«I nostri figli sono così fragili che prendono ogni idea diversa dalla loro come un’offesa. E ne invocano la censura». Intervista all’intellettuale di sinistra Claire Fox.
«Sono di sinistra perché credo davvero nella libertà e nei diritti delle donne. Non ho cambiato le mie posizioni, se mai è la sinistra che le ha tradite». È così che l’intellettuale Claire Fox, inglese, libertaria, già militante del Partito comunista rivoluzionario, spiega a Tempi perché ha deciso di scrivere il libro I Find That Offensive! (Lo trovo offensivo!), in cui denuncia i danni causati alle nuove generazioni dal pensiero unico politicamente corretto. Un pensiero in realtà «antiliberale e nemico della donna», secondo Fox.
La scrittrice, oggi direttrice del think tank Institute of Ideas che ha contribuito a fondare, cominciò a frequentare il Partito comunista rivoluzionario negli anni dell’università e per il ventennio successivo ne è stata una dei leader. È stata a lungo anche co-editrice della rivista del partito, Living Marxism. Come molti intellettuali anticonformisti, Fox si fa tanto amare o tanto odiare per la sua inafferrabilità. Particolarmente dibattute, anche perché insolite per una figlia della sinistra radicale, le sue posizioni a favore del “governo minimo” e della libertà di pensiero, appunto. La sua condanna del multiculturalismo e del politicamente corretto le ha attirato le critiche del suo stesso mondo.
Claire Fox, lei parla dei giovani come della “Generation Snowflake”, generazione fiocco di neve. Cosa intende?
È il nome con cui vengono descritti i ventenni americani e britannici incapaci di affrontare tutto ciò che si pone come problematico o che viene percepito come offensivo, solo perché contrasta con il loro modo di pensare, che poi è quello del mainstream generale. Sono così fragili che, di fronte a un’idea diversa dalla loro, chiedono che venga eliminata per essere lasciati in pace. Accade perché non sono assolutamente in grado di opporsi a visioni differenti con argomentazioni ragionevoli. Sono inconsistenti come fiocchi di neve, appunto.
Come mai ha deciso di scrivere un libro su questi giovani?
Sono rimasta colpita particolarmente da un episodio, avvenuto durante uno dei dibattiti con gli studenti in cui sono stata invitata negli ultimi anni: ero di fronte a una platea di diciassettenni in una scuola superiore e dovevo parlare loro della violenza sessuale. Chiesi loro cosa pensassero del caso di un calciatore famoso che era stato condannato per questo reato e che poi era stato riassunto dalla sua squadra dopo aver scontato tutta la pena. Mi risposero che era sbagliato, che quell’uomo sarebbe dovuto restare in carcere a vita. Io argomentavo che invece era giusto che avesse un’altra possibilità, una volta pagato il debito con la giustizia. Di fronte alle mie parole, le ragazzine cominciarono a piangere e urlare scandalizzate, ribattendo solo che non potevo sostenere una cosa del genere perché la violenza sessuale condanna per sempre la vittima. Risposi che non è così, che il riscatto è possibile. A quel punto l’unica cosa che riuscivano a ripetere era che non potevo parlare così perché era offensivo. Ma questo è solo un esempio: nelle conferenze a cui partecipo accade lo stesso quando metto in discussione il multiculturalismo o difendo il diritto di espressione dei cristiani su certi argomenti.
Perché secondo lei i ragazzi sono incapaci di opporsi razionalmente alle argomentazioni altrui?
Praticamente nella maggioranza delle università americane e inglesi è diventato impossibile usare parole come “nero” o “grasso” perché considerate discriminatorie. L’Università di East Anglia, ad esempio, ha vietato a un ristorante messicano interno di distribuire sombreri per non rinforzare gli stereotipi. Insomma, riconoscere l’evidenza delle diversità, che pure esistono, è ormai catalogato come un atto eversivo e offensivo. Non c’è ragionamento contrario ammissibile. L’Università di Edimburgo ha addirittura minacciato di espellere una studentessa che durante un incontro aveva alzato la mano per esprimere il suo disaccordo su un argomento trattato. Significa che i professori crescono i ragazzi insegnando loro che non devono essere disturbati da opinioni discordanti da quelle del pensiero unico. E così fanno l’esatto contrario di quanto dovrebbero: educare i ragazzi alla critica, proponendo posizioni chiare con cui confrontarsi per aiutarli a crescere capaci di argomentare e ragionare. Per lo stesso motivo, ci ritroviamo con una gioventù ossessionata da tutto, persino dall’ambiente e dal cibo, spaventata da un grammo di sale in più nei pasti. E poi ci chiediamo pure come mai questi ragazzi sono così patologicamente fissati con il corpo e la salute.
