Due vicende apparentemente differenti, ma che trovano il loro minimo comun denominatore nei bambini e nel loro futuro educativo. Il primo caso si svolge tra l’Italia e l’Ucraina e ne avevamo già dato notizia il luglio scorso con un articolo di Roberto Dal Bosco (Maternità surrogata: il mercato tra Italia e Ucraina). Una coppia vola a Kiev per avere un figlio tramite la pratica dell’utero in affitto, pratica da noi vietata dalla legge 40 del 2004. La cosiddetta maternità surrogata, lo ricordiamo, prevede che una donna esterna alla coppia “offra” il proprio utero per la gestazione e, nella maggior parte, dei casi il proprio ovocita che verrà fecondato dal maschio della coppia richiedente.
I due dunque pagano parecchie decine di migliaia di euro e così dopo nove mesi ottengono il figlio desiderato. Facciamo un passo avanti: si scoprirà successivamente che anche lo spermatozoo utilizzato per il concepimento non proviene molto probabilmente dal maschio della coppia. La notizia coglierà di sorpresa anche i due aspiranti genitori. Insomma quest’ultimi biologicamente con il bambino non c’entrano nulla.
La coppia dunque torna in Italia e dopo un anno e mezzo si scopre l’imbroglio e i due vengono denunciati per alterazione di stato: figurano come genitori ma per il nostro ordinamento non possono esserlo. Infatti il bambino, per la nostra legislazione, può risultare loro figlio solo se figlio biologico (legittimo o naturale riconosciuto) o se adottato. Non solo, ma a differenza di altri casi analoghi accaduti a Varese, Catania e Trieste, il bambino viene sottratto alla loro potestà e viene affidato ad una struttura protetta. Questo proprio perché nessuno dei due, nemmeno l’uomo, è genitore biologico del figlio. Insomma agli occhi della legge questi due signori millantano una genitorialità che non esiste né in punta di diritto né sotto il profilo genetico. La coppia protesta e afferma che ormai il piccolo dopo un anno e mezzo si è affezionato a loro. Questo a dimostrazione che una volta rotto il vaso è quasi impossibile mettere insieme i cocci. L’ultima udienza del 22 ottobre rimanda il tutto al 14 gennaio del 2014. Staremo a vedere.
I difensori della legge 40 che vieta tutto questo papocchio esultano, dicendo che una volta tanto la legge tiene e i giudici, sempre una volta tanto, applicano correttamente la normativa e non la contraddicono. Tutti contenti quindi? No, e non solo perché il primo pensiero deve andare a questo piccolo, frutto degli esperimenti alchemici sulla vita ed ora, per la seconda volta, vittima dell’egoismo degli uomini. Ma anche perché si fa festa alla legge 40 ignorando che questo stesso festeggiato sarà causa, prima o poi, dell’accoglimento nel nostro ordinamento giuridico della pratica dell’utero in affitto.
Il paradosso si può spiegare così. Simili vicende giurisprudenziali offrono la sponda a quanti affermano che la libertà delle coppie di avere un figlio è fortemente limitata dalla legge 40. Quante coppie – si domanda – sono costrette a volare all’estero per ottenere quello che qui in Italia è vietato? Che la legge cambi perché – ed è qui il passaggio fondamentale – la legge 40 ha riconosciuto sì il “diritto al figlio” artificiale ma non in modo pieno. Dunque il peccato originale è già tutto nella legge del 2004: concedendo che un figlio possa venire concepito fuori dal corpo della donna appare illiberale limitare tutte le altre pratiche che sono alla fine un corollario di questo primo principio sancito dalla legge. D’altronde che differenza c’è se il concepito si sviluppa solo per una manciata di ore in un vetrino per poi procedere all’impianto o per nove mesi in utero di una terza donna? Non è sempre un luogo diverso dal ventre della donna ricevente? Che differenza c’è se il figlio è geneticamente di entrambi oppure no? Al centro della legge 40 non c’è quasi esclusivamente l’interesse della coppia? Se così non fosse si dovrebbe vietare in radice qualsiasi pratica di fecondazione artificiale dato che questa attenta alla vita del nascituro in modo importante esponendolo ad un elevatissimo rischio di morte.
Quindi queste vicende processuali non sono segnali di vittoria per i pro-life, ma colpi di ariete all’impianto di una legge che di suo è sempre stato marcio.
Seconda vicenda. Una bambina di tre anni è stata affidata in modo temporaneo ad una coppia omosessuale di mezz’età. I due uomini già conoscevano la piccola. Il Tribunale dei minori di Bologna ha interpretato davvero in modo curioso la disciplina normativa sull’affido. La legge 149 del 2001 che ha novellato l’istituto dell’affido dispone così all’art. 2: “Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo, […] è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l’educazione, l’istruzione e le relazioni affettive di cui egli ha bisogno. Ove non sia possibile l’affidamento nei termini di cui al comma 1, è consentito l’inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza, in un istituto di assistenza pubblico o privato”. In buona sostanza il giudice, dietro consiglio dei servizi sociali, ha pensato che la coppia gay o deve essere considerata “una comunità di tipo familiare” oppure una “famiglia” vera e propria.
