(Genesi 30,31-42) Labano gli disse: «Che cosa ti devo dare?» Giacobbe rispose: «Non darmi nulla; se acconsenti a quello che sto per dirti, io pascolerò di nuovo le tue greggi e ne avrò cura. Passerò quest’oggi in mezzo a tutte le tue greggi, mettendo da parte ogni agnello nero tra le pecore, ogni agnello macchiato e vaiolato; e tra le capre, le vaiolate e le macchiate. Quello sarà il mio salario. Così da ora innanzi la mia giustizia parlerà per me in tua presenza quando verrai ad accertare il mio salario: tutto ciò che non sarà macchiato o vaiolato fra le capre e nero tra gli agnelli, sarà rubato, se si troverà presso di me». Labano disse: «Ebbene, sia come tu dici!» Quello stesso giorno mise da parte i becchi striati e vaiolati e tutte le capre macchiate o vaiolate, tutto quello che aveva del bianco e tutto quello che era nero fra gli agnelli, e li affidò ai suoi figli. Labano frappose la distanza di tre giornate di cammino tra sé e Giacobbe; Giacobbe pascolava il rimanente delle greggi di Labano. Giacobbe prese dei rami verdi di pioppo, di mandorlo e di platano e vi fece delle scortecciature bianche, mettendo allo scoperto il bianco dei rami. Poi collocò i rami, che aveva scortecciati, nei rigagnoli, negli abbeveratoi dove le pecore venivano a bere, proprio davanti alle pecore, ed esse entravano in calore quando venivano a bere. Le pecore dunque entravano in calore presso quei rami e figliavano agnelli striati, macchiati e vaiolati. Poi Giacobbe metteva da parte questi agnelli e faceva volgere gli occhi delle pecore verso tutto quello che era striato e tutto quello che era nero nel gregge di Labano. Egli si formò così delle greggi a parte, che non unì alle greggi di Labano. Tutte le volte che le pecore vigorose del gregge entravano in calore, Giacobbe metteva i rami nei rigagnoli, sotto gli occhi delle pecore, perché le pecore entrassero in calore vicino a quei rami; ma quando le pecore erano deboli, non ve le metteva; così gli agnelli deboli erano di Labano e i vigorosi di Giacobbe.
Pare che la percezione dei colori, così come li vediamo noi, dipenda dalla variazione della lunghezza d’onda della luce che si riflette da qualche parte. Questo per quanto attiene all’occhio umano; nel caso degli animali, invece, le cose sono diverse.
Nella Bibbia i riferimenti ai colori sono molto frequenti, anche se non sempre è possibile identificare i colori ivi citati con le classificazioni nostre moderne; ci sono alcuni colori che noi traduciamo in un certo modo, ma non so se corrispondano esattamente. Pensate al techelet, che è l’azzurro – tra l’altro il colore della bandiera israeliana e quindi ormai entrato a far parte della nostra cultura e tradizione. Orbene gli studiosi non sono per niente convinti che questa espressione indichi proprio l’azzurro; qualcuno dice che indica piuttosto il verde, qualcuno dice il giallo. Sempre parlando della terminologia non c’è dubbio che alcuni termini, che indicano i colori, sono in riferimento a degli elementi coi quali sono collegati. Ad es. la parola adòm, che traduce rosso, non c’è dubbio che abbia la stessa etimologia di dam, che vuol dire sangue. La stessa radice dalla quale deriva adàm, che è l’uomo e adamà, che è la terra. Perché l’uomo si chiama così? Intanto perché è fatto di sangue, ma anche perché è stato creato dalla adamà; si dice che Dio ha preso della adamà, del terriccio rosso, ci ha soffiato sopra ed è venuto fuori questo bel capolavoro che siamo noi. Una considerazione analoga potrebbe essere fatta per yaròck, che traduciamo con verde; in Gen 1 si parla di yerek, nel senso di verdura. La parola lavàn, che indica il bianco, sembra che provenga dalla considerazione che, per chi sta in Israele, il Libano rappresenta il nord, dove nevica e quindi il posto che è al di là del bianco. Comunque la radice semitica, entrata nell’ebraico solo posteriormente, indica i prodotti del latte. Nell’ebraico moderno si chiama lebenià lo yogurt. La parola zahòv, che vuol dire presumibilmente giallo, fa venire in mente la parola zahàv, oro. Un discorso molto ampio e che può essere visto da molte ottiche, riguarda l’arcobaleno. Secondo la tradizione biblica è il segno del patto stabilito da Dio con l’umanità di non ricorrere più all’acqua per distruggere il mondo. Nella tradizione ebraica c’è una duplicità di considerazione nei confronti dell’arcobaleno: c’è chi lo vede in modo molto positivo, come intervento di Dio e sua promessa di salvezza, ma c’è anche chi lo vede in modo negativo e addirittura c’è una tradizione che dice che non bisogna neanche guardare l’arcobaleno, perché fa venire in mente un passo di Ezechiele dove si dice che l’aspetto della presenza di Dio è un qualcosa di luminoso simile all’arcobaleno nel giorno in cui ci sono le nuvole; quindi l’arcobaleno è, in qualche modo, una rappresentazione della maestà di Dio e noi non possiamo guardarla. Qualcuno dice che è negativo perché comunque sta a ricordare i nostri peccati.