Cosa c’entrano queste ossessioni con il “politicamente corretto”?
Entrambe le cose sono prodotti della paura che nasce da una stessa idea educativa, quella di una generazione, la mia, per cui il valore più importante è quello del consumismo e del benessere borghesi e per cui il massimo dell’esistenza è vivere indisturbati. Solo che poi, siccome la vita resta piena di contraddizioni, quando si presentano le avversità si è incapaci di reagire. Aggiungo poi che questo tipo di educazione è pericoloso anche per un altro motivo: produce il deterioramento delle relazioni accrescendo il sospetto.
Cosa intende?
L’emergenza antibullismo, così come le campagne antiviolenza e antidiscriminazione tanto in voga nelle scuole, come anche il divieto per gli insegnanti ad avere contatti con gli alunni che non siano strettamente professionali, sono misure deleterie: da una parte si cresce con la paura, tanto che perfino una bravata (per esempio un ragazzo che faccia schioccare il reggiseno a una compagna) viene denunciata come l’atto di un maniaco sessuale; dall’altra si finisce per sospettare che ogni gesto affettivo di un adulto nasconda un secondo fine. In questo modo le donne hanno sempre più paura degli uomini e i ragazzi non sanno più distinguere uno scherzo o un gesto affettuoso da un abuso. Questo sfocia nella diffidenza verso gli adulti e rende incapaci di accettare il rischio implicito in tutte le relazioni, per cui si ripiega sui rapporti fittizi, e tutt’altro che sani, del web.
A che pro gli adulti scelgono questa educazione malsana?
Gli adulti hanno perso la speranza e sono a loro volta pieni di paure. Temono di rischiare e di costruire un mondo migliore. Sono spaventati dall’ambiente, dall’islam, dalle violenze e quindi mettono i figli sotto un guscio: non li fanno più giocare da soli, hanno paura che girino in bicicletta, che si facciano male. Hanno perso la fede nella vita e quindi si difendono da tutto senza accorgersi che così stiamo morendo di depressione. Inoltre si tende a proteggere, e quindi a valorizzare, solo i deboli, le vittime. È una cultura della debolezza, in cui il forte è considerato sempre un violento. Infatti, per essere riconosciuti socialmente occorre fare le vittime, piangere, gridare e farsi riconoscere il diritto di essere confortati senza sforzi. Una società simile non può che essere antisolidale, perché l’altro è sempre un potenziale nemico che lede i miei diritti, come dimostrano i ritornelli del piagnisteo moderno: “Come donne ci sentiamo offese”; “Come musulmani ci sentiamo offesi”; “Come lesbiche ci sentiamo offese”. In nome della difesa dei deboli e del diritto di tutti vige però un sistema tutt’altro che democratico.
Chi lo subisce?
Innanzitutto bisogna dire che i movimenti femminista e antirazzista, ad esempio, non permettono il dibattito e si oppongono con violenza a chi osa mettere in discussione le loro tesi, in nome del fatto che “non puoi parlare perché sei offensivo”. Penso ai cristiani che sono contrari alle unioni fra persone dello stesso sesso e le cui opinioni sono squalificate come violente. La “political correctness” che nega le differenze chiude in un angolo chi invece le riconosce, mostrando il controllo che vige sui pensieri dei cittadini.
Esiste una soluzione a quanto denuncia?
La soluzione sono i giovani, la ragione per cui ho scritto il libro: dobbiamo incoraggiarli a non avere paura della verità e della libertà. Mi colpisce che i più entusiasti siano proprio loro. È come se volessero uscire da questo stato di paura e incertezza, eretto a sistema e difeso dalla mia generazione, ma da cui si sentono oppressi e forzati.
Foto Ansa/Ap
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