Partiamo dalla prima ipotesi: le “comunità di tipo familiare” sono ad esempio le cosiddette “casa famiglia”, cioè strutture destinate all’accoglienza di minori, anziani e soggetti problematici. E’ una realtà ben disciplinata da un decreto ministeriale del Ministro per la Solidarietà Sociale del 21 maggio 2001. In esso non si fa riferimento nemmeno per inciso al fatto che due persone omosessuali possano costituire una “comunità di tipo familiare”. Insomma la “comunità di tipo familiare” per legge non può essere identificata in una coppia gay.
Se poi per ipotesi il magistrato ha pensato di qualificare la coppia gay come “famiglia”,basterebbe il dettato costituzionale all’art. 29 per ricordare al signor giudice che allo stato attuale l’unica famiglia esistente dal punto di vista giuridico è quella formata da un uomo e una donna uniti in matrimonio.
Sorvoliamo poi sul fatto che gli affidatari devono essere in grado di fornire una sana educazione al bambino: d’altronde lo scorso gennaio la Corte di Cassazione stabilì che “sostenere che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale è un mero pregiudizio”. In realtà la Corte non diceva che due persone omosessuali sono sempre in grado di crescere un figlio, ma voleva che la prova contraria venisse da chi si opponeva all’affido, altrimenti saremmo scaduti in un mero pregiudizio. Ma la sostanza sta nel fatto che la Suprema corte non si era mostrata contraria all’affido di minore ad una coppia omosessuale.
Infine, a termini di legge, la precedenza nell’affido deve essere a favore di famiglie che hanno già figli minori, poi di famiglie senza figli e infine di persone singole. Possibile che non abbiano trovato nessuno in grado di prendersi cura di questa bambina tra tutte queste categorie di persone e che la scelta ultima sia caduta su questa coppia omosessuale?
Tutte queste riserve sono state fatte proprie dalla Procura minorile di Bologna la quale già si era dichiarata contraria all’affido ai due uomini della piccola e forse quindi deciderà di impugnare il provvedimento.
La vicenda, superfluo a dirsi, aiuterà non poco gli attivisti gay ad ottenere il “matrimonio” omosessuale: i giudici hanno già deciso che un bambino può essere educato da due persone dello stesso sesso, cosa aspettiamo allora a concedere loro il matrimonio, il ricorso alla Fivet e l’adozione? Abbiamo già un legame simil genitoriale: è necessario perciò tutelare con un vincolo solido, cioè giuridico, questi bambini che sono già inseriti in un ambiente omosessuale.
Due vicende che come dicevamo all’inizio paiono diverse ed invece sono accomunate da più aspetti. Il primo: il bambino è per paradosso il grande assente in queste storie. Dietro allo sbandierato “interesse per il bambino” si cela invece l’interesse esclusivo degli adulti. Spingersi fino a richiedere un bambino “per procura” tramite l’intervento di una terza donna è segno che il desiderio del figlio, in sé nobilissimo, è diventato pretesa. Affidare una bambina poi ad una coppia gay esaudisce i desideri della coppia, ma non soddisfa di certo, ci dicono gli studi scientifici, i bisogni del minore.
In secondo luogo il bambino è un pacco postale: in deposito nove mesi nell’utero di una donna, recapitato poi in Italia e poi tolto ai destinatari perché l’indirizzo era sbagliato. Un pacco poi affidato al miglior offerente sul piano ideologico. La mossa di affidarlo alle cure di due persone omosessuali è infatti politicamente assai vincente: è nel trend di oggi appoggiare incondizionatamente la cause dei gay, anche se lo scotto lo pagheranno i bambini. A riprova di questo il Tg2 di ieri delle 13 ha definito la vicenda come “una storia a lieto fine”. Il minore così da soggetto di diritto è diventato oggetto di strumentalizzazione ideologica e di propaganda filo-omosessualista.
In terzo luogo le due vicende trovano un punto di saldatura comune nel fatto che la famiglia naturale è ormai un reperto antropologico del giurassico. Un bambino oggi può dire che ha come genitori non un maschio e una femmina tra loro sposati che lo hanno messo al mondo, ma due che hanno cliccato su un sito di una clinica per la fecondazione artificiale o due persone dello stesso sesso. Il piccolo poi apprenderà a distinguere tra genitorialità biologica, di secondo piano, e genitorialità legale-giurisprudenziale, di primo livello. Cioè imparerà a raccontare agli amichetti che è nato sì da X e Y, posto mai che lo sappia, ma poi i “veri genitori” sono altri e se l’interlocutore, piccolo o grande che sia, avrà la pazienza di ascoltare la spiegazione del fanciullo che si snoderà tra provette, viaggi all’estero, certificati di nascita fasulli, analisi del DNA, sentenze dei tribunali e articoli di leggi, alla fine scoprirà chi davvero sono papà e mamma.
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