Gli jihadisti della porta accanto

Lo jihadista della porta accanto. Era Youssef Zaghba, marocchino-italiano con madre a Bologna il terzo uomo dell’attentato a Londra del 3 giugno. Dopo Anis Amri, lo stragista di Berlino ucciso da due poliziotti italiani a Sesto San Giovanni (Milano) lo scorso 23 dicembre, ecco un’altra vicenda di terrorismo internazionale in cui l’Italia è direttamente coinvolta. Abbiamo, per due volte in un anno, lo scomodo ruolo di esportatori di terroristi nel resto d’Europa.

“Jihadisti della porta accanto” è il titolo del documentario di Channel 4 in cui si mostrava la vita, i proseliti e l’attività propagandistica degli jihadisti di Londra. Fra questi era inquadrato più di una volta anche Khuram Butt, la mente dell’attentato sul London Bridge. Era stato segnalato, addirittura filmato, ma non c’erano le prove per arrestarlo. Lo stesso si può dire per Youssef Zaghba, ben noto alle nostre forze dell’ordine. Nel marzo del 2016 lo avevano arrestato all’aeroporto Marconi di Bologna mentre cercava di andare in Turchia e di lì in Siria, munito di un solo zaino e di un biglietto di sola andata. Classe 1995, giovanissimo, padre marocchino e madre italiana, era nato a Fez. I suoi genitori si erano separati e la madre era andata a vivere a Bologna. Youssef aveva la doppia cittadinanza italiana e marocchina. Fra i suoi numerosi viaggi, era spesso dalla madre nel capoluogo emiliano. Nel periodo precedente all’attentato, Zaghba si trovava a Londra e svolgeva un lavoro stagionale in un ristorante.

Quando, nel marzo del 2016, Zaghba era stato fermato all’aeroporto, aveva candidamente detto ai poliziotti, come motivo del suo viaggio di sola andata, “Vado a fare il terrorista”. Era stato denunciato per terrorismo internazionale, ma aveva fatto ricorso al Tribunale del Riesame e aveva vinto la causa. Non c’erano abbastanza prove per sostenere l’accusa di terrorismo internazionale. Sul suo cellulare, sequestrato assieme al pc, c’erano immagini della propaganda jihadista, ma non sufficienti a provare la sua militanza e le sue intenzioni. Essendo cittadino italiano, non poteva essere espulso, come avviene per altri simili sospetti stranieri. Il suo nome, tuttavia, era stato inserito nella lista dei soggetti a rischio. La nostra intelligence afferma di aver condiviso questa informazione con i colleghi britannici e marocchini. Nonostante tutto, Londra afferma che Youssef Zaghba non fosse monitorato.

Il caso di Anis Amri, l’anno scorso, presentava alcune similitudini. Anche Amri era molto noto alle forze dell’ordine italiane e anche lui era stato segnalato come soggetto pericoloso. Tunisino, sbarcato nel 2011 (quando aveva 19 anni) a Lampedusa come “minore non accompagnato”, si era subito distinto per aver fomentato disordini nel centro d’accoglienza. Dei cinque anni che aveva trascorso in Italia, 4 li aveva passati dietro le sbarre. Nonostante tutto, è riuscito ad andare a Berlino, a rubare il tir del polacco Robert Lucas Urban (il primo ad essere ucciso) e compiere la sua strage nel mercatino natalizio di Breitscheidplatz, Berlino. Essendo partito dall’Italia, Amri è tornato in Italia per cercare rifugio e protezione.

Il nostro paese è finora fortunatamente esente da attentati. Per quanto ancora? Questi nomi di jihadisti che maturano la loro radicalizzazione nel nostro paese suonano come un campanello d’allarme. Quanti sono? Secondo il ministro della Giustizia Orlando, in un’audizione alla Camera tenuta il febbraio scorso, in Italia ci sono 393 detenuti sottoposti a monitoraggio nelle carceri , di cui 175 “a forte rischio di radicalizzazione”. 46 sono sottoposti a regime detentivo di alta sicurezza perché accusati di terrorismo internazionale. Dei 393 detenuti sotto osservazione “per rischio di radicalizzazione violenta o proselitismo in carcere”, “la maggioranza – aveva scritto il ministro Orlando – è nata in Tunisia (115), Marocco (105), Egitto (27). Ma ce ne sono anche 14 nati in Italia, di cui tre con cognome di origine straniera”. Per 130, specifica il ministro, “non sono emersi segnali concreti di radicalizzazione; restano però sospettati e sottoposti ad osservazione”. Mentre “88 soggetti, non ancora classificati come radicalizzati, hanno manifestato concreti e ripetuti atteggiamenti, anche in occasione di gravi attentati, che fanno presupporre vicinanza all’ideologia jihadista e quindi propensione alla attività di proselitismo e reclutamento”.

Il carcere, che in tutta Europa si è dimostrato essere uno degli ambienti in cui la radicalizzazione è più frequente, è un “osservatorio privilegiato”, secondo il ministro Orlando. Ma non è tutto. Lo jihadista di Bologna non rientra in queste statistiche: era a piede libero. Dunque questi numeri vanno letti come una parte di un problema più ampio. Secondo fonti dell’anti-terrorismo de Il Giornale, in Italia sono schedati e monitorati 100 potenziali terroristi. La popolazione dei sospetti, di vario grado è fra i 1000 e i 2000 radicali islamici. Oltre ai detenuti sotto osservazione di cui parla il ministro Orlando, il problema è costituito anche da 400-500 individui pericolosi che sono stati scarcerati.

Intanto gli attentati in Europa e in tutto il mondo occidentale proseguono. Il 5 notte, un sequesto lampo a Melbourne, Australia, finito con la morte del terrorista e il ferimento di tre persone. E ieri un tentativo di attentato da parte di un “lupo solitario” a Notre Dame di Parigi, conclusosi con il ferimento e la neutralizzazione del fallito jihadista, armato di martello e coltelli: Farid Ikken, franco-algerino quarantenne di professione ricercatore universitario, che aveva giurato fedeltà all’Isis. L’immagine di fedeli e turisti, spaventati e con le mani alzate, all’interno della cattedrale parigina, sta già diventando il simbolo di un’Europa terrorizzata. L’Italia continuerà a restarne immune?

di Stefano Magni | Lanuovabq.it


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