Da un paio di giorni è trascorsa la ricorrenza del lag ba-homer; in questa festa si celebra, in qualche modo, la figura di rabbì Shimòn bar Yochai, inventore della cabalà, autore dello Zohar. Si dice che questo signore era talmente ben voluto da Dio che, per tutta la sua vita, non è mai comparso l’arcobaleno nel mondo. Nonostante questo, altre interpretazioni dicono che l’arcobaleno è segno di pacificazione, perché è l’arco, strumento di guerra, ma voltato verso l’alto, quasi come se Dio decidesse di non rivolgere la sua arma contro la terra, ma contro il cielo. Vorrei proporvi un’interpretazione suggerita da Umberto Cassato, grande studioso italiano del secolo scorso, un innovatore del modo di studiare la Bibbia; tenendo conto degli aspetti formali di quanto viene detto nel racconto dell’arcobaleno, istituisce un parallelo tra quanto viene detto dell’arcobaleno e le norme che riguardano lo tzitzìt, cioè le frange che l’ebreo osservante pone agli angoli del proprio manto per la preghiera, le quali hanno lo scopo di ricordare all’ebreo quelli che sono i suoi doveri. Cassato nota che questa espressione del ricordare è riproposta con lo stesso ritmo sia nella storia dell’arcobaleno che in quella delle frange, quasi a dire: “Voi uomini mettete queste frange e ricorderete quello che dovete ricordare e io, Dio, guardando l’arcobaleno, ricorderò quello che devo ricordare”. Il talmud minaccia che chi guarda l’arcobaleno, avrà una diminuzione della sua potenza visiva. Lo Zohàr dice che nell’arcobaleno si distinguono tre colori: il bianco, il rosso e il verde; però quest’ultimo presenta delle tonalità che si avvicinano al giallo, come la luce del sole. Non vi compare il nero perché il nero è rappresentazione dell’essenza di Dio, cioè è un qualcosa che non è percepibile, definibile: Dio lo intuiamo, ma non possiamo capirne, né vederne niente. I maestri della cabalà dicono che il verde, il rosso e il bianco sono messi in relazione coi tre personaggi fondamentali della nostra storia: Abramo, Isacco e Giacobbe. Abramo è connotato dal verde. Cosa c’entra Abramo col verde? Si fa notare che quasi tutti i popoli arabi, che fanno ascendere la loro origine ad Abramo, Ismaele, ecc. hanno nei colori della loro bandiera il verde. Il rosso fa pensare a Isacco. Il rosso era Esaù, chiamato così, perché quando è nato era rossiccio e perciò Isacco prende questa connotazione dal figlio, suo discendente. Quando, nella tradizione ebraica posteriore, parliamo di Esaù sotto la connotazione di Edòm, da adòm rosso, noi Ebrei adottiamo questo termine per designare Roma; quando si vuol parlare male di Roma, non potendo parlar male di Roma in modo diretto, per motivi di censura, allora parliamo male di Edòm. Perché questo? Perché intanto nella parola Edòm la dalet è quasi uguale alla resh e allora Edòm può sembrare Roma. Allo stesso modo si è adottato Edòm per indicare il cristianesimo; perché cristianesimo era sinonimo di romanità. Pensate in tempi di persecuzione; non era possibile parlar male dei Romani, quando comandavano i Romani e lo stesso valeva per i cristiani. Quindi si diceva: “Noi ce l’abbiamo con Edòm”, tutti capivano cosa si voleva dire.
