Il libro di Giancarlo Mazzuca “Mussolini e i musulmani”: cronache di donne, spade e foto ritoccate.
Esiste un’assonanza tra il cognome “Mussolini” e il sostantivo “musulmani” che è in qualche modo fatidica nonché fatale. A proporci questa fratellanza linguistica e non solo, è il libro Mussolini e i musulmani di Giancarlo Mazzuca (Mondadori); i due nomi s’accostano come se tra loro ci fosse un’attrazione che dà fondamento al legame, a tratti tragicomico, tra islam e fascismo negli anni Trenta. Il cognome di Benito, Mussolini, deriverebbe dal morbido tessuto originario di Mossul, la mussola o mussolina, o addirittura da muslim, musulmano. È noto che il Duce intrattenne con l’islam legami piuttosto sgangherati. All’inizio, da quel mondo non mancarono attestazioni d’entusiasmo: mentre infuriava la battaglia di El Alamein, al Cairo una folla di arabi inneggiava al Duce chiamandolo “Mussa Nili”, Mosè del Nilo.
Di sicuro ci fu una comunione d’intenti: i due radicalismi, fascista e islamista, smaniavano di cacciare gli inglesi e i francesi dal mondo arabo e ambivano a stracciare i trattati di Versailles. Al-Banna, fondatore nel 1928 dei Fratelli Musulmani, imitava lo stile del Duce e si fece megafono – insieme a Amin al Husseini, il Muftì di Gerusalemme – della propaganda antisemita. Si arrivò alla formazione di battaglioni islamici nelle Waffen SS, con il teschio sul Fez e la scimitarra sul colletto. Il Gran Muftì chiese appoggio a Mussolini nel 1936: soldi e armi per combattere l’immigrazione ebraica in Palestina e un team di esperti per avvelenare l’acquedotto di Tel Aviv. Il Duce inizialmente accettò senza poi assecondare il progetto genocida. Ma nel 1938 emanò le leggi razziali proclamando gli ebrei i primi nemici da combattere. Grazie a quelle gli arabi non erano più considerati “semiti puri” ma si erano “arianizzati”, creatori di civiltà superiori; del resto, il loro principale esponente, il Muftì, era biondo con gli occhi azzurri. Il tempo ha cancellato tutto? Nemmeno per sogno: Mein Kampf e I Protocolli dei savi di Sion sono ancora oggi best-seller nel mondo arabo.
Scritto con Giammarco Walk, il dotto e gradevole libro di Mazzuca racconta storie che lasciano stupefatto il lettore per quanto sembrano lontane da noi, eppure proprio in quei tempi ci giocavamo la supremazia del mare e del deserto. Facciamo un passo indietro per capire quali demoni soffiassero su certa Italia. Innanzitutto: cherchez la femme. Nell’aprile del 1913 l’allora direttore dell’Avanti incontrò la scrittrice anarchica Leda Rafanelli, toscana convertitasi all’islam qualche anno dopo la sua permanenza ad Alessandria d’Egitto. Aveva aderito al sufismo, studiava scienze occulte, era un tipo stravagante e curioso che si vestiva spesso da odalisca. Anche lei vantava un’origine islamica, gitana, suo nonno era uno zingaro arabo, il Duce era attratto dalla donna e avvicinandosi a lei si avvicinò all’islam.
Vent’anni dopo sarà un’altra donna eritrea, la “Sceriffa di Massaua” discendente dell’imam Alì e maestra di una confraternita iniziatica, a dire: «Nessuno è stato con la mia religione e con me così nobilmente largo di ogni aiuto quanto il Duce. Egli si è detto lieto e fortunato di conoscere in me la Shrifa discendente del profeta Muhammad, che Allah lo benedica e lo conservi. Il Duce è nel cuore dei musulmani di tutto il mondo perché è giusto, coraggioso, deciso e perché difende la loro fede». Come il Duce era sensibile alle donne arabeggianti, così gli arabi furono attratti dalla luce di Roma, convinti della grandezza e della saggezza della nuova Italia fascista.
Pieno di energia e di spirito d’iniziativa, il Duce era pronto per l’apoteosi simbolica di questa unione. Il 20 marzo del 1937 era nell’oasi di Bugàra, nei dintorni di Tripoli: il capo di un contingente berbero, Iusuf Kerbisc, gli consegnò una spada, intarsiata di arabeschi e fregiata in oro massiccio, coronamento di questo sogno, o allucinazione, africano. Nella foto il Duce ostenta la sua corporatura robusta, eretto in sella a un cavallo, come a dimostrare di essere sempre più forte dei suoi avversari; eccolo sguainare in alto la spada dell’islam puntandola verso il sole e gridando l’urlo di guerra; assieme ai duemila cavalieri arabi Mussolini-Muslim inneggia a un’immancabile vittoria. L’anno successivo a Tripoli fu innalzato un monumento equestre. L’iscrizione sul basamento di travertino recita: «A Benito Mussolini, pacificatore delle genti, redentore della terra di Libia, le popolazioni memori e fiere dove fiammeggiò la spada dell’islam, consacrano nel segno del littorio, una fedeltà che sfida il destino».
La realtà è più misera e comica: dalla celebre foto raffigurante Mussolini in sella a un cavallo era stato rimosso il palafreniere che lo teneva per la cavezza, il Duce doveva dare l’immagine di condottiero perfettamente padrone di sé e guai se il cavallo avesse fatto bizze intaccando la scena. E la famosa spada? Era stata fatta in Toscana su ordine del Duce e dopo il 1937 non fu più utilizzata; fu messa in una teca di vetro a Rocca delle Caminate, casa estiva del Duce. Del pregiato oggetto non si ebbero più tracce quando la Rocca fu distrutta e depredata dagli antifascisti. Chi oggi l’ha appesa in casa?
«Lo butteremmo nel Tevere»
Più che il Muftì o il Duce, a fare qualcosa di buono per i musulmani fu Italo Balbo. Dal 1933 era governatore della Libia e si prodigò per costruire alcune strade, edifici pubblici, ospedali, acquedotti, scuole, chiese, nuovi alloggi per i più poveri. Si oppose alle leggi razziali, all’asse con i tedeschi e all’entrata in guerra. Indro Montanelli lo incontrò furioso dopo un colloquio con il Duce a Piazza Venezia, nel 1940, assieme a Leo Longanesi: «Questo pazzo, disse Balbo, vuole trascinarci in guerra, se avessimo i coglioni lo pugnaleremmo e lo butteremmo nel Tevere». Anche Gian Galeazzo Ciano e tanti altri avevano la stessa idea, ma nessuno il coraggio. Forse l’avrebbe finalmente trovato Balbo, se fosse vissuto ancora un po’ anziché morire ucciso dalla contraerea del Duce. Con lui precipitò anche ogni politica orientale italiana. Sconfitti, gli eserciti fascisti e nazisti lasciarono il campo dopo Alamein e tornarono da dove erano partiti. Gli inglesi avevano vinto, e da lì non si fermarono più.
Foto Ansa
Tiziana Della Rocca | Tempi.it
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