Sangue, violenza, fede, sacrificio. Gli ingredienti per la gibsonata perfetta ci sono tutti. Hacksaw Ridge è grande cinema. La lunga attesa non è stata vana.
Di Mel Gibson si può pensare quel che si vuole, ma di certo con lui è sempre grande cinema, e lo è anche questa volta. Il suo nuovo film, La battaglia di Hacksaw Ridge, nelle sale italiane dal 2 febbraio, Tempi lo ha già strapromosso preventivamente alla cieca cinque mesi fa. Non sbagliava.
La storia è quella – vera – di Desmond T. Doss (Andrew Garfield), un umile, devotissimo cristiano avventista del settimo giorno della Virginia che durante la Seconda Guerra mondiale decise di arruolarsi volontario in fanteria e fu spedito a Okinawa, dentro a una delle più terrificanti battaglie del conflitto. A mani nude. Doss infatti era un obiettore di coscienza, e fu il primo soldato obiettore a ricevere la medaglia al valore nella storia militare americana. Perché quando ormai il suo battaglione era stato respinto dai giapponesi giù dalla scarpata di Maeda (Hacksaw Ridge), lui rimase sul campo di battaglia da solo e senza sparare un colpo trascinò in salvo 75 compagni feriti.
Sangue, violenza, fede, eroismo, sacrificio. Gli ingredienti per la gibsonata perfetta ci sono tutti e le attese degli spettatori non saranno deluse. Mel Gibson ti prende, ti sbatte dentro la guerra, carica ogni momento di passioni e sentimenti devastanti, ti costringe a commuoverti mentre intorno tutto brucia ed esplode e crepa. La potenza delle scene di combattimento è spaventosa, per un’ora di film su due si fissa lo schermo atterriti aspettando il momento in cui moriremo anche noi, domandandoci perché mai ci si debba ammazzare a decine per catturare un dannato bunker che domani mattina sarà di nuovo inondato di giapponesi.
Uno come Mel Gibson non poteva non restare estasiato davanti alla figura di un uomo che si getta disarmato nelle fauci di un simile inferno, pronto a rischiare la pelle per i compagni. «Non c’è amore più grande di questo…», ha ricordato evangelicamente il regista in una conversazione pubblica con la Academy degli Oscar, che giustamente ha nominato Hacksaw Ridge per ben sei statuette (tra cui miglior film, miglior regia e miglior attore protagonista).
Desmond non tocca armi, non lavora il sabato, non mangia carni. È un personaggio buonissimo eppure stranamente non si riesce a odiarlo. Forse perché la sua purezza non è frutto di un volontarismo ma della semplicità: si butta a kamikaze in tutto quello che suscita in lui qualcosa, un’attrattiva, un desiderio. Non sa nemmeno difendere bene le sue convinzioni, ma ci si gioca la faccia sempre e comunque. E non solo quella. La prima metà del film è il racconto della sua ostinata decisione di partire da obiettore per il fronte e della enorme, crudele opposizione che lo aspetta nelle forze armate. Non era una cosa così banale all’epoca rifiutarsi di imbracciare un fucile. «Abbiamo un problema», ammette a un certo punto il capitano Glover. «Ma l’esercito degli Stati Uniti non fa errori, quindi il problema devi essere tu». Cercano di congedarlo per infermità mentale, lo trasformano nello zimbello della compagnia, lo chiamano Desmond il vigliacco. Gli insinuano dubbi, gli danno maniche di botte, provano a rovinargli la vita. Lo mandano davanti alla corte marziale. Ma lui non cede.
È chiaro che si tratta di un uomo fuori dal comune, «un “eroe vero” in un panorama cinematografico invaso da immaginari “supereroi”», come dice Mel Gibson. «Io non riuscirei a diventare come lui neanche in un milione di anni, ma Desmond dà una speranza a tutti noi». La speranza secondo Mel Gibson è «vedere un uomo ordinario che in circostanze terribili è capace di cose straordinarie». E non per chissà quali doti (Doss era pure un po’ mingherlino), ma per la forza della coscienza. «Cosa vuoi da me? Non capisco. Non ti sento», domanda Desmond a Dio nel momento della disperazione. Gli risponderà il grido di aiuto di un compagno ferito. (Per chi ha orecchi per intendere e occhi per vedere, è questa la scena in cui si capisce davvero cosa intende Mel Gibson quando parla di coscienza).
«Perché diavolo sei ancora qui?»
Sessant’anni, fisico appesantito ma ancora nerboruto, barba potente da profeta (purtroppo rasata qualche giorno fa), occhio matto che sfavilla. È bello sapere che Mel Gibson è tornato. Erano dieci anni esatti che non girava un film, l’ultimo è stato Apocalypto, e quando a settembre al Festival di Venezia gli hanno chiesto di riassumere in una parola il suo rapporto con Hollywood, ha detto: «Survival». Sopravvivenza. Il suo mondo lo aveva messo in un angolo, come se nel bilancio di una vita contasse di più una serataccia da ubriaco di una intera carriera passata a infilare un filmone dietro l’altro. Non era il debole per l’alcol a renderlo intollerabile a colleghi e giornalisti. Non erano i piatti volati con la seconda moglie. Non erano nemmeno le ingiurie antisemite sfuggitegli in una notte di ebbrezza e polizia, a lui che da sobrio non ha mai odiato gli ebrei. «Why the Hell are you still here?». «Perché diavolo sei ancora qui?». Nel silenzio del soldato Doss davanti alla domanda esasperata del commilitone suo persecutore sembra di rivedere un po’ della lunga lontananza di Mel. E dire che sarà proprio Desmond il vigliacco, con la sua insopportabile coscienza, a restituire ai compagni un motivo per combattere.
La battaglia di Hacksaw Ridge è un film che obbliga a riflettere, sulla guerra vera e propria ma anche su certe guerricciole morali di Hollywood. Che invece sarebbe un posto perfino peggiore senza uno come Mel Gibson. Oscar tutta la vita.
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