Il bianco rappresenterebbe Giacobbe, definito uomo pacifico. Ma si può fare un passo più avanti: Giacobbe ha avuto, nel corso della sua vita, una serie di contrasti con il parente Lavàn, cioè bianco. Quindi potrebbe essere colui che ha avuto qualcosa da dire con un certo “bianco”. Un altro passo dello Zohar dice che i colori fondamentali dell’universo sono quattro: il verde, il rosso, il bianco e lo zaffiro, che sono messi in relazione ai quattro animali di cui parla la profezia di Ezechiele. Non si sa se lo zaffiro abbia un colore ben definito. Perché dicono questo i maestri? Si parte sempre da una lettura attenta della Bibbia. C’è un passo dell’Esodo dove si dice che subito dopo e subito prima della promulgazione del decalogo sul monte Sinài, gli anziani di Israele ebbero una visione di Dio. Non sappiamo bene se questo è stato detto in forma negativa o positiva. Comunque c’è una frase che mi lascia molto perplesso: “Videro il Dio di Israele e sotto i suoi piedi c’era come un manufatto di biancore di zaffiro”. E’ un passo difficilissimo e non bisogna trarne delle conclusioni affrettate. Un altro elemento volevo proporre alla vostra attenzione. Talvolta nel testo biblico si mettono assieme elementi che sembrano non andare d’accordo; ad es. si fa riferimento al rapporto che c’è tra i suoni e i colori. Pensate al salmo 29: “La voce di Dio scava fiamme di fuoco” o ancora nel capitolo che parla della promulgazione del decalogo, si dice: “Tutto il popolo vedevano i suoni e i lampi”. Come si fa a vedere i suoni? Quel vedere vuol dire avere percezione? La tradizione successiva istituisce un simbolismo tra i colori dell’arcobaleno e la preghiera. Quando noi preghiamo, le tonalità assunte dalla preghiera equivalgono ai tre colori fondamentali dell’arcobaleno. Chi pronuncia le parole della preghiera con voce melodiosa, è come se ammantasse la Shekinà di vesti splendenti. Da realtà visiva, l’arcobaleno viene a coinvolgere altre percezioni: il suono e la modalità di suono con cui io esprimo la mia preghiera. Un altro elemento trattato molto diffusamente dalla mistica, riguarda il nostro patriarca Giacobbe. Il testo biblico ci presenta il conflitto tra lui e Lavàn come esempio, quasi a provocarci, per sapere chi tra i due era più imbroglione dell’altro. Giacobbe aveva l’indole di ingannare, che poi ha cambiato alla fine della sua vita e Lavàn era maestro di inganno. Giacobbe aveva lavorato 14 anni per lui, per poter sposare le sue due figlie; a un certo punto decide di cambiare il contratto e si stabilisce di dividere il gregge che apparteneva a Labano in questo modo: tutti gli animali che erano di colore a tinta unita spettavano a Labano, mentre quelli maculati erano di Giacobbe. Ovviamente erano più frequenti le nascite di animali a tinta unita. Da quel momento in poi, gli animali che nasceranno con pelo maculato sarebbero stati di proprietà di Giacobbe. Intanto Labano cosa fa? Prende tutto il gregge e lo fa tosare, così che non si possa più distinguere se un animale ha il pelo maculato o no. Allora Giacobbe studia uno stratagemma, che consiste nel mettere dentro gli abbeveratoi degli animali dei rami con la corteccia intagliata, in modo che si crei nell’acqua un riverbero chiazzato; lui aveva, infatti notato, nei lunghi anni di pastorizia, che gli animali sottoposti a questo trattamento, figliavano più capi di bestiame con pelo maculato. E così avvenne. Questo è il senso più semplice del testo, ma andiamo più in profondità. Intanto c’è un’espressione per indicare perché le pecore restavano incinte di animali che sarebbero stati di due colori, allorché Giacobbe aveva provveduto a “scoperchiare il bianco”, intendendo il bianco di parti della corteccia. L’autore ci sollecita; lavàn è bianco; scoperchiare il bianco può voler dire scoperchiare il colore bianco, ma anche scoperchiare Labano. Lo scoperchiamento del bianco viene interpretato dai maestri della mistica come la prima fase della creazione. La creazione è avvenuta in che modo? Mi sento molto imbarazzato, perché dico delle cose che possono essere interessanti, ma non possiamo gustarle appieno, perché bisognerebbe guardarle nel testo originale. Bene. Prima c’era il nero, le tenebre, cioè la presenza di Dio, l’imperscrutabile; poi viene scoperchiato del bianco, che dà origine alla creazione. Come se Giacobbe avesse intuito che per creare elementi nuovi, bisognava scoperchiare il bianco.
