergenza?
A quel punto prende il via un programma elaborato sin nei minimi dettagli, che tutti speravano che non sarebbe mai stato necessario mettere in atto.
Come può farsene un’idea concreta un estraneo?
Innanzi tutto decidiamo quali capacità devono essere impiegate per la prima assistenza psicologica. A questo scopo ci siamo noi dell’ufficio pastorale ecumenico dell’aeroporto, l’AET-Special-Care, che può contare su circa 100 membri (AET sta per Airport Emergency Team, n.d.r.), e il Care-Team della Swiss. In caso di sciagura con morti e feriti vengono coinvolti tutti e tre. I membri dei Care-Team vengono quindi chiamati telefonicamente.
Nel caso di una sciagura come quella che colpì la Swissair bisogna mettere in conto che in aeroporto arriveranno centinaia di parenti. Come si affronta una situazione così estrema?
All’inizio regna il caos allo stato puro. I parenti si radunano da qualche parte in aeroporto e chiedono in giro. Prima o poi arrivano ai nostri che a loro volta li conducono in una zona controllata dalla polizia, che garantisce loro la protezione da giornalisti e curiosi. Lì noi dell’ufficio pastorale dell’aeroporto ci facciamo carico di coordinare e assegniamo alle singole persone i membri del Care-Team che presteranno loro assistenza.
Come affronta nel concreto l’uomo Walter Meier un impegno del genere?
So per esperienza personale che devo restare calmo. Quindi inizio a esaminare la lista di controllo, punto per punto. Ciò comporta anche prepararmi emotivamente a quello che mi aspetta. In quanto credente ho la possibilità della preghiera oppure posso telefonare a una persona per me molto importante e chiederle: “Pensami. Ho davanti a me un incarico molto difficile”.
Il Care-Team è costituito da curatori spirituali delle chiese cantonali e da psicologi e psichiatri. Perché mai sono necessarie persone di chiesa per svolgere questo compito?
Perché tra i compiti originari della chiesa c’è quello di assistere le persone nel bisogno, star loro vicine e prestare cura pastorale. Questo comprende però anche aspetti assolutamente pratici, diaconali.
Ci potrebbe fare degli esempi?
Sono cose ordinarie a cui bisogna nondimeno pensare in momenti del genere. C’è da bere e da mangiare? Ci sono coperte di lana per chi ha freddo? Ci sono abbastanza fazzoletti di carta per asciugare le lacrime? E se per l’agitazione una persona non riesce più a trovare il telefonino per chiamare qualcuno? Ma siamo presenti anche se una persona vuole semplicemente essere sostenuta.
Che cosa succede quando un parente ha davvero bisogno di aiuto, ma non vuole riceverlo da un pastore?
In questo caso la nostra reazione è immediata. Sulla base della mia formazione – e purtroppo anche della mia esperienza in situazioni del genere – so valutare molto bene quale persona del Care-Team va bene per tale o tal altra persona bisognosa di assistenza. Però è anche sbagliato credere che i curatori spirituali comincino sempre con una preghiera. Facciamo pure questo soltanto se la persona esprime il desiderio di pregare insieme.
Che cosa risponde quando qualcuno le chiede come Dio abbia potuto permettere la tragedia?
So per esperienza che nella fase acuta questa domanda non viene posta affatto. Però mi accorgo che in questi momenti, indipendentemente dalla religione, molte persone attingono forza dalla propria fede. Non è certo una novità, ma sempre sorprendente quando lo si vive così nel concreto. Una volta, in una situazione del genere, un musulmano mi ha detto che era sul punto di perdere il lume della ragione. L’unica cosa che lo trattenne fu poter affidare a Dio tutto il suo dolore e la sua disperazione con le parole: “Prendi tu il controllo. Sono arrivato al loimite delle mie forze e anche della mia capacità di comprendere”.
Tuttavia le chiedo di nuovo: dov’era Dio quando l’aereo della Germanwings è precipitato sulle Alpi francesi?
Non ho alcuna risposta a questa domanda. Questa mancanza di parole però ha il suo valore quando il curatore spirituale sopporta insieme con le persone colpite. Ciò che noi vogliamo come ufficio pastorale ecumenico è creare uno spazio per il dolore del lutto, per esempio tramite un rito funebre. (trad. it. G. M. Schmitt/voceevangelica.ch)
Tratto da: http://www.voceevangelica.ch/
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