Dal jihad al conflitto etnico religioso e alla guerra civile. Gli atti terroristici dei gruppi armati islamici attivi in Africa sub sahariana, le violenze, i saccheggi, la distruzione di beni e proprietà appartenenti ai cristiani e alla Chiesa hanno come fine di liberare territori e stati dalla presenza degli “infedeli” e, anche se questo obiettivo fallisce, impadronirsene e imporvi la shari’a, la legge coranica. I jihadisti contano su un consenso più o meno ampio, a seconda dei contesti: può anche darsi che la maggior parte dei loro connazionali di fede islamica non li sostenga e anzi li biasimi. Quel che ottengono in ogni caso è di accrescere tensioni e ostilità tra comunità etniche tradizionalmente educate alla diffidenza reciproca e in perenne competizione per le risorse: una competizione che nelle aree rurali, ad esempio, non di rado degenera in scontri armati a scopo di razzia e di controllo di terreni e sorgenti.
Se il livello di tensione tra le comunità etniche, divise inoltre dalla religione, raggiunge un punto critico è strage, violenza fuori controllo ed è così che dal jihad si passa alla guerra civile.
È quanto sta succedendo nella Repubblica Centrafricana, un paese di 4,5 milioni di abitanti, in gran parte cristiani, ma con un 15% circa di islamici concentrati nel nord. Finora, tormentati da regimi autoritari (fino al delirio, nel caso dell’imperatore Bokassa, negli anni 70), cristiani e islamici avevano convissuto senza seri contrasti.
Adesso invece tra di loro è scontro armato, tanto esteso e cruento che gli Stati Uniti il 21 novembre, due giorni dopo aver consigliato ai loro cittadini ancora nel paese di partire “immediatamente”, hanno dichiarato che la Repubblica Centrafricana si trova ormai in una situazione di “pre-genocidio”.
Tutto è incominciato poco più di un anno fa quando tre movimenti antigovernativi hanno formato una coalizione chiamata Seleka. Lo scorso dicembre la coalizione, dopo essersi organizzata militarmente nel nord del paese, ha intrapreso un’offensiva armata conclusasi il 24 marzo con la conquista della capitale Bangui e la destituzione del presidente François Bozize. Un mese dopo il golpe, il leader di Seleka, Michel Djotodia, islamico, si è autoproclamato presidente promettendo una transizione democratica entro 18 mesi, il che gli è valso il riconoscimento da parte della comunità internazionale. Invece di stabilizzarsi con la conclusione della crisi istituzionale, la situazione da allora è andata aggravandosi di giorno in giorno. Una ondata di violenza ha colpito la popolazione: saccheggi, devastazioni, omicidi, rapimenti, stupri, torture, esecuzioni sommarie. Ne sono responsabili i miliziani Seleka che, da 3.500 a marzo, sono diventati 25.000 e che in gran parte rifiutano di deporre le armi, nonostante che a settembre il presidente Djotodia abbia sciolto la coalizione. Tutte le testimonianze concordano nel sostenere che i Seleka sono islamici e che la maggior parte di loro sono stranieri, provenienti quasi tutti dal Ciad e dal Sudan, i due stati con cui la Repubblica Centrafricana confina a nord. È certo che scelgono le loro vittime tra i cristiani, risparmiando quasi sempre i musulmani. Molti sacerdoti, pastori e suore hanno perso la vita, chiese ed edifici religiosi vengono saccheggiati, incendiati e distrutti, scuole e ospedali inclusi.
I 1.400 militari inviati dall’Unione Africana – missione Misca – in aiuto alle forze dell’ordine centrafricane e alle truppe Fomac, fornite dai paesi della Comunità economica dell’Africa Centrale, non riescono a contenere la violenza. Si contano 400.000 sfollati e 64.000 profughi. Inoltre 1,6 milioni di persone, più di un terzo della popolazione, sono praticamente prive di mezzi di sostentamento e hanno bisogno urgente di soccorsi per sopravvivere. Un dramma nel dramma è poi il coinvolgimento di migliaia di bambini arruolati e indotti a combattere: secondo l’Unicef, tra 5.000 e 6.000.
Si prospetta quindi la necessità di una missione delle Nazioni Unite che si vorrebbe composta da almeno 6.000 unità. Il 18 novembre il Segretario dell’Onu Ban Ki-moon ha consegnato al Consiglio di Sicurezza un rapporto in cui chiede appunto un intervento internazionale per fermare «un livello allarmante di violenza intercomunitaria che minaccia di degenerare in un conflitto religioso ed etnico con conseguenze gravi, inedite e incontrollabili anche al livello regionale».
A far precipitare la situazione verso la guerra civile, forse il genocidio, è stato il fatto che, abbandonati a se stessi, nelle regioni controllate dai combattenti Seleka i cristiani hanno incominciato a organizzarsi creando milizie di autodifesa chiamate “anti balakas”, anti-machete, disposte non solo a difendere persone e beni, ma anche a contrattaccare dando la caccia ai musulmani: migliaia di cristiani pronti a sfidare lo stesso esercito che non li protegge e che integra gli ex ribelli se consegnano le armi. A rendere i cristiani più determinati e combattivi è la convinzione diffusa che in realtà il governo, per la prima volta nella storia del paese guidato da un islamico, miri a imporre la shari’a e che il colpo di stato di Seleka sia parte di un progetto islamista di prendere il potere in una vasta area che comprende alcuni degli stati con cui la Repubblica Centrafricana confina.
Fonte: http://www.lanuovabq.it
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