Come ha fatto Dio a creare l’universo?
Ovviamente non lo sappiamo. Tra le varie proposte che ci vengono offerte, non per darci una risposta, ma per sollecitarci a ragionare, si dice che Dio per creare la parte materiale dell’universo, ha preso un pugno di neve che si trovava sotto il suo trono, l’ha buttato nell’acqua ed è scaturito l’universo e noi nasciamo dall’acqua raggrumata, dalla neve. Dio scrosta una parte del suo trono per fare intravedere un po’ di bianco. Quando si parla del testo biblico, come è stato scritto, la tradizione mistica sostiene che la prima stesura del testo biblico era “nero sopra bianco”; da qui nasce la tradizione che il rotolo della Torah che noi adoperiamo nella liturgia, è preferibilmente scritto con inchiostro nero su un supporto bianco, per rievocare la prima forma. Quelle lettere creative, di cui Dio si serve per creare l’universo, erano nero sopra bianco. Un altro raccontino, che sembra un po’ ridicolo, ma non c’è niente di ridicolo nel testo biblico. Ricordate il fatto della primogenitura di Esaù e Giacobbe? Chi è il primogenito veramente? Chi esce per primo? Il testo biblico è ironico. Nella generazione successiva si parla di Tamàr e Yehudà, Giuda. A un certo punto si racconta che questa donna, Cananea, è rimasta incinta e al momento del parto l’ostetrica si accorge che ha due gemelli. Allora cosa fa costei? Memore di quanto era avvenuto per Esaù e Giacobbe, appena fuoriesce un braccino di uno dei due, ci mette subito attorno uno shanì, cioè lana rossa. Appena fatto questo, il bambino ritira la mano ed esce prima l’altro; quello col nastrino, esce per ultimo. Stesso problema: chi è il primogenito? La parola shanì, lana rossa, si può leggere anche shenì, che vuol dire secondo. Quasi come se l’ostetrica avesse determinato chi dovesse essere il secondo. Nella costruzione del tabernacolo e nella confezione degli abiti dei sacerdoti, si fa frequente riferimento ai materiali usati e ai colori. Ci vengono presentati dei colori che sono difficili da identificare, tra cui c’è l’azzurro, il rosso, il bianco, ecc. Tra i paramenti del sommo sacerdote compare un qualcosa di misterioso, che va sotto il nome di urìm e tummìm. Si pensa che il sacerdote avesse sul pettorale un supporto, presumibilmente quadrangolare, dove erano incastonate delle pietre preziose di vario colore che rappresentavano in qualche modo i nomi delle tribù di Israele. Urìm e tummìm di per sé non vuol dir niente. Potrebbe significare luci e integrità. Sembra che questo strumento servisse per interrogare la volontà di Dio; quando c’erano dei grossi problemi di carattere internazionale, interrogavano Dio attraverso queste pietre che, forse, si illuminavano in un certo modo; cioè si illuminavano le pietre che rappresentavano le lettere dell’alfabeto con le quali erano scritti i nomi delle tribù, in modo tale da dare una risposta.
