Lunedì 27 luglio il principale oppositore politico del presidente Pierre Nkurunziza, Agathon Rwasa, ha partecipato alla seduta inaugurale dell’Assemblea Nazionale a Bujumbura e tre giorni dopo ha accettato l’elezione a vicepresidente del Parlamento, avvenuta grazie soprattutto ai voti del partito di governo. Questa decisione e questa apertura, tuttavia, si scontrano con il rifiuto, da parte di Rwasa, di riconoscere la vittoria del presidente in carica dal 2005.
Il Burundi di oggi si scontra quotidianamente con contraddizioni come questa, e la decisione di Rwasa rischia di spaccare non solo lo schieramento di opposizione, ma anche la sua stessa coalizione, che si era schierata contro una nuova presidenza di Nkurunziza.
Il clima nel paese, insomma, resto teso sia dal punto di vista politico sia sociale, e le pressioni della comunità internazionale sembrano inefficaci. Per provare a capire perché, è necessario ripartire dalle proteste dei mesi scorsi, sfociate prima in un tentato colpo di stato e poi in un’incursione armata nel nord del Paese, causate dall’annunciata decisione del presidente Pierre Nkurunziza di candidarsi per un terzo mandato.
Mentre la costituzione burundese consente soltanto due mandati presidenziali, i sostenitori di Nkurunziza e del suo partito, il Cndd–Fdd, che ha guidato il paese sin dalla fine della guerra civile nel 2005, hanno sempre ribattuto che il suo primo incarico fosse un’eccezione allo statuto, in quanto stabilito dal parlamento e non attraverso suffragio diretto. Quando a maggio la Corte costituzionale burundese ha affermato questa posizione, gli Stati Uniti, la Tanzania e parte della comunità internazionale hanno deciso di sospendere la cooperazione per la sicurezza, minacciando di tagliare gli aiuti e di imporre sanzioni, mosse che avrebbero dovuto spaventare un paese che dipende dagli aiuti internazionali per oltre metà del suo budget annuale.
Eppure, le minacce occidentali non hanno prodotto reazioni concrete, nonostante questo paese senza sbocco sul mare e dipendente dall’agricoltura si trovi in una fase di grave crisi economica. Con la prospettiva di nuove violenze, il commercio e soprattutto l’integrazione politica con la Comunità dell’Africa dell’Est sono destinati a peggiorare, ma nonostante questo la posizione di Nkurunziza non sembra essersi indebolita.
I prossimi mesi determineranno se il governo burundese tornerà al tavolo negoziale con i donatori e le organizzazioni internazionali, magari accettando altri sacrifici politici, come quello già compiuto dell’includere le forze dell’opposizione nell’attività parlamentare o come il meno probabile disarmo di Imbonekature, l’ala giovanile del CNDD-FDD, implicata in alcune delle proteste e delle violenze pre-elettorali che hanno spaccato il paese negli ultimi mesi e sospettata di tentativi genocidari in tutto il paese.
I paesi occidentali hanno sempre avuto un ruolo egemone nell’area, ma il cambiamento è già in corso, e non sembra lontana la possibilità che i maggiori donatori vengano rimpiazzati da altri disposti a imporre meno condizioni politiche e sociali in cambio dell’aiuto economico. Nello scorso decennio, in particolare, la Cina è diventato il donatore e partner economico preferito dai regimi politici instabili nel continente africano proprio in virtù di questa disponibilità, e le conseguenze per il continente sono importanti: i dati raccolti dal sistema ACLED, Armed Conflict Locator Events Dataset, evidenziano una stretta connessione tra la Cina, i paesi africani politicamente isolati e gli stati di violenza, un legame che mette in discussione la tradizionale immagine di una politica estera cinese discreta e “non ingerente”.
Un regime come quello di Nkurunziza, in particolare, rafforzato dalle elezioni e con finanziamenti senza condizioni da parte cinese, potrebbe aumentare la repressione, soprattutto di fronte all’ipotesi di una resistenza armata da parte di alcuni settori della popolazione, e ancor più in un paese che sulla legittimità del terzo mandato ha visto spaccarsi anche le principali confessioni religiose del paese, quella cattolica e quella evangelicale, che avevano rappresentato un importante elemento di coesione sociale dopo gli accordi di Arusha del 2005 con cui si era posto fine alla lunga guerra civile.
Quindi quali sono le possibilità per il Burundi? Gli Stati Uniti e altri hanno discusso dell’ipotesi di sanzionare gli attori che hanno partecipato alle violenze, ma è improbabile che queste misure abbiano effetto sul regime a meno che non vengano implementate sanzioni a tappeto, come accadde durante la fase finale della guerra civile. Azioni come queste, però, sembrano molto lontane dalla realtà, in particolare per il ruolo di Russia e Cina, che hanno bloccato tutte le risoluzioni e le azioni delle Nazioni Unite sulla crisi burundese, chiedendo che i donatori internazionali non interferiscano negli affari interni del Burundi.
In un paese in cui i passi incerti e le divisioni dominano la scena, l’uomo forte diventa ancor più potente, e la democrazia perde slancio. Soltanto l’unità potrà permettere a un paese che dieci anni fa usciva da una tragedia di non ritornarci.
Copertina: “Pierre Nkurunziza – World Economic Forum on Africa 2008 1” by Copyright World Economic Forum (www.weforum.org)/Eric Miller,mailto:emiller@iafrica.com emiller@iafrica.com) – Pierre Nkurunziza – World Economic Forum on Africa 2008. Licensed under CC BY-SA 2.0 via Wikimedia Commons.
Marco Magnano
da: Riforma.it/i
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