Tra i colori viene ricordato l’argamàn rosso scuro e il techelet, che noi chiamiamo azzurro. Da dove si ricavava questo techelet, il quale doveva far parte degli abiti sacerdotali e poi era uno dei fili che doveva far parte di quelle frange degli abiti che tutti gli Ebrei devono indossare? Dice il testo biblico che noi dobbiamo indossare un manto, ai quattro angoli del quale ci sono dei fili bianchi, ma uno di questi fili deve essere di techelet, azzurro. Studi a non finire per capire cosa fosse questo techelet; sembra che fosse uno dei colori più costosi nell’antichità: un grammo di techelet valeva come 600 grammi d’oro. Come si ricavava? Ce ne parla il Talmud, che dice si ricavasse da un mollusco frequente nelle coste mediterranee, dal quale si doveva prelevare una piccola ghiandola che, spremuta, dava una sostanza, da cui si ricavava prima il techélet e poi, con un ulteriore trattamento, il rosso, l’argamàn. Questi colori avevano la capacità di non scolorire nel tempo. Qualcuno ha identificato questo mollusco col murex trunculus, o col murex brandalis. Questo techélet era talmente costoso che qualcuno aveva provveduto a inventare un surrogato vegetale, che costava molto meno, ma che non aveva le stesse caratteristiche. La traduzione della Bibbia dei Settanti traduce techélet con giacinto. Il grande commentatore Rashì dice che in realtà non era azzurro, ma verde; anche se riguardo a un passo del Pentateuco dove appare questo termine, dice che è simile al colore scuro del cielo al tramonto. Ai tempi biblici, uno degli elementi principali della celebrazione del giorno di Kippùr, oltre il digiuno, le preghiere, ecc. era la cerimonia del capro espiatorio, che si svolgeva al tempio di Gerusalemme. Per fare la celebrazione il sacerdote doveva avere due capri uguali; di questi uno veniva sacrificato nel tempio, mentre l’altro veniva mandato nel deserto, in una certa località chiamata Azazél (oggi, nella lingua corrente, mandare qualcuno a Azazél, vuol dire mandarlo al diavolo) e veniva scaraventato giù da una rupe e, precipitando, cadeva nel fondo dell’abisso a pezzettini. Sembra che il significato del rito fosse quello di far pensare che questo capro caricasse su di sé tutti i peccati del popolo. Nelle corna di questo capro veniva legata una striscia rossa, nel momento in cui veniva sorteggiato per andare in Azazél; ma la striscia veniva tolta quando il capro partiva e veniva posta in un luogo ben visibile del santuario; si dice che tutto il popolo stesse attento a guardare la striscia, perché se la striscia diventava bianca, voleva dire che Dio aveva perdonato i peccati del popolo, altrimenti no. Si racconta che i sacerdoti decisero, a un certo momento, di non mettere più la striscia sulla porta del santuario, perché la gente, invece di pregare e chiedere perdono per i peccati, guardava la striscia. E’ in riferimento a Isaia che dice: “Se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve”. Il libro dei Numeri ci racconta che le tribù di Israele erano collocate nell’accampamento secondo una precisa disposizione e ognuna aveva una sua bandiera, connotata da certi disegni e colori. Vi faccio solo un esempio: la bandiera della tribù di Ruben aveva come sfondo il colore rosso e qualcuno dice che Ruben fa venire in mente rubino. Nella descrizione della manna si dice che era “come un seme di coriandolo bianco”. Coriandolo si dice gad, ma gad è anche il nome di una tribù di Israele. I nostri maestri dicono che c’è un’analogia tra la manna e la tribù di Gad: la tribù di Gad si stanziò al di là del Giordano, fuori della terra di Israele e la manna scendeva solo fuori della terra di Israele. Quasi come se la manna e la tribù di Gad rappresentassero un qualcosa al di fuori del territorio stabilito da Dio. A proposito della manna, un grande commentatore, Moshè ben Nachmàn (sec. XII) dice: “Sappi che la manna proviene dalla luce superiore, che si è materializzata per volere divino”. Un altro cabalista, Moshè Cordovero, dice: “La manna, in quanto parte del connubio tra principio maschile e principio femminile, può evocare una realtà nella quale l’energia maschile raggiunge la femmina”. Anche per il colore bianco la manna può richiamare il seme maschile.
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